Imposta di registro, abuso del diritto e contraddittorio preventivo

la normativa in tema di abuso del diritto, in caso di contestazioni sull’imposta di registro, legittima riqualificazioni fondate sugli effetti economici degli atti e richiede l’instaurazione di un contraddittorio preventivo?

Quesito

L’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986, che sancisce che “l’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, non risulta essere stato abrogato implicitamente dall’articolo 10-bis del decreto citato.

Orbene, qual è il rapporto tra la norma recata dall’art. 20 del DPR 131/86 e la nuova norma sull’abuso del diritto ex art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente?

 

Intervento del giudice di legittimità

Secondo l’ultimo intervento del giudice di legittimità (Cassazione sentenza n. 9582 del 11 maggio 2016) l’art. 20 del DPR 131/86 non è una disposizione preposta al recupero di imposte eluse, atteso che l’istituto dell’abuso del diritto è disciplinato oggi dall’art. 10-bis della L. 27 luglio 2000 n. 212, che presuppone una mancanza di causa economica cui l’art. 20 del DPR 131/86 non fa alcun riferimento. L’art. 20 non è una norma che definisce l’abuso del diritto nell’ambito dell’imposta di registro.

Occorre attribuire all’art. 20 una mera funzione interpretativa: tale norma semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il collegamento negoziale tra più atti in ragione del loro contenuto intrinseco, ovvero degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale.

L’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986 è una norma interpretativa in base alla quale per la tassazione non ci si deve fermare alla apparenza esteriore dell’atto, ma occorre verificarne la sostanza: se un contratto è denominato “contratto preliminare di compravendita”, ma prevede l’intero pagamento del prezzo e la consegna del bene compravenduto (con accollo di spese e rischi in capo al “promissario acquirente”) sussiste la tassazione come un contratto definitivo e non come un contratto preliminare.

L’art. 20 sancisce il principio secondo cui

“ciò che importa non è cosa le parti hanno scritto (mediante i contratti conclusi) ma cosa esse hanno effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese”.

 

Ad esempio l’art. 20 consente di riqualificare in cessione di azienda (o immobili) il conferimento di beni in società seguito dalla cessione delle quote della stessa che, “se collegati, potrebbero senz’altro essere idonei a realizzare oggettivamente gli effetti della vendita” e cioè il trasferimento della azienda dietro il corrispettivo del pagamento del prezzo.

Non viene a delinearsi, quindi, tra le due citate norme una incompatibilità atteso che le stesse operano su piani diversi

 

Simulazione e abuso del diritto

Inoltre, la fattispecie regolata dall’art. 20 del DPR 131/86 nulla ha a che fare neppure con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione fondata sull’art. 20 del DPR 131/86 avviene anche ove le parti abbiano realmente voluto quel negozio o quel collegamento negoziale che, invece, viene “superato” in sede di interpretazione, puntando l’attenzione sugli effetti “oggettivamente prodotti”.

Ed è utile ulteriormente precisare che la fattispecie regolata dall’art. 20 dpr n. 131 nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel «collegamento» negoziale e questo appunto perché ciò che conta sono gli effetti «oggettivamente» prodottisi. L’abuso non ha nulla a che spartire con i fenomeni di simulazione, di dissimulazione o di interposizione fittizia , né con le questioni valutative o di esterovestizione, in quanto queste attengono a forme di evasione .

Da una parte la contestazione dell’abuso del diritto è assistita da specifiche garanzie procedurali, dall’altra la contestazione dell’abuso diventa residuale: l’Agenzia delle entrate potrà contestare l’abuso del diritto solo se i vantaggi fiscali ritenuti indebiti non possono essere disconosciuti mediante l’applicazione di norme tributarie la cui natura è precettiva.

L’abuso del diritto dovrà essere utilizzato in via residuale, ossia in tutti quei casi dove non solo non vi sia violazione diretta di norme, ma dovesi possa ritenere che “finisca” il legittimo risparmio di imposta. Sono abusive solo le condotte che conducono a un risparmio d’imposta indebito non ascrivibile all’evasione.

L’aspetto di maggiore rilievo del provvedimento del divieto di abuso del diritto si rinviene quando viene stabilito che l’abuso «può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie». In sostanza, il principio fondamentale diviene che l’abuso del diritto si può individuare solamente se il contribuente consegue un vantaggio fiscale illegittimo attraverso fattispecie che non rientrano nell’evasione.

 

Effetti economici e effetti giuridici

La “nuova” lettura dell’art. 20 del DPR 131/86 (Cass. n. 21770/2014), pur condividendo il “ritrovato” ruolo di norma meramente interpretativa dello stesso articolo non legittima riqualificazioni fondate sugli effetti “economici” degli atti, bensì solo qualificazioni fondate sugli effetti “giuridici” degli atti. Una riqualificazione degli atti che si fondi sugli effetti giuridici di essi è, infatti, legata all’interpretazione del contenuto dell’atto stesso, ad un procedimento di tipo ermeneutico, Invece, una riqualificazione che sia legata agli effetti “economici” degli atti, richiede le più ampie cautele che sono state di recente introdotte proprio con l’art. 10-bis della L. 212/2000 alla quale, quindi, bisogna fare riferimento ogni qual volta si intenda “riqualificare” un atto o più atti sulla base degli effetti economici che esso produce.

In caso di violazione dell’articolo 20 del Testo unico 131/1986 il recupero a tassazione può essere avviato anche se l’operazione commerciale è sorretta da una valida ragione economica.

Negli altri casi, invece, il nuovo articolo 10-bis dello Statuto del contribuente prevede la prova, da parte dell’amministrazione, dell’indebito risparmio fiscale.

 

Abuso del diritto

L’art. 20 dpr 131 non è disposizione che dal legislatore sia stata predisposta al recupero di imposte «eluse», questo perché l’istituto del cd. «abuso del diritto» d’imposte in attualità disciplinato dall’art. 10-bis legge 27 luglio 2000 n. 212 presuppone una mancanza di «causa economica» che non è invece prevista per l’applicazione dell’art. 20 dpr n. 131. Norma che invece semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il «collegamento» negoziale in ragione del loro «intrinseco».

E cioè in ragione degli effetti «oggettivamente» raggiunti dal negozio o dal «collegamento» negoziale, come per esempio può avvenire con il conferimento di beni in una società e la cessione di quote della stessa che se «collegati» potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare «oggettivamente» gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo.

La norma contenuta nel testo unico sull’imposta di registro l’art. 20 D.P.R. 131/1986, norma che, quand’anche ispirata purea finalità genericamente antielusive, non configura disposizione antielusiva e non pone, come, invece, fa (in relazione a situazioni specifiche) l’art. 37-bis D.P.R. 600/1973, una generale clausola antielusiva di chiusura, tesa a rendere comunque inopponibili all’amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi, che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Nella prospettiva di cui all’art. 20 D.P.R. 131/1986, si procede alla ricostruzione dell’obiettiva portata, sul piano degli effetti giuridici, dell’attività negoziale posta in essere (Corte di Cassazione, Sentenza 19 giugno 2013, n. 15319).

In tema di imposta di registro, l’art. 20, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, attribuisce prevalenza, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca e agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente; e in tal senso vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati (anche frazionatamente) in uno o più atti.

Pertanto una pluralità di operazioni societarie e/o di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale costituito dal trasferimento della proprietà di beni immobili, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva (Cass., Sez. Civile Tributaria, Sentenza 05/06/2013, n. 14150).

In tema di imposta di registro, la scelta compiuta dal legislatore con l’art. 20 TUR, che dispone che « l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», di privilegiare, nella contrapposizione fra la intrinseca natura e gli effetti giuridici e il titolo o la forma apparente di essi, il primo termine, unitariamente considerato, implica che gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria(Cass., Sez. Civile Tributaria, Sentenza 20/12/2012, n. 23584)

 

Contraddittorio

L’articolo 20 D.P.R. 131/1986 anche se ispirato a finalità genericamente antielusive, non costituisce una fattispecie di elusione fiscale tipizzata; ne consegue la non necessità1 del contraddittorio preventivo con il contribuente.

L’instaurazione di un necessario e inderogabile contraddittorio preventivo prima dell’emissione dell’avviso di liquidazione che rafforzi la quantificazione della pretesa tributaria e riduca la conflittualità nel rapporto con il contribuente è configurato dalla Circolare n 16/e del 28 aprile 2016 dell’Agenzia delle Entrate.

Il confronto preventivo, infatti, costituisce la modalità istruttoria più valida, poiché consente al contribuente di fornire chiarimenti e documentazione utili a inquadrare in modo più realistico la fattispecie oggetto di stima e, nello stesso tempo, permette all’Amministrazione finanziaria di pervenire a valutazioni più trasparenti e sostenibili.

La revisione delle disposizioni antielusive, contenuta nel nuovo art. 10- bis dello Statuto dei diritti del contribuente, è corredata, viceversa, dalla previsione di più adeguate garanzie procedimentali.

Si introduce una forma di contraddittorio obbligatorio pre- accertamento che impone, a pena di nullità, la notifica al contribuente di un questionario volto a comprendere le ragioni sottese alle operazioni.

L’abuso del diritto può essere contestato solamente se l’atto viene preceduto da una specifica richiesta di chiarimenti, a pena di nullità dell’atto impositivo stesso.

Inoltre, in caso di accertamento, è l’Agenzia che, per prima, deve dimostrare la sussistenza della condotta abusiva.

«L’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto» (art. 10-bis, c. 6, della L. n. 212/2000).

 

Inoltre, la norma prevede che l’atto impositivo deve essere motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva e agli indebiti vantaggi realizzati, e deve tenere conto dei chiarimenti precedentemente forniti da parte del contribuente.

In questo modo la norma realizza l’obbligatorietà del contraddittorio preventivo in tema di abuso del diritto, anche se l’obbligo del contraddittorio preventivo, pena l’invalidità dell’atto impositivo, deve necessariamente riguardare tutti gli atti impositivi basati su un’attività istruttoria.

L’abuso del diritto deve essere in particolare accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni.

La richiesta di chiarimenti, in cui devono essere indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto, deve essere notificata entro il termine di decadenza previsto per la notifica dell’atto impositivo.

Tra la data di ricevimento dei chiarimenti ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrono non meno di sessanta giorni.

In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei sessanta giorni.

È prevista una implementazione della disciplina procedurale sotto i seguenti profili:

  • il regime della prova : a carico dell’amministrazione è posto l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica d mercato; a carico del contribuente grava l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali che giustificano il ricorso degli strumenti giuridici utilizzati;
  • la motivazione dell’accertamento: nell’atto di accertamento, a pena di nullità, deve essere formalmente e puntualmente individuata la condotta abusiva;
  • il contraddittorio e il diritto di difesa: devono essere garantiti in ogni fase del procedimento di accertamento ed in ogni stato e grado del giudizio tributario;
  • l’esecutività della sentenza: in caso di ricorso, le sanzioni e gli interessi sono riscuotibili dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale

 

19 maggio 2016

Isabella Buscema

 

1 Attualmente solo ai fini iva l’eventuale violazione di tale diritto comporta la nullità del provvedimento finale emesso. Nei tributi armonizzati come l’IVA, in cui il diritto al preventivo confronto discende in via diretta dal sistema comunitario; l’Amministrazione finanziaria, prima di emettere l’atto impositivo, deve confrontarsi con il contribuente, anche se l’inosservanza di tale obbligo non sempre causa la nullità dell’atto. La nullità si verifica nella misura in cui sia dimostrato che, se il contraddittorio fosse stato instaurato, il procedimento avrebbe avuto (o meglio, avrebbe potuto avere) un esito diverso. Il contribuente, in giudizio, deve addurre le ragioni che avrebbe potuto far valere nel contraddittorio, “e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa”.( Corte di Cassazione sezioni unite sentenza n. 24823 dell’9 dicembre 2015,)