Società a ristretta base proprietaria ed erogazione di dividendi: il Fisco deve dimostrare e il contribuente può provare il contrario

spetta all’Amministrazione Finanziaria, da una parte, provare l’effettivo incasso e dall’altra parte la contribuente può fornire comunque prove contrarie; l’articolo contiene utili spunti processuali per la difesa in contenzioso con l’Agenzia delle Entrate

Con l’ordinanza n. 923 del 20 gennaio 2016 (ud. 9 dicembre 2015) la Cassazione torna ad affrontare la sempreverde questione della presunzione di distribuzione degli utili (in nero) nelle società a ristretta base azionaria.

 

Il fatto

La CTR di Napoli ha respinto l’appello dell’Amministrazione Finanziaria contro la sentenza della CTP di Napoli che aveva accolto il ricorso della contribuente ed ha così annullato l’avviso di accertamento con cui era stato imputato alla ricorrente la quota del reddito accertato in capo ad una SRL, di cui era stata socia al 50% del capitale, in ragione della presunzione di avvenuta distribuzione ai soci del maggior guadagno, presunzione derivante dall’essere la compagine societaria caratterizzata da una ristretta base sociale.

La predetta CTR (dopo avere dato atto che l’Ufficio aveva gravato la sentenza impugnata sostenendo che la produzione da parte della contribuente dei propri estratti conto bancari non poteva vincere la presunzione a favore dell’Erario ma soltanto dimostrare che “i flussi finanziari non sono transitati per quei conti) ha motivato la decisione nel senso che, sebbene l’accertamento in capo alla società “produca effetti riflessi anche nei confronti dei soci“, necessitava purtuttavia una “completa e corretta acquisizione di elementi di prova dai quali sia agevole ricavare che l’utile extra-bilancio … sia stato di fatto distribuito ai soci“, escludendosi i “semplici automatismi accertativi“.

Nel caso de quo, l’Agenzia appellante “non aveva documentato che la R. avesse di fatto incassato la quota dei maggiori ricavi corrispondente alla sua quota sociale, la contribuente aveva – per contro – prodotto in atti prove sufficienti a dimostrare di non avere giammai ricevuto gli utili extracontabili, e cioè: movimenti bancari personali e del coniuge a partire dal 2005; estratti conto bancari donde risultava l’assenza di qualsiasi movimentazione finanziaria di importi consistenti; relazione di notaio attestante che il patrimonio della ricorrente non aveva subito in quegli anni alcun incremento; denuncia-querela nei confronti dell’amministratore unico della società”.

 

La posizione della Corte

Cosi ricostruito il fatto, vediamo la posizione assunta dalla Corte.

Dato comunque per presupposto presente la ristretta base sociale, il giudicante (osserva la Corte)ha fatto certamente uso dei propri poteri di selezione delle fonti di prova e di libero convincimento allorchè ha raffrontato il difetto, a carico dell’Ufficio appellante, di elementi positivi di dimostrazione dell’avvenuta distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla presunzione) con l’avvenuta integrazione di fonti di prova sufficientemente valide da parte della contribuente, e cioè quelle che sono state dettagliate nelle premesse della presente relazione”.

In questo quadro ricostruttivo della ratio decidendi adottata dal giudice del merito, non convince la censura formulata dall’Amministrazione Finanziaria di violazione di legge, “perchè essa … chiede alla Corte di accertare che la prova, alla luce della quale il giudicante si è orientato ai fini di ritenere integrato l’onere probatorio gravante sulla parte contribuente per effetto dell’inversione determinata dalla presunzione legale, non è stata affatto fornita ovvero che le fonti di prova offerte dalla parte contribuente non costituiscono la prova che i maggiori utili accertati sono stati accantonati o non reinvestiti“.

Invero, con ciò la parte ricorrente sollecita “la Corte ad una invasione del campo riservato al giudice del merito e che – sotto la vigente formula dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – può essere riesaminato e sottoposto a controllo soltanto ove si assume l’esistenza di un omesso esame di un punto dirimente, ciò che nella specie di causa neppure è stato prospettato”.

Il nostro commento

La sentenza che (che di fatto segue la pronuncia n. 1932 del 2 febbraio 2016, con cui la Corte di Cassazione ha escluso, in una società a ristretta base societaria, la presunzione di distribuzione tra i soci di utili non dichiarati, per i soggetti estranei alla gestione societaria1), al di là del principio di diritto affermato, secondo cui la Corte non può entrare nel merito affrontato dai precedenti giudici, appare ancora una volta particolarmente interessante, in quanto, concretamente, non solo legittima le forti prove contraria offerte dalla parte ma pone l’accento sul fatto che l’Amministrazione Finanziaria non aveva provato che la contribuente avesse di fatto incassato la quota dei maggiori ricavi corrispondente alla sua quota sociale.

Il caso sottoposto, indubbiamente fissa un principio: da una parte spetta all’Amministrazione Finanziaria provare l’effettivo incasso e dall’altra parte la contribuente può fornire comunque prove contrarie.

Nel caso in questione, a fronte di una presunzione generica, il contribuente aveva prodotto in atti una serie di prove sufficienti a smontare la presunzione (al di là dell’assenza dei flussi finanziari, vi erano conflitti sociali, atteso la denuncia nei confronti dell’amministratore).

Ricordiamo che, di recente, con le sentenze nn. 10897 e 10898 del 27 maggio 2015, i supremi giudici hanno confermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine sufficiente nè la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili, nè il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi contabilizzati, non risultando nè accantonati nè investiti, siano stati distribuiti ai soci. Tale prova contraria, come affermato, non risulta essere stata fornita dal contribuente”.

Anche antecedentemente, la questione è stata oggetto di diversi pronunciamenti.

  • Con la sentenza n. 15334 del 19 giugno 2013 (ud. 24 aprile 2013) la Corte di Cassazione si è adeguata al principio costantemente ribadito secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci, degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine sufficiente nè la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili nè il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi non contabilizzati, non risultando nè accantonati nè investiti, siano stati distribuiti ai soci“. In particolare, è stato ritenuto che nel caso di società a ristretta base sociale, “è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poichè il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale. Affinchè, però, tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio, sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi (così Cass. n. 29605 del 29/12/2011)”.

  • Con la sentenza n. 20806 dell’11 settembre 2013 (ud. 11 luglio 2013) la Corte di Cassazione ha legittimato, in presenza di società a ristretta base azionaria, l’imputazione ai soci degli utili extracontabili.In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva … la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine sufficiente nè la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili, né il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi contabilizzati, non risultando nè accantonati né investiti, siano stati distribuiti ai soci”. Tale principio sussistente “nella più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 5076/2011, 8954/2013), ma la sua declinazione decisoria impone il riscontro, conseguente ad un accertamento sulle movimentazioni finanziarie ovvero gli atti giuridico – economici di una società ovvero dei suoi soci, che vi sia stata formazione di utili non contabilizzati, da tale circostanza scattando la citata presunzione distributiva e la correlata tassazione individuale pro parte”.

Principi confermati con l’ordinanza n. 5327 del 18 marzo 2015 (ud 19 febbraio 2015), con cui la Corte di Cassazione ha aderito, ancora una volta, all’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, in caso di accertamento di utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria e la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti (Cass. n. 16885/03, n. 10951/02, n. 7174/02), sicchè è legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria e tale presunzione – fondata sul disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), – induce inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18032 del 24/07/2013; Sez. 5, Sentenza n. 1924 del 29/01/2008; n. 20851/05, n. 6780/03, n. 7218/01)”.

Ma ripetiamo, la sentenza ultima fa un passo ulteriore. Occorre attendere adesso sicuramente ulteriori pronunciamenti per verificare che indirizzo intende assumere la Corte.

16 marzo 2016

Roberto Pasquini

1 La regula juris di cui la difesa erariale lamenta la violazione si risolve nell’affermazione che, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, è legittima, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati (sentt. nn. 6197/07, 18640/08, 9519/09, 29605/11). “Detto principio, ancorché spesso enunciato nell’ambito di controversie in cui i (pochi) soci della società di capitale erano (anche) legati tra loro da rapporti di parentela o di coniugio, non postula necessariamente l’esistenza di tali rapporti, in quanto deriva dalla regola di comune esperienza secondo cui dalla ristrettezza della base sociale discende – secondo l’id quod plerumque accidit e salva la possibilità del contribuente di offrire la prova contraria – un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi; il che legittima, anche quando i soci non siano legati da rapporti familiari, la presunzione che gli stessi siano edotti degli affari sociali e quindi siano consapevoli dell’esistenza di utili extrabilancio e se li distribuiscano in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale (in termini, ordinanze nn. 19680/12 e 24572/14)”. Nel caso di specie, è stato accertato, nel giudizio di merito, l’estraneità del contribuente alla gestione e conduzione societaria e da tale accertamento il giudice ha desunto “che nel caso in esame non potesse farsi applicazione della massima di comune esperienza, su cui poggia la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio, che dalla ristrettezza della base sociale inferisce un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi”.