Operazioni intracomunitarie con azienda risultata cessata

in caso di operazioni intracomunitarie, spetta al fornitore dei beni provare che sono state soddisfatte le condizioni per assicurare una corretta applicazione delle esenzioni e prevenire frodi, evasioni o abusi in materia di IVA

occhioerrore2La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15639 del 24.07.2015, ha chiarito quali sono gli obblighi e responsabilità a carico del cedente in caso di cessioni intracomunitarie.

Nel caso di specie la società aveva ricevuto un avviso di accertamento col quale l’Agenzia delle entrate recuperava l’imposta sul valore aggiunto relativa alle fatture concernenti cessioni intracomunitarie che, nell’anno d’imposta 2004, la contribuente aveva emesso nei confronti di società comunitaria, la quale era risultata cessata in data 13 febbraio 2002.

La società impugnò l’avviso, rappresentando che aveva accertato l’esistenza della società cessionaria nel 2001, quando aveva iniziato ad intrattenere rapporti commerciali con essa e che tali rapporti erano regolarmente proseguiti per il tramite del responsabile della cessionaria.

Soltanto nel 2005 era quindi emerso da interrogazioni del sistema VIES che la società, in base a quanto comunicato dalle autorità lussemburghesi, era risultata fallita sin dal 13 febbraio 2002.

La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso della contribuente e quella regionale ne rigettava l’appello, reputando che le cessioni eseguite non potessero fruire del regime di non imponibilità.

Ciò in quanto, prima di eseguire tali forniture, avvenute nel 2004, a distanza di oltre due anni dalle ultime, risalenti al 2001, la contribuente avrebbe dovuto richiedere all’ufficio Iva la conferma del codice identificativo della cessionaria.

E non rilevava, aggiungeva il giudice d’appello, la asserita buona fede della società, giacché, per un verso, sarebbe stato assai agevole ottenere la conferma, bastando un’interrogazione agli sportelli self-service o tramite l’apposito numero telefonico, oppure consultando il sito Internet del Ministero delle Finanze, laddove, per altro verso, lo stesso nominativo dell’interlocutore non coincideva con quello emergente dalla documentazione in possesso della medesima società.

I giudici di legittimità evidenziavano quindi che il tema nulla aveva a che vedere con la questione della mancanza in sé del codice identificativo ai fini Iva, cui la giurisprudenza comunitaria non ascrive rilievo, qualora sussistano i requisiti sostanziali del soggetto passivo ai fini, ad esempio, dell’esercizio del diritto di detrazione (Corte giust. 22 dicembre 2010, causa C-438/09, Dankowski, relativa ad fattispecie, peraltro, in cui il fornitore, benché non registrato ai fini Iva, era comunque munito di un codice identificativo fiscale; Corte giust. 21 ottobre 2010, causa C- 385/09, Nidera Handelscompagnie BV).

Questione con riguardo alla quale la giurisprudenza interna è allineata in pieno a quella comunitaria, essendosi appunto stabilito che non osta all’applicabilità del regime di non imponibilità la circostanza che negli elenchi riepilogativi che gli operatori intracomunitari sono tenuti a compilare ai sensi dell’art. 50, comma 6, del d.l. 331/93, sia riportata una partita iva del cessionario comunitario cessata, qualora “alla luce degli elementi di cognizione allegati favorevolmente dalla parte la non imponibilità potesse essere altrimenti dimostrata” (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21183).

Il tema in esame, nella controversia all’attenzione della Corte, riguardava invece un caso non di mera mancanza di codice identificativo, bensì di cessioni intercorse con un falso rappresentante di una società lussemburghese, che non esercitava attività economica, alla data delle forniture, essendo già fallita da due anni (sulla rilevabilità d’ufficio della mancanza di potere rappresentativo, allorché risulti dagli atti, vedi, da ultimo, anche Cass., sez.un., 3 giugno 2015, n. 11377).

E nella giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, le nozioni di cessione e di acquisto intracomunitari hanno carattere obiettivo, di modo che il regime di non imponibilità diviene operativo nel momento in cui il diritto di proprietà sia trasmesso all’acquirente ed il bene sia stato spedito o trasportato e quindi abbia fisicamente lasciato lo Stato membro di origine (tra varie, Corte giust. 27 settembre 2007, causa C-409/04, Teleos ed altri).

Nel caso in esame, invece, come visto, era emerso che la cessionaria non operava da epoca ampiamente antecedente alle forniture delle quali si discuteva e non aveva dunque acquisito il diritto di proprietà di alcun bene.

Non di mere violazioni formali si trattava, quindi, ma di mancanza di uno dei presupposti sostanziali per l’applicazione del regime di non imponibilità.

Nè, la ricorrente poteva vantare buona fede che le consentisse comunque di fruire del regime di non imponibilità: ciò in quanto non se ne configuravano i presupposti fissati dalla giurisprudenza comunitaria, la quale richiede che l’operatore economico non sia a conoscenza del fatto che in realtà non siano soddisfatte le condizioni legali per l’applicazione del regime, né possa rendersene conto, pur facendo prova di tutta la diligenza di un commerciante avveduto (Corte giust. 21 febbraio 2008, causa C-271/06, Netto Supermarkt Gmbh).

In definitiva, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la buona fede è identificata col legittimo affidamento, ossia con la buona fede in senso soggettivo, che è scaturente dalla condotta avveduta ed in quanto tale diligente.

Né poteva servire alla società sostenere di aver confidato nella qualità, rivestita dal non meglio identificato rappresentante della cessionaria, che, come indubitabilmente emerso dagli atti, non aveva alcun rapporto con la stessa società nell’anno d’imposta in esame.

L’apparenza del diritto, difatti, in tema di rappresentanza, per avere rilevanza richiede l’affidamento incolpevole del terzo, nonché un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente (in termini, fra varie, Cass. 4 novembre 2014, n. 23448 e 9 marzo 2012, n. 3787).

Nulla di tutto ciò si era invece verificato nel caso in esame, in cui la società non aveva mostrato una condotta diligente ed avveduta ex art. 1176, comma 2, c.c., in quanto aveva ritenuto d’intrattenere rapporti commerciali con la società lussemburghese, poi risultata fallita, dopo due anni dagli ultimi contatti, per mezzo di un sedicente suo rappresentante, del quale non era ben individuato neanche il nominativo, variamente indicato e comunque non rispondente alle reali generalità del soggetto, senza avere pienamente svolto alcun accertamento sulla permanente esistenza ed operatività della cessionaria.

Né, evidenziano ancora i giudici, elementi di segno contrario potevano essere tratti dal secondo comma dell’art. 50 del d.l. n. 331 del 1993, laddove prevede che l’ufficio, su richiesta dell’interessato, conferma la validità del numero identificativo attribuito al cessionario o committente da altro Stato membro, in tal modo, secondo la società, attribuendo una facoltà e non già configurando un obbligo di controllo.

Con questa norma, evidenziano infatti i giudici, il legislatore si limita a disciplinare le modalità tramite le quali il cedente esercita il proprio controllo diligente, in coerenza, d’altronde, con 1’art. 1393, comma 1, c.c., il quale prevede che il terzo che contratta col rappresentante può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri.

L’omesso esercizio del controllo, dunque, con riferimento agli elementi della fattispecie in esame, segnata, come visto, da rilevanti ambiguità già in relazione alle generalità del falso rappresentante, concorreva ad escludere la sussistenza di un affidamento incolpevole.

La giurisprudenza della Corte si pone, d’altronde, sul tema in una linea rigorosa, avendo più volte affermato che, per accedere al regime non imponibile, non basta che gli esercenti imprese, arti e professioni indichino il numero identificativo ai fini Iva nella documentazione relativa allo scambio intracomunitario, ma occorre anche che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo all’amministrazione competente la conferma della validità attuale del numero di identificazione attribuito al cessionario; di modo che, in assenza di tali adempimenti, legittimamente l’ufficio finanziario può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’Iva, facendo pur sempre salva la facoltà del contribuente di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo (Cass. 13 febbraio 2009, n. 3603; ord. 29 febbraio 2012, n. 3167).

In sostanza secondo la Cassazione, “L’applicazione del regime di non imponibilità delle cessioni intracomunitarie richiede che ne sussistano tutti i presupposti sostanziali, di modo che non può essere riconosciuta al cedente nazionale che abbia omesso di verificare la persistente operatività della cessionaria comunitaria, a nulla rilevando che il cedente abbia contrattato con un sedicente rappresentante di questa“.

Spetta pertanto al fornitore dei beni provare che sono soddisfatte le condizioni per assicurare una corretta e semplice applicazione delle esenzioni e prevenire frodi, evasioni o abusi, nel rispetto del principio di proporzionalità.

La norma tributaria (di cui all’articolo 41 comma 1 lettera a del D.L. 331/93), infatti, considera non imponibili ai fini IVA allo scopo di evitare doppie imposizioni ed affinché l’imposta venga pagata nello Stato della Comunità Europea nell’ambito del quale il bene è destinato al consumo, “le cessioni a titolo oneroso di beni, trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro, dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto, nei confronti di cessionari soggetti di imposta…“.

Ne segue che l’elemento della movimentazione territoriale dei beni oggetto di cessione, da uno Stato membro a quello del soggetto finale (cessionario), deve essere considerato elemento strutturale della fattispecie normativa da cui non potrebbe prescindersi senza disconoscere lo stesso carattere “intracomunitario” della operazione.

Conseguentemente, l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario (cioè l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro) va posto a carico del contribuente che emette la fattura, dichiarando che l’operazione non è imponibile senza applicare l’imposta nei confronti del cessionario, in ragione del principio generale ex art 2697 c.c., secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga agevolativa (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 13.2.2009 n. 3603).

L’orientamento è ormai consolidato anche se a dire il vero, in passato, l’onere della prova che incombe sul cedente è stato talvolta ritenuto dalla stessa Corte di Cassazione eccessivamente gravoso, specie ove non si palesi sul versante soggettivo la prova della consapevolezza di concorrere ad un illecito tributario. Il rischio, difatti, è quello di addivenire in materia a forme di responsabilità oggettiva, lesive dei principi costituzionali di difesa e di personalità della responsabilità (Cass. 21956/2010).

Del resto, la stessa Amministrazione finanziaria ha recepito le perplessità in ordine al quantum di responsabilità da attribuire al cedente originario in caso di cessione intracomunitaria.

Risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate (Ris. 28 novembre 2007 n.345/E nonché Ris. 15 dicembre 2008 n. 477/E) hanno chiarito che mentre può certamente escludersi che il cedente sia tenuto ad effettuare attività investigative sulla movimentazione subita dai beni ceduti dopo che gli stessi siano stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario, deve invece affermarsi il dovere del predetto di impiegare la normale diligenza richiesta ad un soggetto che pone in essere una transazione commerciale e, quindi di verificare, con la diligenza dell’operatore professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte.

Ancora è da annoverare la pronuncia di Cass. 13457/2012, che è lapidaria nell’affermare che il cedente deve procurarsi i mezzi di prova adeguati alle necessità capaci, se non di dimostrare, quanto meno di non lasciare dubbi circa l’effettività dell’esportazione e circa la sua buona fede in ordine a tale dato.

Infine, la decisione di Cass. 1670/2013 che afferma il dovere del cedente di verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte.

In vero, come detto, nella materia delle cessioni intracomunitarie il tema dello stato soggettivo del cedente, in relazione alla conoscenza/conoscibilità di comportamenti fraudolenti altrui, è stato comunque approfondito nella giurisprudenza comunitaria.

Gli approdi a cui è pervenuta la giurisprudenza comunitaria sono sintetizzabili nei seguenti principi, enunciati nella sentenza in causa C-409/04, Teleos:

a) se è legittimo che i provvedimenti adottati dagli Stati membri tendano a preservare il più efficacemente possibile i diritti dell’Erano, essi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine (punto 53);

b) non sarebbe contrario al diritto comunitario esigere che il fornitore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad una frode fiscale (punto 65);

c) le circostanze che il fornitore ha agito in buona fede, che ha adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere e che è esclusa la sua partecipazione ad una frode costituiscono elementi importanti per determinare la possibilità di obbligare tale fornitore ad assolvere l’IVA a posteriori (punto 66).

Sulla scorta di tali principi la sentenza C-409/04, Teleos, ha quindi concluso che “l’art. 28 quater, parte A, lett. a, primo comma, della Sesta Direttiva va interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cessione obblighino un fornitore, che ha agito in buona fede e ha presentato prove giustificanti prima facie il suo diritto all’esenzione di una cessione intracomunitaria di beni, ad assolvere successivamente l’IVA su tali beni, allorché tali prove si rivelano false ma che risulti tuttavia provata la partecipazione del fornitore medesimo alla frode fiscale, nella misura in cui ha adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurarsi che la cessione intracomunitaria effettuata non lo conducesse a partecipare ad una frode siffatta“.

Residua, naturalmente, come detto, la questione della individuazione dell’ambito oggettivo delle cautele che il cedente deve ragionevolmente adottare per assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare a una frode fiscale.

Si vedano, a tal proposito, le conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa C-409/04, Teleos, punti 75 e 76: “Senza dubbio il fornitore è tenuto a fare tutto ciò che è in suo potere per garantire la corretta esecuzione della cessione ìntracomunitaria… .Inoltre il venditore si deve sincerare della serietà della propria controparte. L’obiettivo di prevenire le frodi fiscali giustifica la definizione di requisiti severi relativamente a quest’obbligo. Spetta al giudice nazionale stabilire se il fornitore vi abbia ottemperato“.

Quanto alla concreta individuazione delle condotte che il cedente deve tenere (o astenersi dal tenere), perchè lo si possa giudicare in buona fede nell’esecuzione di una cessione intracomunitaria non conclusasi con l’effettivo trasferimento dei beni ceduti nello Stato membro di destinazione, si tratta di questioni inevitabilmente legate alle specifiche caratteristiche di ciascuna vicenda, la cui valutazione compete al giudice di merito.

Nel caso in cui, dunque, l’Agenzia delle Entrate, ricorrendo all’interrogazione del sistema VIES (VAT Information Exchange System), constati che sono state effettuate cessioni intracomunitarie nei confronti di soggetti che, alla data delle fatture, erano cessati o il cui codice non era comunque corrispondente al vero, visto che, ai sensi dell’art. 41 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, non sono imponibili le cessioni a titolo oneroso di beni trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro nei confronti di cessionari “soggetti d’imposta”, dette operazioni, laddove manchi il requisito soggettivo per la non imponibilità, devono allora considerarsi soggette ad IVA, con obbligo da parte della società inadempiente di versare l’imposta relativa, nonché le corrispondenti sanzioni.

Oltre dunque alla violazione per incompleta, inesatta o irregolare compilazione degli elenchi Intrastat, di cui all’articolo 50, comma 6 del DL n. 331/93, sanzionata dall’art. 11, c. 4 del Dlgs 471/97, ai sensi dell’art. 21 del DPR 633/72 verrà sanzionata anche l’omessa fatturazione di operazioni imponibili (rilascio di fattura senza indicazione dell’imposta) e, ex artt. 23 e 25 del DPR 633/72, l’irregolare tenuta dei registri IVA (per avere la società omesso l’indicazione degli importi relativi all’IVA afferenti le cessioni nei confronti dei soggetti privati), nonché la mancata esposizione nella fatture emessa dell’imposta relativa a titolo di rivalsa ex art. 18 del DPR 633/72.

Tali tipi di violazioni, del resto, non costituiscono mere irregolarità formali.

Come anche chiarito dalla Circolare n. 77/E del 2001, infatti, possono essere in tal modo qualificate solo le violazioni che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, e che, comunque, non pregiudicano l’attività di controllo dell’Amministrazione Finanziaria.

29 marzo 2016

Giovambattista Palumbo