L'inerenza del costo va suffragata da documenti: non basta la fattura se ha una descrizione troppo generica

in caso di contestazione dell’inerenza di un costo, deve essere il contribuente a provare la sua attinenza al reddito d’impresa: potrebbe non bastare la sola fattura del fornitore (soprattutto se la dizione è generica), ma si deve conservare anche l’ulteriore documentazione a supprto (ad esempio i contratti sottoscritti)

lente-antiriciclaggio-immagineCon la sentenza n.7231 del 13 aprile 2016, la Corte di Cassazione ha negato la deducibilità alle fatture che contengono una generica menzione della prestazione effettuata, senza esibizione di ulteriore documentazione di riferimento.

Per la Corte “è regola invero che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’inerenza del costo e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili”.

Pertanto, “non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (da ultimo Cass. n. 21184 del 2014). Non può ritenersi assolto questo onere quando non solo la descrizione della prestazione in fattura è generica e laconica, ma anche quando sia insufficiente o mancante la documentazione del contratto che ha dato luogo a quella prestazione, così che il Fisco non può verificare l’inerenza effettiva della spesa sostenuta all’attività di impresa”.

La Corte, quindi, cassa la decisione di secondo grado, affinché il giudice del rinvio tenga conto del principio di diritto per cui la spesa portata in deduzione va documentata in modo che se ne possa ricavare l’inerenza e la coerenza economica della stessa, che non può intendersi come correlata “in senso ampio” all’attività di impresa.

NOTA

Abbiamo più volte rilevato come non appare verosimile che le parti non sottoscrivano un contratto, per fissare nero su bianco le condizioni contrattuali relativi ad una determinata prestazione.

L’assenza di un apposito accordo, pur non pregiudicando in via di principio la deducibilità del costo, legittima, a nostro avviso, il recupero a tassazione da parte dei verbalizzanti, ove il contribuente non sia in grado di fornire i supporti documentali richiesti.

Il contratto non costituisce requisito essenziale ai fini della deducibilità fiscale.

Tuttavia, in alcune ipotesi, la sua assenza, permette ai verificatori di trarre legittimamente tutta una serie di considerazioni.

Gli uffici fiscali si preoccupano, in sede di controllo, di intercettare tutti quei costi che (pur regolarmente indicati in contabilità) potrebbero nascondere operazioni sospette.

L’onus probandi della sussistenza dell’inerenza di determinati componenti negativi è a carico del contribuente.

In proposito, infatti, è chiaramente possibile affermare che l’onere della prova della deducibilità di elementi concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività prova dei presupposti dei costi ed oneri produttive di ricavi, tanto nella disciplina del d.P.R. n. 597 del 1973 e del d.P.R. n. 598 del 1973, che del d.P.R. n. 917 del 1986, incombe sul contribuente.

La sentenza in commento si inserisce, quindi, in quel filone giurisprudenziale (da ritenere ormai costante e maggioritario), che addossa sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza e la certezza di una spesa all’esercizio dell’impresa1 e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa.

Ricordiamo che con la sentenza n. 4046 del 18.01.2007, depositata il 21.02.2007 la Corte di Cassazione ha preso atto che in sede contenziosa la società non ha dimostrato di avere stipulato un contratto di appalto in forza del quale sarebbero state realizzate le opere fatturate. Nel caso di specie, il giudice di appello non aveva ravvisato motivi “per discostarsi dalle motivazioni contenute nella sentenza impugnata” ed ha ritenuto “inverosimile che per un importo di tale rilievo [circa 13 miliardi di lire], non sia stato stipulato un regolare contratto di appalto“. La seconda parte della motivazione del giudice di secondo grado “espone una considerazione, basata su una condivisibile e riconosciuta massima di esperienza, secondo la quale un appalto di importo considerevole va stipulato con atto scritto o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Nella specie, ciò non risulta che sia avvenuto e, quindi, appare legittima la conclusione che il contratto non sia stato mai stipulato. Tanto più che la parte ricorrente non offre alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessario per particolari ragioni, idonee a superare l’id quod plerumque accidit. Non è vero, come invece assume la parte ricorrente, che il ragionamento del giudice di merito sarebbe basato su una presunzione illegittima, in quanto non basata su un fatto certo. Il fatto certo è che manca la prova della stipula del contratto di appalto, ergo il contribuente non ha diritto alla detrazione di imposta. Basta questa proposizione a far concludere che la sentenza impugnata è congruamente, anche se sinteticamente, motivata”.

E con l’ordinanza n.7897 del 28 marzo 2013, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo l’accertamento dell’ufficio che ha recuperato a tassazione dei costi di appalto, di elevato importo, privi di un contratto che ne esplicitasse le modalità. Per la Corte, “ un appalto di importo molto considerevole, come nella specie, va stipulato con atto scritto, o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Ciò non risulta che sia avvenuto nel caso in esame, quindi appare legittima la conclusione che quel contratto non fosse stato mai stipulato. Tanto più che la parte privata non offriva alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessaria per particolari ragioni, idonee a superare l’id quod plerumque accidit (Cfr. anche Cass. Sent. 21.2.2007, n. 4046). Il fatto certo è che mancava la prova della stipula del contratto di appalto, ergo la contribuente non aveva diritto alla detrazione di imposta”.

Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza 17 settembre 2014, n. 19593 ha confermato il rilievo dell’ufficio che aveva recuperato a tassazione l’incremento del canone di affitto dei locali, privo di una scrittura privata, avente data certa.

E con la sentenza n. 21184 dell’8 ottobre 2014 (ud. 9 luglio 2014), peraltro richiamata nella sentenza che si annota, la Corte di Cassazione ha fissato importanti principi in materia di inerenza dei costi, in presenza di spese di consulenza elevate, non coerenti dal punto di vista economico, non congrue e prive di valida documentazione probante. In particolare si è affermato che affinchè “un costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito, non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa” (6650/06). Il principio di inerenza non richiede “la connessione comprovata per ogni molecola di costo quale partita negativa della produzione, essendo sufficiente la semplice … contrapposizione economica teorica (cioè, la cosiddetta latenza probabile degli stessi), avuto riguardo alla tipologia organizzativa del soggetto, che genera quindi partite passive deducibili se i costi riguardano l’area o il comparto di attività destinati, anche in futuro, a produrre partite di reddito imponibile. L’inerenza è quindi una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica, un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito bensì in virtù della sua correlazione con una attività potenzialmente idonea a produrre utili” (12168/09). Trattandosi peraltro di un componente negativo del reddito si è inoltre precisato che, “la prova della sua esistenza ed inerenza incombe al contribuente” (1709/07) e che “per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente … che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa” (4570/2001).

E ancora di recente, con la sentenza n. 9715 del 13 maggio 2015 la Corte di Cassazione ha confermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo non congruo rispetto all’oggetto dell’impresa (Cass. n. 21184/14) o comunque fondato su un titolo non adeguatamente documentato”. Nel caso di specie era in contestazione la fattura emessa dalla società controllata che riportava una causale del tutto generica (“Spese di promozione vs prodotti presso ns. punto di vendita di … o per il periodo 1.10.01/30.9/02“). Inoltre, osserva la Corte, “il contratto su cui è fondata la fattura in contestazione non è stato esibito alla Guardia di finanza; esso inoltre non risulta registrato e non ha data certa”. In pratica, la genericità della causale della fattura e l’inidoneità del titolo giustificativo, non sussistendo adeguata documentazione di supporto dei costi medesimi, ha comportato l’indeducibilità degli stessi, come rilevato dai giudici della CTR e avallato dalla Cassazione.

19 aprile 2016

Gianfranco Antico

1 Si segnala, la sentenza n. 3109 del 19 dicembre 2005, depositata il 13 febbraio 2006, con cui la Corte di Cassazione ha statuito che costituisce principio consolidato l’affermazione secondo cui grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza di una spesa all’esercizio dell’impresa e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa (nella specie, la pronuncia è relativa alla locazione di un appartamento asseritamene adibito a foresteria). Sempre la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1421 del 20 dicembre 2007, dep. il 23 gennaio 2008, ha affermato che costituisce principio consolidato, che giustifica il rigetto in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. del ricorso del contribuente, l’affermazione secondo cui l’art. 19, c. 1, del D.P.R. n. 633/72, consente al compratore di portare in detrazione l’Iva addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore solo quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiedendo un quid pluris rispetto alla qualità di imprenditore dell’acquirente, cioè l’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale; inoltre, la norma lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato, senza che la sussistenza di detti requisiti possa presumersi in ragione della qualità di società commerciale dell’acquirente (nel caso di specie, una società esercente l’attività di commercio all’ingrosso di futta aveva rilevato un immobile in leasing da altra società in difficoltà finanziarie ed il giudice di merito aveva escluso la detraibilità dell’Iva conseguente all’operazione). In senso conforme si attesta la migliore dottrina che ha avuto modo di affrontare la problematica, CROVATO-LUPI, Il Reddito d’impresa, Il Sole24ore, Milano, 2002, pag. 93, sostenendo che in ipotesi come quella descritta dalla sentenza in esame, spetti al contribuente provare il rapporto funzionale: “di fronte a spese di dubbio collegamento con l’attività aziendale, è il contribuente a dover addurre le circostanze che spiegano il costo nella logica imprenditoriale”.