Valutazione d'avviamento per cessione di azienda ristorante-bar: l'onere della prova è a carico dell'AdE

l’onere della prova è a carico dell’Ufficio poi spetterà al ricorrente opporre idonei e convincenti argomenti contrari, non potendosi limitare a lamentare l’illegittimità della metodologia di accertamento utilizzata dall’Ufficio e la conseguente erroneità nel calcolo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2289 del 5.2.2016, ha espresso interessanti considerazioni in tema di criteri di valorizzazione dell’avviamento nelle cessioni di azienda.

Nel caso di specie la controversia riguardava l’impugnazione di un avviso di rettifica e liquidazione, con il quale l’ufficio determinava la maggiore imposta di registro, dovuta a seguito della cessione di un’azienda di ristorante-bar-pizzeria.

Il valore dell’avviamento, dichiarato per Euro 150.000,00, non veniva ritenuto congruo dall’ufficio, che lo rideterminava in Euro 932.920,00, avuto riguardo ai ricavi dichiarati dall’affittuaria, per oltre un milione di euro l’anno, per i due anni precedenti.

L’ufficio, a questo proposito, attualizzava l’importo del canone di affitto pari a € 51.646,00, ad un tasso del 5%, ritenuto ragionevole, per l’attività in questione, ottenendo così il valore dell’azienda per € 1.032.920,00, di cui e 100.00,00 da attribuire alle attrezzature e 932.920,00 Euro, come detto, da attribuire all’avviamento commerciale.

Secondo l’ufficio, tale valutazione era, altresì, riscontrata dalla capacità ricettiva dell’azienda, sulla scorta di quanto evidenziato dallo stesso contratto di cessione e in particolare dall’allegato A) in tema di attrezzature cedute, dalle quali poteva desumersi una potenzialità ricettiva media di 200 clienti al giorno.

Avverso l’avviso di accertamento la società cedente proponeva ricorso davanti alla CTP di Ancona (e interveniva la società cessionaria), contestando i criteri di calcolo del valore dell’avviamento, che dovevano a suo avviso tener conto solo dell’utile di bilancio e non del volume d’affari.

La CTP accoglieva le ragioni della contribuente, ritenendo che per la valutazione dei ricavi andasse fatto riferimento al canone di affitto depurato dagli ammortamenti, spese e oneri accessori e, quindi, non ad E 51.646,00, ma ad € 15.000,00.

L’ufficio impugnava la predetta sentenza davanti alla CTR di Ancona, la quale accoglieva l’appello, solo in riferimento all’inammissibilità dell’intervento in giudizio della società cessionaria, confermando, per il resto la sentenza impugnata.

La società cessionaria proponeva allora ricorso davanti alla Corte e l’Ufficio si costituiva, proponendo anche ricorso incidentale.

La cessionaria denunciava dunque la violazione e falsa applicazione dell’art. 105 c.p.c., con riferimento ai principi che consentono l’intervento volontario in giudizio, di un terzo. In particolare la ricorrente, evidenziava come il proprio intervento fosse da considerare come intervento adesivo autonomo, cioè, quell’intervento con il quale il terzo fa valere un diritto incompatibile con la posizione di una o di alcune soltanto delle parti originarie.

La CTR aveva dunque a suo avviso, errato, laddove aveva ipotizzato l’esistenza di due soli tipi d’intervento: quello principale (nel quale l’interveniente fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo) e quello adesivo semplice (di cui al secondo comma dell’art. 105 c.p.c.), escludendo la possibilità di un intervento litisconsortile o adesivo autonomo, nel quale, per l’appunto, il terzo fa valere un proprio autonomo diritto, proponendo una domanda che si affianca a quella già proposta dal ricorrente e che si rivolge nei confronti della resistente.

I giudici di legittimità, tuttavia, respingevano sotto tale profilo il ricorso ed accoglievano l’eccezione dell’ufficio, essendo evidente nel caso di specie la carenza d’interesse dell’interveniente a proporre il ricorso, dato che si trattava di sentenza che aveva deciso favorevolmente la controversia, e potendo pertanto il debitore, ai sensi dell’art. 1306 c.p.c., giovarsi degli effetti favorevoli della stessa sentenza.

L’ufficio, per conto suo, con ricorso incidentale, censurava la sentenza impugnata perché non congruamente motivata sui criteri adottati per la determinazione del valore dell’avviamento, con particolare riferimento, alle modalità di quantificazione degli oneri detratti e delle spese, che avrebbero determinato una diversa misura del canone di affitto, come parametro per la quantificazione del predetto avviamento.

Tale motivo di ricorso, secondo la Corte, era comunque infondato.

Evidenziano infatti i giudici che, in riferimento ai criteri per la determinazione dell’avviamento, la sentenza impugnata era congruamente motivata, ed immune dai vizi logici denunciati, avendo la Commissione di merito evidenziato come l’ufficio non aveva dimostrato la validità dei criteri alternativi adottati per la rideterminazione del valore dell’avviamento.

In particolare, infatti, l’ufficio, prima aveva fatto riferimento all’art. 2 comma 4 DPR 460/96, che, per determinare il valore dell’avviamento dell’attività esercitata, richiama, quale criterio, la percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati, o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi, negli ultimi tre periodi d’imposta, anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento; e poi, tuttavia, aveva calcolato il maggior valore accertato, prendendo come riferimento l’importo del canone di locazione di € 51.646,00, con una attualizzazione in ragione di un tasso del 5% annuo, del quale però non si rinveniva alcuna giustificazione e fondamento.

La sentenza, d’appello, pertanto, evidenziava giustamente, secondo la Corte, la scorretta metodologia alternativa proposta dall’ufficio, e di cui lo stesso ufficio, essendo attore in senso sostanziale nei gradi di merito, avrebbe comunque dovuto giustificare i presupposti.

Tanto premesso in ordine all’esito del giudizio, alcune considerazioni possono essere opportune.

Nell’ambito dei giudizi instaurati avverso avvisi di rettifica, relativi alla maggiore imposta di registro accertata sul valore di avviamento di un’azienda oggetto di cessione, viene spesso imputata agli Uffici dell’Amministrazione la “colpa” di non adottare criteri idonei ad una sua oggettiva valorizzazione, riferendosi in particolare l’Ufficio, nella determinazione del valore di avviamento, al volume d’affari dell’azienda ceduta e non invece agli utili da questa prodotti.

La tesi che in tali casi l’Amministrazione sostiene si basa sulla considerazione che in aziende commerciali di un certo tipo (come appunto per esempio i ristoranti), in cui sono prevalenti l’organizzazione commerciale e la clientela rispetto agli assetti patrimoniali, appare congruo prendere come punto di riferimento l’entità dei ricavi, che è la voce derivante direttamente dall’organizzazione commerciale e dalla clientela, piuttosto che riferirsi al reddito dell’azienda, essendo tale elemento suscettibile di essere dilatato o compresso a seconda dell’entità dei costi, legati però ad una gestione soggettiva della stessa azienda.

Il richiamo normativo al citato art. 4 del Dpr 460/96 (oggi però abrogato) potrebbe anche confermare tale impostazione.

Ma se, come nel caso di specie, si seguono poi criteri alternativi, con dati empirici e non motivati, senza appunto delineare esattamente il percorso logico giuridico che a tale valore avrebbe portato, visto, come evidenziato anche dalla Corte, che, ai sensi dell’art. 2697 c.c. l’onere della prova ricade comunque sull’Amministrazione Finanziaria, la pretesa potrebbe effettivamente risultare non motivata, portando dunque all’annullamento dell’accertamento.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22498 del 4.11.2015, ha del resto a tal proposito confermato che anche al metodo di calcolo indicato dal citato art. 4 dpr 460/96 può attribuirsi comunque solo valore meramente indiziario quanto alla stima dell’avviamento (cfr.Cass. civ. sez. V 28 marzo 2014, n. 7322).

Solo una volta dunque che l’Ufficio abbia adempiuto al proprio onere della prova, spetterà al ricorrente opporre a tale oggettiva determinazione idonei e convincenti argomenti contrari, non potendosi limitare a lamentare l’illegittimità della metodologia di accertamento utilizzata dall’Ufficio e la conseguente erroneità nel calcolo dell’avviamento.

23 giugno 2016

Giovambattista Palumbo