Coppie di fatto ed effetti fiscali: la partecipazione agli utili dell'impresa gestita dal convivente

la legge sulle coppie di fatto avrà anche riflessi fiscali: in questo articolo vediamo come tale legge si scontra col TUIR per quanto riguarda la partecipazione del convivente agli utili prodotti in regime di impresa

forte-immagineIl disegno di legge Cirinnà ha ottenuto il via libera definitivo del Parlamento l’11 maggio scorso. Il legislatore ha così disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto. L’approvazione della legge darà luogo ad una serie di effetti fiscali, che in alcuni casi saranno anche molto rilevanti soprattutto per le unioni civili. In questo caso, ai fini fiscali, le unioni avranno una disciplina sostanzialmente analoga a quella prevista per le coppie eterosessuali sposate. Invece per le coppie di fatto gli effetti fiscali saranno molto più limitati.

L’art. 1 c. 46 della legge in esame ha introdotto nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, il nuovo articolo 230-ter. In mancanza di espressa modifica delle disposizioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, gli effetti fiscali della nuova disposizione sono molto incerti.

La nuova disposizione, la cui rubrica è “Diritti del convivente,” così dispone “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

In base ad un’interpretazione letterale della disposizione, il rapporto sembra configurare una fattispecie simile all’associazione in partecipazione. In particolare, con il contratto di associazione in partecipazione, un soggetto (detto “associante”) attribuisce ad un altro soggetto (detto “associato”) il diritto a partecipare agli utili (o alle perdite) derivanti dalla gestione della sua impresa, o di uno o più affari, a fronte di un apporto che può essere di varia natura, purché suscettibile di valutazione economica. L’associato può quindi apportare denaro, crediti, beni in natura così come la propria attività lavorativa, ovvero può effettuare un apporto misto.

Secondo le disposizioni di cui al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, qualora l’apporto sia costituito da solo lavoro, il reddito percepito ha natura di reddito di lavoro autonomo e la relativa remunerazione è deducibile dal reddito di impresa del titolare dell’attività. Viceversa qualora l’apporto sia diverso da opere e servizi, il reddito del percipiente ha natura di reddito di capitale e la relativa remunerazione è indeducibile dal titolare dell’attività. Quest’ultima ipotesi sembra debba essere esclusa in quanto il nuovo art. 230–ter contempla esclusivamente l’ipotesi di apporto di un’attività lavorativa.

Tuttavia, la “ricostruzione normativa”, pur essendo ragionevole, si pone in evidente contrasto con l’art. 53, c. 2, lett. c, del TUIR che, richiamando l’art. 44 del medesimo decreto, fa specifico riferimento al contratto di associazione in partecipazione. Si pone quindi il problema di comprendere la natura del reddito e i criteri di tassazione delle somme spettanti in virtù della nuova disposizione.

Pur in assenza di una specifica modifica dell’art. 5, comma 4 del TUIR, che continua a fare esclusivo riferimento ai redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230 – bis del c.c., la partecipazione agli utili (di cui al nuovo art. 230 – ter) sembra debba essere più correttamente ricondotta nell’ambito dell’art. 5 medesimo. In questo caso, ove la soluzione fosse confermata dall’Agenzia delle entrate, il percipiente risulterebbe titolare di un reddito di impresa dovuto alla sua partecipazione all’impresa gestita dall’altro convivente.

La soluzione, pur apprezzabile, lascia però irrisolti taluni problemi. Ad esempio dovrà essere eventualmente chiarito se, come per l’impresa familiare, la partecipazione agli utili non possa superare il 49 per cento. La soluzione sembra debba essere affermativa in quanto la qualifica di titolare/imprenditore deve essere ancora attribuita all’altra parte convivente. Tuttavia, la soluzione sarebbe in contrasto con una lettura rigorosamente letterale della nuova norma. Sorge poi il problema di individuare in quale atto e se lo stesso debba avere data certa, indicare la partecipazione agli utili dell’impresa.

La nuova diposizione, molto simile al precedente articolo 230 – bis del c.c., che disciplina l’impresa familiare, risulta assai lacunosa e di incerta applicazione (perlomeno ai fini fiscali). I chiarimenti dell’Agenzia delle entrate risultano quindi indispensabili.

23 maggio 2016

Nicola Forte