Il compenso amministratore ed il fisco: delibera, congruità e rinuncia

in fase di redazione della dichiarazione dei redditi ricordiamo che la deducibilità del compenso all’amministratore è subordinata al formalismo della preventiva delibera assembleare ed alla congruità degli importi corrisposti; segnaliamo, inoltre, un’anomalia fiscale: la rinuncia al compenso potrebbe comunque comportare la tassazione in capo all’amministratore non socio

ceo-immagineABSTRACT

Nella predisposizione dei dichiarativi deve essere portata particolare attenzione al corretto trattamento tributario del compenso erogato all’amministratore della società. Nel presente intervento si affrontano, con il consueto spirito critico costruttivo, alcune problematiche affrontate dalla Cassazione. Secondo i giudici di legittimità la deducibilità del compenso all’amministratore è subordinata al formalismo della preventiva delibera assembleare e alla congruità degli importi corrisposti. Peraltro i Supremi giudici hanno equiparato la rinuncia al compenso alla riscossione dello stesso con effetto di tassazione in capo all’amministratore dell’importo rinunciato.

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LA DEDUCIBILITA’ DEL COMPENSO SUBORDINATA ALLA PREVENTIVA DELIBERA ASSEMBLEARE

Secondo l’orientamento giuridico recente, la deducibilità del compenso dell’amministratore è subordinata alla preventiva delibera adottata dall’assemblea dei soci, laddove, evidentemente, tale attribuzione patrimoniale non risulti già predeterminata nello statuto sociale.

Tale valutazione giuridica si fonda sulle seguenti motivazioni:

  • Il comma 5 dell’articolo 95 del TUIR riferisce la deducibilità dei compensi che però non possono essere riconducibili ad un’autodeterminazione dell’organo amministrativo, ma devono essere rappresentati da una espressa delibera dell’organo sovrano della società (i soci);

  • L’articolo 2389, comma 1, del Codice Civile prevede che i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dell’assemblea; il successivo comma 3 prevede che il compenso per gli amministratori investiti di particolari cariche (amministratori delegati) in conformità dello statuto è stabilito dal consiglio di amministrazione sentito il parere del collegio sindacale. Tali disposizioni sono il veicolo per affermare che la spettanza dei compensi all’organo amministrativo è subordinata alla preventiva adozione della decisione da parte dell’organo sociale, che ai sensi dell’articolo 2389, ha la competenza in merito.

Tale postura interpretativa tuttavia non è priva di sindacato. Intanto, come appresso verrà verificato, la decisione dei supremi giudici è riferita ad un’ipotesi di approvazione implicita del compenso avvenuta in sede di approvazione di un bilancio indicante il compenso dell’organo amministrativo. Di fatto la sentenza non da indicazione circa il momento in cui la decisione esplicita debba essere formalizzata.

Inoltre, il riferimento esercitato dal comma 5 dell’articolo 95 del TUIR ai “compensi spettanti”, non si ritiene possa essere inteso in conformità alle disposizioni civilistiche ma piuttosto con riguardo al termine “maturati” nel corso dell’esercizio. In altri termini si ritiene che i compensi spettanti siano quelli maturati e che saranno deducibili fiscalmente se pagati. Non è deducibile l’acconto sui compensi non ancora maturati nonostante il criterio di cassa adoperato per la deducibilità fiscale del compenso all’amministratore.

Non va neanche sottaciuto il diverso orientamento adottato dalla Suprema Corte in materia di bancarotta fraudolenta nel caso di compensi non deliberati.

Nella sentenza del 3 dicembre 2015, n. 48017 è affermato che: ”dopo alcune oscillazioni, appare ormai attestata sul principio, condiviso dal Collegio, secondo cui l’amministratore che si ripaghi dei suoi crediti verso la società fallita relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando ovvero comunque ottenendo dalla cassa sociale una somma congrua rispetto a tale lavoro, risponde non di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, ma di bancarotta preferenziale, grazie alla presenza dell’elemento caratterizzante di tale tipo di bancarotta rispetto alla fraudolenta patrimoniale, rappresentato dalla alterazione della par condicio creditorum, essendo irrilevante, al fine della qualificazione giuridica del fatto – dal momento che la norma incriminatrice prescinde dalla relazione dell’autore con l’organismo societario-, la specifica qualità dell’agente di amministratore della società, se del caso censurabile in sede di commisurazione della sanzione a fronte di una possibile maggior gravità, per tale ragione, del reato.

La legittimità della apprensione del compenso deriva, peraltro, direttamente anche dall’articolo 36 Cost., essendo, quindi, determinante,non tanto la regolarità formale della operazione, quanto la corrispondenza tra la somma appresa e l’attività effettivamente svolta per la società.

Ne derivano i seguenti principi:

– Il prelievo a titolo di compenso per le attività lavorative espletate a favore della società possono costituire presupposto per il reato di bancarotta fruadolenta per distrazione (Grave) o per il reato di bancarotta fraudolenta preferenziale (meno grave).

– Il discriminante non è dato (ovviamente) dalla procedura di determinazione del compenso (per autodeterminazione o mediante coinvolgimento dell’organo collegiale dell’assemblea dei soci) ma dalla congruità rispetto alle attività prestate a favore della società dal percettore, congruità (equità) che può e deve unicamente apprezzare il giudice”.

Non vi è dubbio che lo stesso supremo giudice che ha stabilito la necessaria preventiva delibera subordinante la spettanza dei compensi agli amministratori ha valutato, da un diverso angolo di osservazione, la legittimità del riconoscimento delle attribuzioni all’amministratore pur in assenza di una formale delibera assembleare ancorché nei limiti di congruità e coerenza degli stessi, limiti che ai fini della decisione di imputazione del minore o più grave reato di bancarotta assumono latitudine massima.

Sulla base di tale più affidabile principio, allora, non vi è dubbio che il termine spettante di cui all’articolo 95 comma 5 del TUIR non può essere interpretato in sincronizzazione con i termini normativi di cui all’articolo 2389 del cod. civ. che hanno la sola funzione di garantire gli interessi dei soci nelle attribuzioni patrimoniali agli amministratori.

SENTENZA CASSAZIONE DEL 7 marzo 2014, n. 5349

In materia di determinazione del compenso all’amministrazione sono intervenute le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 21933 del 29/08/2008, affermando il principio cui il Collegio ritiene di adeguarsi per cui “con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’articolo 2389 c.c., comma 1, (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al Decreto Legislativo n. 6 del 2003), qualora non sia stabilita nello statuto, e’ necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (articolo 2630 c.c., comma 2, abrogato dal Decreto Legislativo n. 61 del 2002, articolo 1); la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (articolo 2364 c.c., nn. 1 e 3); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (articolo 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (articolo 2393 c.c., comma 2).

Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’articolo 2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.

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LA CONGRUITA’ DEL COMPENSO DETERMINA IL LIMITE DI DEDUCIBILITA’

La giurisprudenza si è pronunciata anche sul sindacato di congruità del compenso affermando che l’Agenzia delle Entrate, pur nel nuovo contesto normativo che non prevede più limiti di deducibilità peri costi in trattativa, ha comunque la facoltà di criticare l’erogazione di compensi eccessivi e non congrui all’amministratore.

Tale impostazione interpretativa, tuttavia, implicherebbe un accertamento ben motivato che appare peraltro da ricondure alle procedure di accertamento dell’abuso di diritto.

In effetti l’amministrazione non può limitarsi a sindacare la deducibilità del compenso erogato all’amministratore ma deve domandare la non opponibilità del trasferimento patrimoniale dalla società all’amministratore ai fini fiscali.

L’atto impositivo deve essere fondato sulle seguenti prove e motivazioni:

  • Prova della sproporzione del compenso erogato all’amministratore; tale prova, che non può ridursi alla verificata perdita del risultato economico della società riconducibile alla erogazione del compenso, deve essere corroborata dalla dimostrazione dell’eccessività dell’attribuzione patrimoniale all’amministratore rispetto a quella ritenuta congrua in considerazione degli standard di settore e tenuto conto delle dimensioni della società erogante. L’agenzia delle Entrate, in altri termini, deve dare compiuta motivazione nel dimostrare che il compenso erogato all’amministratore è significativamente più elevato rispetto al compenso ritenuto congruo e normale per società delle medesime dimensioni che operano nei medesimi settori economici di appartenenza della stessa, come pure dell’assenza di concrete giustificazioni economiche e fattoriali nell’attribuzione di tale esoso compenso; In ogni caso la ripresa fiscale non può eccedere il compenso congruo e normale;

  • Prova dell’effettivo vantaggio fiscale realizzato mediante tali attribuzioni ai sensi delle disposizioni delle norme antiabuso. In tale contesto l’Agenzia delle Entrate dovrà dimostrare che la società e il socio, così operando in cooperazione, hanno realizzato un vantaggio fiscale indebito.

Si ritiene che tutta la procedura di accertamento debba essere, quindi, improntata alle regole previste dall’articolo 10-bis della Legge 212/2000, che disciplina il nuovo regime dell’abuso di diritto prevedendo che: ”Configurano abuso del diritto una o piu’ operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

Ne deriva che se di fatto non si determina alcun risparmio di imposta il sindacato di deducibilità dei compensi non appare proponibile.

Non in questa sede si vuole approfondire l’applicabilità delle regole di accertamento in materia di abuso di diritto, ma si ritiene che il sindacato di deducibilità del compenso esoso dell’amministratore che ha determinato un trasferimento soggettivo della tassazione dalla società all’amministratore e per tale motivo una diversa tassazione, sia riconducibile alle fattispecie presupposto oggettivo delle dette norme in materia di contrasto all’abuso di diritto.

Non sembra possano esserci dubbi nel ritenere che, in ossequio al principio del divieto di doppia imposizione, il mancato riconoscimento della deducibilità del compenso erogato all’amministratore porti con se l’esclusione della tassazione in capo a questi per i medesimi valori.

Corte di Cassazione, Sezione 6 civile Ordinanza 15 aprile 2013, n. 9036

Questa Corte ha affermato (Sez. 5, Sentenza n. 9497 del 11/04/2008), che rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti. Ha altresì ripetutamente ritenuto (di recente Sez. 5, Sentenza n. 4554 del 25/02/2010; Sez. 5, Sentenza n. 26480 del 30/12/2010), che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, incombe al contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del Decreto del Presidente della Repubblica n. 597 del 1973, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 598 del 1973, che del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986; e che, poichè rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruitàdei medesimi.

Tali principi non risultano incompatibili con la formulazione dell’articolo 95, vigente pro tempore, secondo cui compensi spettanti agli amministratori delle società ed enti di cui all’articolo 72, comma 1, sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti. Ed invero, il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili, non confligge con il suesposto principio generale; di talche’ va in questa sede riaffermato che la deducibilità ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 62, dei compensi degli amministratori non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (conf. Sez. 5, Sentenza n. 13478 del 30/10/2001; Cass. 27 settembre 2000 n. 12813), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione.

LA RINUNCIA AL COMPENSO FA TASSARE L’AMMINISTRATORE

Recentemente la Cassazione, con la sentenza n. 1335 del 26 gennaio 2016, ha confermato che la rinuncia dell’amministratore al compenso presuppone l’incasso del credito e quindi la tassazione in capo a questi.

Tale orientamento giuridico è contestato dalla dottrina che marca il distinguo tra il concetto di rinuncia e corresponsione del compenso.

La questione verte sul concetto di incasso giuridico che si realizza per effetto della rinuncia. Condizione necessaria per realizzare l’incasso giuridico, per l’ipotesi di rinuncia al credito, é che tale rinuncia produca un incremento patrimoniale a favore del rinunciante. Tale circostanza si potrà incrociare unicamente se l’amministratore è anche socio della società. La rinuncia al credito del socio, infatti, incrementa il valore fiscale della propria partecipazione.

Non si verifica, invece, incasso giuridico nel caso in cui la rinuncia al credito derivante dal compenso sia effettuata dall’amministratore non socio.

Per la società la rinuncia al credito determina una sopravvenienza attiva che non è tassabile se la rinuncia è operata dal socio amministratore ed invece assume rilevanza fiscale nel caso in cui il rinunciante sia amministratore non socio. Peraltro, la rilevanza fiscale della sopravvenienza attiva deve trovare il suo corrispondente costo contestualmente rilevato e riconducibile all’erogazione del compenso (deducibile).

11 maggio 2016

Mario Agostinelli