Incassi professionali dopo la cessazione dell'attività: il problema dell'IVA

i professionisti, anche se comunicano all’Agenzia delle entrate la cessazione dell’attività prima di incassare ed emettere le fatture relative alle prestazioni effettuate, sono tenuti ad effettuare il versamento dell’imposta sul valore aggiunto sugli importi incassati dopo la cessazione dell’attività

I contribuenti se comunicano all’Agenzia delle entrate la cessazione dell’attività prima di incassare ed emettere le fatture relative alle prestazioni poste in essere sono tenuti ad effettuare il versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione.

Secondo quanto precisato dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 8059 a Sezioni Unite, depositata il 21 aprile scorso, l’Iva resta dovuta anche se l’incasso delle prestazioni professionali si verifica dopo la cessazione del numero di partita Iva. In questo caso non vale obiettare che al momento dell’incasso della prestazione, rilevante ai fini della fatturazione, il contribuente, avendo comunicato preventivamente la cessazione, non è più in possesso della soggettività passiva ex art. 5 del D.P.R. n. 633/1972.

Il caso esaminato dal giudice di legalità riguardava un architetto che, avendo incassato i compensi professionali “arretrati” dopo la cessazione dell’attività, ha dichiarato le somme percepite quali redditi diversi ex art. 67 del TUIR, ma senza applicare l’Iva. Nel caso di specie l’anticipata cessazione dell’attività ha indotto il contribuente a considerare i compensi percepiti quali operazioni fuori campo Iva per carenza del presupposto soggettivo, ma la soluzione non è corretta.

I giudici di merito (sia la Commissione Tributaria provinciale, ma anche quella Regionale) hanno accolto le argomentazioni del professionista. E’ stato a tal proposito rilevato come in base ad una interpretazione letterale dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972, le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto della percezione dei corrispettivi. La Suprema Corte si è espressa, però, diversamente, obiettando come tale interpretazione si ponesse in contrasto con le disposizioni comunitarie.

La Direttiva 77/388/CE e la Direttiva 2006/112/CE distinguono il fatto generatore dell’imposta, rispetto all’esigibilità del tributo. Il primo si sostanzia nell’evento che fa scaturire l’obbligazione tributaria e l’imponibilità. Invece l’esigibilità rappresenta la possibilità per l’erario di pretendere l’imposta incassata dal contribuente.

Le disposizioni comunitarie prevedono che il fatto generatore coincide con l’effettuazione della cessione di beni, ovvero con la prestazione di servizi. Il materiale espletamento della prestazione fa sorgere l’imponibilità ai fini Iva.

Sulla base di questa distinzione, il presupposto impositivo e, conseguentemente l’imponibilità, si verifica con l’esecuzione della prestazione. Il momento dell’incasso determina l’esigibilità del tributo, cioè rappresenta il limite temporale massimo che fa sorgere l’obbligo di versamento. Pertanto, il compenso percepito anche dopo la cessazione dell’attività deve essere assoggettato ad Iva in quanto relativo ad una prestazione eseguita anteriormente nell’esercizio dell’attività professionale.

Secondo la sentenza in commento la soluzione è conforme all’osservanza del principio di neutralità del tributo. Infatti, se il professionista ha considerato in detrazione l’Iva relativa all’acquisto di beni e servizi destinati alla prestazione posta in essere, risulta corretto applicare il tributo sulla prestazione eseguita anche se incassata dopo la cessazione dell’attività. Diversamente, la mancata rilevazione del debito tributario determinerebbe un “arricchimento” del contribuente avendo esercitato il diritto alla detrazione con la conseguente e palese violazione del principio di neutralità del tributo.

Il problema è stato affrontato dall’Agenzia delle entrate anche in precedenza e con riferimento ad ulteriori fattispecie (cfr la Ris. n. 232/E del 20 agosto 2009). Il caso preso in esame riguardava un professionista che nel 2005 aveva emesso nei confronti di una ASL una fattura ad “esigibilità differita” la quale a seguito di una contestazione del cliente è stata oggetto di un provvedimento giudiziario. Secondo quanto precisato dall’Amministrazione finanziaria l’attività professionale non cessa nel momento in cui il lavoratore autonomo si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali. Tale momento rappresenta solo una prima fase durante la quale l’attività entra, di fatto, in uno stato di liquidazione, cioè finalizzato al compimento di quegli atti necessari alla “dismissione” delle attività e passività. In pratica l’esercente arte e professione si astiene, durante questo periodo, dal porre in essere ulteriori prestazioni, provvedendo ad effettuare un complesso di operazioni tese alla definizione di tutti i rapporti giuridici pendenti, compreso l’incasso dei crediti maturati e rimasti insoluti.

Il documento di prassi citato puntualizza che l’attività può considerarsi cessata solo dopo che il professionista ha reso esigibile l’imposta relativa alle prestazioni professionali precedentemente svolte senza necessariamente attendere l’incasso dei relativi crediti.

Conseguentemente, anche prima dell’incasso delle prestazioni professionali eseguite, il contribuente può anticipare la fatturazione delle operazioni rendendo così l’Iva esigibile. In tal modo è possibile comunicare la cessazione dell’attività (dopo la fatturazione di tutte le operazioni non incassate) ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. n. 633/1972.

La posizione dell’Agenzia delle entrate risulta così perfettamente allineata a quella della Corte di Cassazione la cui ultima pronuncia è stata assunta a Sezioni Unite.

28 aprile 2016

Nicola Forte