Sale & lease back immobiliare e abuso del diritto

l’operazione di sale & lease back è una di quelle operazioni che rischiano di far scattare un controllo fiscale basato sul concetto dell’abuso del diritto? Il Fisco può presumere che dietro a tale operazione si nasconda solo un illecito risparmio d’imposta e che si tratti di operazione priva di valide ragioni economiche?

lente-antiriciclaggio-immagineLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17175 del 26.08.2015, è nuovamente tornata sul tema dell’abuso del diritto e la sentenza segue di poco alla pubblicazione del recente decreto, che, in attuazione della Legge delega, ha disciplinato la fattispecie, fino ad oggi di origine esclusivamente giurisprudenziale.

Il Dlgs n. 128 del 5 agosto 2015 è stato infatti pubblicato in GU il 18.08.2015 n. 190 e all’art. 1 dà la definizione di abuso di diritto come segue: “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazion.”.

Si considerano dunque abusive tutte le operazioni prive di sostanza economica messe in atto solo per raggiungere vantaggi fiscali, mentre non sono considerate abusive le operazioni che sono giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa, ovvero dell’attività professionale del contribuente.

La codificazione interviene dunque in un contesto sino ad oggi caratterizzato solo dagli indirizzi dei giudici, che, comunque, avranno ancora un certo rilievo ermeneutico nell’applicazione anche della nuova normativa, in particolare sotto il profilo di che cosa si debba intendere per vantaggio fiscale indebito, e valide ragioni extrafiscali.

Come ricorda infatti la sentenza sopra citata, qui in commento, secondo la giurisprudenza comunitaria (la cui elaborazione della figura dell’abuso del diritto tributario in ambito di tributi armonizzati è stata poi recepita dalla giurisprudenza di legittimità ed estesa anche ai tributi non armonizzati), perché si possa parlare di pratica abusiva, occorre che si verifichino due condizioni.

Da un lato, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della direttiva IVA e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un “vantaggio fiscale”, la cui attribuzione sia contraria all’obiettivo perseguito da queste disposizioni.

Dall’altro, deve risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo “scopo essenziale” dell’operazione controversa è l’ottenimento di detto vantaggio fiscale.

L’elemento integrante il cosiddetto “indebito” vantaggio fiscale per “contrarietà” allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse, secondo la giurisprudenza citata, va dunque ricercato nella causa concreta dell’operazione negoziale sottesa al “meccanismo giuridico contorto” (cfr. Corte Cass. 5 sez. 8.4.2009 n. 8487 e Cass. 10.6.2011 n. 12788, che fanno riferimento ad un “uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico” e Cass. 30.11.2012 n. 21390, che si riferisce a “modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato“), volto ad aggirare la normativa tributaria e posto in atto per raggiungere lo scopo essenziale del risparmio d’imposta che in altro modo non sarebbe possibile conseguire, rimanendo quindi precluso l’utilizzo di strumenti o combinazioni negoziali volti a realizzare un risultato fiscale non conforme a quello “normale” e cioè non conforme allo scopo voluto dalla norma tributaria elusa, avuto riguardo alla realtà effettuale dell’operazione economica e non al suo mero rivestimento giuridico (cfr. Corte cass. 5 sez. 21.11.2008 n. 27646, secondo cui occorre “cogliere la vera natura della prestazione ed assoggettarla ad imposizione per il suo effettivo contenuto“).

La Suprema Corte evidenzia poi che la comparazione non deve essere compiuta con riferimento alla scelta tra diverse operazioni negoziali che avrebbero potuto essere realizzate dall’impresa (non potendo l’Amministrazione finanziaria sindacare la preferenza per l’acquisizione di liquidità mediante accesso al credito bancario, piuttosto che mediante contrazione di obbligazioni con i soci, o stipula di un mutuo, ovvero mediante lo schema negoziale del sale & lease back), quanto piuttosto con riferimento ai “risultati” che l’impresa viene a conseguire con l’attività negoziale in concreto svolta, ben potendo, in ipotesi, non sussistere affatto un’opzione alternativa tra schemi negoziali diversi ma egualmente idonei a realizzare il medesimo risultato economico-giuridico.

L’opzione per l’operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non costituisce dunque, ex se, condotta “contraria” allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta, non essendo invece consentito all’operatore economico conseguire i benefici fiscali, attribuiti in relazione all’effettuazione di una determinata operazione giuridico-economica, utilizzando strumenti negoziali diversi per i quali l’ordinamento tributario prevede un regime fiscale differente, anche se, in ipotesi, in entrambi i casi le operazioni realizzate pervengano allo stesso risultato economico finale (cfr Corte di Giustizia, sentenza 9:10.2001, causa C-108/99).

Nel caso a giudizio della Corte nella sentenza in commento, pertanto, se non era dubitabile che il costo concernente un immobile strumentale costituisse componente negativo di reddito deducibile con il sistema delle quote di ammortamento, non era dato tuttavia rinvenire nell’ordinamento tributario alcun obbligo giuridico del soggetto che acquista la proprietà del bene immobile strumentale di rimanere necessariamente vincolato a tale regime fiscale, atteso che, come rientra nella libera determinazione del soggetto imprenditore la facoltà di optare tra l’acquisto della proprietà dell’immobile, versando immediatamente l’intero prezzo della compravendita, od invece l’utilizzazione del medesimo bene in leasing con clausola di riscatto finale della proprietà (leasing traslativo), modulando in tal modo il relativo impegno finanziario, o ancora il semplice utilizzo in godimento del bene immobile da rilasciare alla scadenza al concedente proprietario (leasing finanziario puro), così non poteva ritenersi impedito all’operatore economico l’impiego di qualsiasi altro strumento negoziale, diretto a conseguire il medesimo risultato dell’utilizzo del bene immobile strumentale, tra cui anche il contratto di sale & lease back, in forza del quale l’impresa titolare della proprietà aliena il bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto, per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore.

Ciascuno dei casi indicati, infatti, comporta un proprio differente regime fiscale (prezzo di vendita, canone di leasing, plusvalenza), e la relativa applicazione, in quanto conseguenza diretta della scelta operata dall’impresa, non può, evidentemente, integrare “abuso del diritto” solo perché il soggetto si determina a compiere la operazione negoziale fiscalmente meno onerosa.

La Cassazione sembra dunque subito recepire le indicazioni del Legislatore come indicate nel recente decreto, in particolare laddove afferma che è rimessa all’esercizio della autonomia privata, di cui la libera iniziativa economica ex art. 41 Cost., comma l è espressione, la ricerca della forma di finanziamento ritenuta più opportuna (accesso al credito bancario nelle diverse forme negoziali previste; investimento in strumenti finanziari; delibera di nuovi conferimenti da parte dei soci; emissione di obbligazioni; stipula di contratti di leasing o di lease back, ecc), assolvendo ad uno specifico e concreto interesse economico dell’impresa l’estinzione di pregressi debiti o passività bancarie mediante l’acquisizione di nuova liquidità a condizioni di finanziamento ritenute convenienti a giudizio della stessa impresa.

E tale libertà d’impresa non solo non è, ne’ potrebbe essere, disconosciuta dall’ordinamento tributario, ma trova invece diretto riscontro in quest’ultimo, avendo appunto espressamente considerato il Legislatore, accanto alla disciplina ordinaria dell’ammortamento del costo degli immobili strumentali, anche l’ipotesi alternativa della deduzione dei costi di finanziamento diretti all’acquisto del bene immobile strumentale, ovvero dei canoni di leasing, considerando tendenzialmente equivalente “nel lungo periodo“, avuto riguardo alla natura durevole del bene ed alla sua funzione strumentale, l’incidenza sul reddito d’impresa della spesa sostenuta dal proprietario del bene e dall’utilizzatore del bene in leasing.

Non essendo dunque emersi, nella specie, elementi di “alterazione” della causa concreta del negozio di sale & lease back, ne seguiva che difettava l’elemento obiettivo di un uso “distorto” degli strumenti negoziali, o di una “anomalia” nella condotta economica del soggetto-contribuente, sintomatici della pratica abusiva, con l’ulteriore conseguenza che l’opzione effettuata dalla società contribuente per un regime fiscale più favorevole, era conforme al principio affermato dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale secondo cui “il soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”.

In conclusione, la scelta dell’operatore rivolta a realizzare un determinato assetto aziendale funzionale all’esercizio della impresa, attuato sostituendo il regime della proprietà sul bene strumentale con il diritto di godimento sul medesimo bene, poteva essere determinata, anche prevalentemente, dall’obiettivo di conseguire un risparmio d’imposta, non comportando tale scelta alcun “aggiramento” delle norme fiscali sull’ammortamento, quanto piuttosto la individuazione ex ante del regime giuridico dei beni aziendali più conveniente in relazione al regime fiscale meno gravoso, rendendosi pertanto del tutto irrilevante, ai fini dell’accertamento della pratica abusiva, l’elemento fondato sulla “intenzione” della società contribuente, che, dalla documentazione rivenuta presso la società di leasing, risultava essersi determinata ad optare tra il mantenimento in proprietà e la concessione in godimento del bene immobile in relazione al più favorevole regime fiscale.

Il fatto che tale operazione comportasse anche un più favorevole regime fiscale della deducibilità dei costi, concludono i giudici, non era pertanto ex se sufficiente ad integrare la figura dell’abuso di diritto, pena una indebita invasione nella sfera delle scelte imprenditoriali, che non possono essere sindacate dagli Uffici finanziari alla stregua dei criteri di opportunità e convenienza, ma soltanto ove le operazioni evidenzino caratteri di antieconomicità ed irrazionalità tali da richiedere una specifica giustificazione della condotta tenuta dalla impresa.

5 febbraio 2016

Giovambattista Palumbo