L'obbligo del contraddittorio è diverso a seconda dei tributi (armonizzati e non armonizzati)

emerge una diversa obbligatorietà del contraddittorio in caso di accertamento – soprattutto se ‘a tavolino’ – fra tributi armonizzati relativi a imposte comunitarie e tributi non armonizzati: l’obbligo di contraddittorio è garantito solo nel caso di accertamento relativo a tributi armonizzati?

contraddittorio_immagineAspetti generali

Come è noto, a seguito di riforme che hanno interessato l’ambito tributario a partire dagli anni novanta del XX secolo, nonché a seguito dell’introduzione dello Statuto del contribuente, si è via via imposto un non scritto «principio del contraddittorio», imperniato sulla ricerca di una condivisione della pretesa tributaria – formalizzata in sede di accertamento – tra contribuenti e fisco.

Ciò sia perché il risultato delle attività di controllo e accertamento, ampiamente fondate su materiale presuntivo, può essere oggettivamente incerto, sia per evitare per quanto possibile le vertenze giurisdizionali.

L’importanza del contraddittorio è stata più volte affermata dalla Corte di Cassazione, ad esempio nella sentenza n. 12290 del 12.6.2015, la quale ha precisato che se il contribuente non si presenta quando convocato per il contraddittorio preventivo ne accetta implicitamente le conseguenze. In tale ipotesi infatti – attivando un accertamento da studi di settore – l’ufficio finanziario può motivare la rettifica sulla sola base dell’applicazione degli «standard» previsti dallo strumento presuntivo.

La più recente Cass. SS.UU. 9.12.2015 n. 24823, pur affermando che, nelle c.d. «indagini a tavolino», il contraddittorio deve ritenersi obbligatorio solo per i tributi armonizzati come l’IVA, ha anche sancito che, ove previsto anche senza espressa sanzione di nullità, esso rimane comunque dovuto.

Il contraddittorio pre-accertamento

Nell’ambito delle attività di controllo tributario in loco che si concretizzano in verifiche fiscali, secondo un certo orientamento giurisprudenziale (i.e. Cass. 9 giugno 1990, n. 5628), la sottoscrizione del verbale di verifica e, conseguentemente, delle dichiarazioni in esso riportate, conferirebbe valore di confessione stragiudiziale alle medesime, che potrebbero, quindi, far piena prova contro colui che le avesse rese; inoltre, la mancata contestazione dell’operato dell’Ufficio sarebbe da assimilare a una sostanziale accettazione delle conclusioni cui lo stesso fosse pervenuto.

Per quanto concerne il successivo iter procedurale, la mancata sottoscrizione del verbale, di cui i verbalizzanti devono dar atto, non produce alcun effetto.

Dalla consegna del pvc, decorrono, ai sensi dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, 60 giorni entro i quali l’interessato può produrre memorie e controdeduzioni che dovranno essere attentamente vagliate dall’ufficio, il quale non può emettere l’avviso di accertamento prima che sia decorso il predetto termine temporale.

Si rammenta che, mentre il termine decadenziale per l’esercizio del potere di accertamento non può essere derogato (semmai il legislatore ha previsto alcune ipotesi di ampliamento, come quella collegata alla rilevazione di comportamenti concretanti violazioni penali tributarie, di cui all’art. 37, comma 24, del D.L. n. 223/ 2006, convertito in L. n. 248/2006), al termine iniziale l’ufficio accertatore può derogare, ma solamente in presenza di condizioni di «particolare e motivata urgenza»1.

Si tratta di una facoltà di assoluto rilievo concessa al contribuente, che da’ luogo a un’ipotesi di contraddittorio obbligatorio ante accertamento, nell’ambito del quale è possibile contestare il contenuto e le modalità operative del controllo, anche nella prospettiva di un’eventuale archiviazione del pvc (in presenza di presupposti autonomamente valutabili dall’ufficio).

Intervento della Consulta sull’accertamento anticipato

La questione della possibilità di non osservare, a determinate condizioni, il periodo di 60 giorni prima dell’emanazione/notificazione dell’avviso di accertamento, è stata oggetto dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 244/2009 [giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale – camera di Consiglio dell’8.7.2009, decisione del 16.7.2009, deposito del 24.7.2009].

La vicenda, promossa dalla CTR della Campania, riguardava un contenzioso in cui era parte l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, il quale aveva proceduto alla notifica dell’accertamento in data anteriore rispetto ai 60 giorni decorrenti dalla consegna del pvc.

Secondo il giudice a quo, la fase procedimentale coincidente con il periodo di sospensione dell’accertamento è finalizzata a garantire e a incentivare il principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, che esalta la funzione propria del contraddittorio [principio, quest’ultimo, desumibile dagli artt. 24, secondo comma, e 111 Cost.], con la conseguente possibile nullità dell’atto impositivo notificato prima del termine in parola.

Attraverso l’Avvocatura generale dello Stato, la Presidenza del Consiglio aveva chiesto che la questione di legittimità fosse dichiarata inammissibile e infondata, osservando che gli artt. 24 e 111 della Carta fondamentale, evocati quali parametri costituzionali, si riferiscono al processo giurisdizionale e non al procedimento amministrativo.

A sostegno di tale affermazione, era richiamata l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 19875 del 2008, secondo la quale la notifica dell’avviso di accertamento prima dello scadere del termine di 60 giorni non ne causa la nullità, perché:

  • tale atto ha natura vincolata rispetto al pvc sul quale si fonda;

  • manca un’esplicita previsione di nullità;

  • resta garantito al contribuente il diritto di difesa in via giudiziaria e in via amministrativa attraverso l’esercizio dell’autotutela.

Inoltre, secondo l’Avvocatura, il mancato rispetto del termine avrebbe potuto far sorgere la responsabilità disciplinare in capo al funzionario, nonché incidere sulle spese legali in caso di soccombenza del fisco, allorché fosse apparso evidente che il mancato rispetto del termine non aveva consentito al contribuente di portare a conoscenza dell’ufficio circostanze tali da impedire la stessa emanazione dell’avviso.

La Corte ha deciso per la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, derivante dal mancato esperimento, da parte del giudice a quo, della via dell’interpretazione «secondo Costituzione» della normativa controversa: in particolare, la commissione tributaria avrebbe dovuto verificare la possibile invalidità dell’atto impositivo anticipato, nel caso in cui questo fosse stato privo di un’adeguata motivazione circa la sua «particolare urgenza».

L’accertamento con adesione

Successivamente alla verifica, la vera sede del dialogo tra contribuenti e Fisco è rappresentata dall’accertamento con adesione, strumento idoneo alla chiusura della vertenza con un parziale riconoscimento della ragioni delle parti private, a fronte di un pronto e sicuro assolvimento delle maggiori imposte concordate (inferiori a quelle originariamente accertate, a seguito delle dimostrazioni fornite dal contribuente) e delle sanzioni ridotte a un terzo dei minimi edittali.

Secondo le interpretazioni ufficiali – C.M. 8.8.1997, n. 235/E -, nell’ambito del procedimento «si rende necessario redigere per ciascun incontro una sintetica verbalizzazione con la quale sarà dato atto, tra l’altro, della documentazione eventualmente prodotta dal contribuente e delle motivazioni addotte» (cfr. circolare Assonime n. 2 del 19.1.199).

La successiva circolare 28.2.2001, n. 65/E ha ribadito «l’obbligo di documentare i contraddittori2 svolti attraverso la redazione di appositi processi verbali, nei quali, sia pure sinteticamente, deve essere dato atto delle argomentazioni fornite dal contribuente, nonché dei relativi documenti prodotti», da rilasciare in copia al contribuente, previa sottoscrizione delle parti presenti.

Il contraddittorio nell’ambito dell’adesione, nel quale possono sfociare gran parte delle vertenze originate dai controlli programmati secondo le indicazioni della circolare n. 20/E, non può essere in nessun modo assimilato a una «trattativa» nella quale sia in gioco l’(indisponibile) obbligazione tributaria, ma semmai a una forma «specializzata» di partecipazione del cittadino (contribuente) al procedimento amministrativo, con natura e finalità analoghe a quelle previste, per le attività extratributarie, dalla legge generale sul procedimento, n. 241/1990.

Al fine di assicurare l’assoluta trasparenza dell’azione amministrativa, la motivazione dell’adesione deve indicare – in dettaglio e senza utilizzare formule di rito – gli elementi, i fatti e le circostanze che hanno condotto al ridimensionamento della pretesa tributaria, rendendo anche comprensibili tutti i passaggi logico-giuridici che hanno condotto a tale risultato e riassumendo, anche sinteticamente, i fatti e gli elementi più significativi contenuti nei singoli verbali di contraddittorio, divenendo in tal modo uno strumento di riscontro, ex post, dei ragionamenti seguiti dalle due parti del procedimento.

Le indicazioni fornite

La sopra citata sentenza n. 12290 del 12.6.2015 della Corte di Cassazione riguardava direttamente gli studi di settore e la loro natura presuntiva come strumenti di accertamento.

In questo genere di rettifiche fiscali, i requisiti di gravità, precisione e concordanza non sono determinati ex lege dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard – che sono «meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività» –, ma sorge «solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente».

«In tale sede, questi ha l’onere di provare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standard” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma va integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate».

L’impugnabilità dell’accertamento non è tuttavia condizionata dall’esito del contraddittorio. Nell’eventuale successivo contenzioso, infatti, il giudice tributario può valutare liberamente sia l’applicabilità degli standard al caso concreto (la dimostrazione al riguardo deve essere fornita dall’ente impostore), sia la prova contraria offerta dal contribuente, il quale non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e può anche fare ricorso a presunzioni semplici, anche se non ha risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa.

Ciò premesso, la Corte dichiara in maniera molto diretta che il contribuente che rifiuta il contraddittorio assume le conseguenze del proprio comportamento, consentendo in sostanza – senza resistenze – che l’ufficio motivi l’accertamento sulla sola base dei valori predeterminati mediante lo studio di settore, «dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito».

In tale situazione, in sede contenziosa, il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.

Così argomentando, la Cassazione ha rigettato il primo motivo di ricorso, sostanzialmente affermando che:

  • in via generale l’accertamento da «studi» non può fondarsi sul mero scostamento tra lo strumento presuntivo e i valori dichiarati;

  • (tuttavia) tale accertamento è legittimo se il contribuente non partecipa al contraddittorio, regolarmente attivato dall’ufficio finanziario.

Contraddittorio e abuso del diritto

L’accertamento antielusione è divenuto «antiabuso» per effetto del D.Lgs. 5.8.2015, n. 128.

Anche nel contesto del previgente art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, in considerazione del carattere per sua natura incerto delle contestazioni fondate sull’aggiramento di obblighi o divieti con finalità di risparmio fiscale [disapprovato dal sistema], ai contribuenti era concesso di produrre delle controdeduzioni in sede amministrativa, delle quali l’ufficio procedente doveva obbligatoriamente tener conto – a pena di nullità – nelle motivazioni dell’accertamento.

Nel nuovo art. 10-bis della L. n. 212/2000, inserito dal predetto D.Lgs. n. 128/2015, i commi da 6 a 9, in attuazione del principio previsto dall’art. 5, comma 1, lettera f), della legge delega n. 23/2014, prevedono specifiche regole procedimentali al fine di garantire un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario.

In primo luogo, il comma 6 stabilisce che prima dell’atto di accertamento in materia di abuso del diritto, l’amministrazione finanziaria deve notificare al contribuente, a pena di nullità, una richiesta di chiarimenti in cui devono essere indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile una fattispecie di elusione. Il contribuente deve fornire i chiarimenti richiesti entro il termine di sessanta giorni.

Tale fase preliminare, una sorta di contraddittorio preventivo obbligatorio, non pregiudica l’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi.

Ai sensi del comma 7 dell’art. 10-bis l’amministrazione finanziaria deve notificare la richiesta di chiarimenti [con la procedura prevista dalle norme in materia di accertamento delle imposte sui redditi] entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo [fissato, per le ipotesi di dichiarazione infedele, al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione del modello].

Il secondo periodo del comma 7 del citato art. 10-bis stabilisce che tra la data di ricevimento dei chiarimenti [ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta] e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrano non meno di 60 giorni.

Il terzo periodo del medesimo comma prevede infine che «in difetto» [del fatto che siano effettivamente intercorsi 60 giorni] il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei 60 giorni.

Nel caso in cui l’amministrazione finanziaria notifichi la richiesta di chiarimenti a ridosso del termine di decadenza, avendo il contribuente 60 giorni per fornirli, la proroga del termine di decadenza potrebbe protrarsi fino a 120 giorni.

Il comma 8 dell’art. 10-bis prescrive l’obbligo di specifica motivazione dell’atto di accertamento, a pena di nullità, in relazione a:

  • condotta abusiva;

  • norme o principi elusi; indebiti vantaggi fiscali realizzati;

  • chiarimenti forniti dal contribuente.

Il successivo comma 9 dell’articolo disciplina il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi individuati dai commi 1 e 2; a carico del contribuente grava invece l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali che giustificano le operazioni effettuate, indicate dal comma 3.

Nel vigente contesto normativo, l’abuso del diritto non può essere rilevato d’ufficio da parte del giudice tributario.

Il comma 12 dell’articolo in commento stabilisce il carattere residuale della disciplina dell’abuso del diritto, prevedendo che il relativo possa scattare solamente se non è possibile invocare, ai fini dell’accertamento, la violazione di specifiche norme tributarie.

Per quanto riguarda i precedenti giurisprudenziali di legittimità che, anche se relativi a contenziosi di merito formatisi nella vigenza del soppresso art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, potrebbero risultare tuttora validi alla luce delle previsioni del richiamato art. 10-bis della L. n. 212/2000, può essere menzionata la sentenza della Corte di Cassazione 14.1.2015 n. 406.

Secondo quanto è posto in luce dalla Corte, a seguito di varie pronunce della Corte di Giustizia UE è venuto affermandosi un principio generale secondo il quale il soggetto destinatario di un atto della PA suscettibile di produrre effetti pregiudiziali nella sua sfera giuridica deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti.

Il contraddittorio preventivo tra le parti è infatti – secondo la Corte – un principio che discende in via diretta dall’ordinamento comunitario e dalla Costituzione, per cui deve essere rispettato anche negli accertamenti in materia di abuso del diritto.

Questo orientamento poneva il principio del contraddittorio come prevalente e irrinunciabile, sia per i tributi armonizzati che per quelli non armonizzati.

L’obbligo è limitato ai tributi armonizzati?

La successiva sentenza delle SS.UU. 9.12.2015 n. 24823, è intervenuta in modo netto circoscrivendo il campo del «contraddittorio obbligatorio», nei termini seguenti.

Innanzi tutto, nel caso di specie l’accertamento risultava chiuso dall’amministrazione in violazione del principio di cui all’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, cioè senza aver permesso alla società verificata di attivare il contraddittorio avanti l’ufficio per esporre le proprie ragioni.

Si trattava di stabilire, in particolare, se l’obbligo per l’ufficio di concedere al contribuente 60 giorni tra il rilascio del verbale e la notificazione dell’atto impositivo, al fine di consentirgli di formulare le proprie osservazioni, dovesse ritenersi sussistente nei soli casi di attività istruttoria esterna, ovvero anche nel caso di attività istruttorie svolte presso la sede dell’ufficio, in base alle notizie acquisite da altre pubbliche amministrazioni, da terzi ovvero dallo stesso contribuente, in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloquio [verifiche a tavolino].

Al riguardo la Corte richiama la precedente Cass., SS.UU., 18184/2013, la quale «ha sancito che l’art. 12, comma 7, L. 212/2000 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni [dal rilascio di copia del pvc di chiusura delle operazioni] per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina, di per sé, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, salva la ricorrenza, da comprovarsi dall’Ufficio, di oggettive specifiche ragioni d’urgenza».

Tale decisione aveva delimitato l’obbligo, in termini espliciti, alle ipotesi di «accesso», «ispezione» o «verifica» nei «locali destinati all’esercizio dell’attività» del contribuente.

La giurisprudenza della sezione tributaria della Cassazione si era conformata alla citata sentenza delle SSUU del 2013: in particolare, tra le varie pronunce richiamate, Cass. 26316/2010 aveva osservato che, anche dopo l’entrata in vigore dello Statuto del contribuente, non era possibile ritenere esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale.

La prima significativa distonia rispetto al pressoché univoco orientamento sul tema del contraddittorio endoprocedimentale è costituita dalle sentenze Cass., SS.UU., 19667/2014 e 19668/2014, le cui motivazioni «sembrano effettivamente tendere, così come rilevato dall’ordinanza interlocutoria, al riconoscimento di una generalizzata espansione di detta garanzia, quale espressione di principio immanente all’ordinamento nazionale ed a quello europeo».

Successivamente a tali sentenze, Cass. 25759/2014 e Cass. 406/2015 hanno affermato che, nel settore delle imposte dirette, l’obbligo del contraddittorio, sancito per gli accertamenti fondati su ipotesi di abuso di diritto [anche nella vigenza del vecchio art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973], deve ritenersi operante anche in relazione agli accertamenti basati su fattispecie atipiche di abuso di diritto.

Altre decisioni [Cass. 16036/2015, 6232/2015, 5632/2015, 992/2015, 961/2015], sono intervenute su controversie aventi ad oggetto IVA – tributo «armonizzato» -, e hanno ritenuto, in tale ambito, operante la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, quale principio immanente nell’ordinamento europeo, ma nell’accezione sostanzialisticamente restrittiva, di cui alla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia.

Al riguardo è stata altresì rammentata la sentenza della Corte Costituzionale n. 132/2015, la quale ha ritenuto infondata la questione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, prospettata in relazione al fatto che, in materia di imposte dirette, la norma, «esplicitamente imponendo il contraddittorio endoprocedimentale quale condizione di legittimità dei soli accertamenti fondati sulle ipotesi tipizzate di abuso di diritto, sembra determinare un ingiustificato deteriore trattamento di questi rispetto agli accertamenti basati su ipotesi innominate di abuso di diritto».

Procedendo a un’ampia ricostruzione sistematica della materia, la Cassazione osserva che nell’ordinamento nazionale non esiste, allo stato, un principio generale, per il quale, anche in assenza di specifica disposizione, l’amministrazione sarebbe tenuta ad attivare il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.

A tale riguardo osserva la Corte che, ad esempio, nel ridisciplinare l’accertamento sintetico, l’art. 22, comma 1, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010, ha introdotto l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale anche per l’ipotesi di accertamento a tavolino. Tale circostanza ha indotto ad affermare che, se doveva prevedersi un obbligo specifico, deve essere escluso che esista nell’ordinamento una simile clausola generale [di contraddittorio endoprocedimentale].

Nella stessa prospettiva viene letta la previsione della legge delega per la riforma tributaria n. 23/2014, comprensiva della previsione di forme di contraddittorio propedeutiche all’adozione degli atti di accertamento, nonché del rafforzamento del contraddittorio nella fase di indagine e della subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale

Il contraddittorio secondo il diritto dell’UE

Sempre secondo la linea ricostruttiva della Cassazione, l’ordinamento europeo adotta in materia una differente impostazione.

Risulta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia3, il rispetto del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo, non escluso quello tributario, costituisce, quale esplicazione del diritto alla difesa, principio fondamentale dell’ordinamento europeo, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione adotti nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo.

In tale contesti, il destinatario di un provvedimento teso ad incidere sensibilmente sui suoi interessi deve, a pena di invalidità del provvedimento stesso, essere messo preventivamente in condizione di manifestare il proprio punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione.

Il principio è attualmente codificato nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

«Il principio dell’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale non è, tuttavia, assunto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini assoluti e puramente formali, posto che anche i diritti fondamentali, quali il diritto di difesa, non danno vita a prerogative incondizionate, potendo soggiacere a restrizioni, che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, ad obiettivi di interesse generale» (cfr. Corte giust. 3.7.2014, in cause C-129 e C-130/13, Ramino International Logistics; 26.92013, in C-418/11, Texdata Software).

Alla luce di quanto sopra esposto, ha concluso la Cassazione che, sul tema del contraddittorio endoprocedimentale, la disciplina europea e quella nazionale divergono.

«La prima, infatti, prevede il contraddittorio endoprocedimentale, in materia tributaria, quale principio di generale applicazione, pur valutandone gli effetti in termini restrittivamente sostanzialistici; la seconda, lo delinea, invece, quale obbligo gravante sull’amministrazione a pena di nullità dell’atto», non ogni qual volta essa si accinga a adottare un «provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente – ma, soltanto, in relazione ai singoli (ancorché molteplici) atti per i quali detto obbligo è esplicitamente contemplato».

Su tale base, ha concluso la Cassazione che:

  • per i tributi non armonizzati, l’obbligo dell’amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, a pena di invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi in cui tale obbligo sia previsto da specifica norma di legge;

  • per i tributi armonizzati occorre invece far riferimento alle più ampie disposizioni europee, secondo le quali il contraddittorio [soggetto a obbligo generalizzato] va sempre attivato in presenza di atti lesivi di diritti e interessi.

Questo, testualmente, il principio di diritto affermato:

«differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto».

Controlli a tavolino: la rimessione alla Consulta

La CTR della Toscana è stata investita in sede di appello di un contenzioso in seno al quale era emersa la questione appunto del contraddittorio procedimentale, con il correlato obbligo dell’ufficio di concedere i 60 giorni necessari per le controdeduzioni.

Al riguardo era venuto a porsi il problema della possibile differenziazione / discriminazione tra le verifiche esterne [soggette a contraddittorio] e i controlli a tavolino [presumibilmente non soggetti a contraddittorio].

La questione, sulla quale come si è visto si è registrata un’ampia giurisprudenza di legittimità e di merito, oltre alle pronunce della Corte comunitaria, è di estrema attualità ed è stata rimessa alla Corte Costituzionale con ordinanza n. 736/1/15.

Al riguardo la CTR aveva fatto richiamo ai seguenti riscontri giurisprudenziali di legittimità:

  • sentenze n. 19667/2014 e n. 19668/2014: favorevoli a un vero e proprio principio generale del contraddittorio, come espressione dell’inalienabile diritto di difesa del cittadino garantito dall’art. 24 Cost., nonché del principio di buon andamento della PA;

  • sentenza delle SS.UU. della Cassazione n. 18184 del 2013: ha precisato che il diritto al contraddittorio endoprocedimentale è previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, solo con riguardo agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove viene esercitata l’attività imprenditoriale o professionale.

Successivamente le medesime SS.UU. (

Tale orientamento era stato avallato anche dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 132 del 2015 secondo cui nel nostro diritto vige il principio generale del contraddittorio, che trova applicazione anche se non è enunciato in specifiche disposizioni di legge.

Tuttavia, con la recente sentenza n. 24823 del 2015, le Sezioni Unite della Cassazione hanno nuovamente limitato l’applicazione del contraddittorio. In particolare, si era affermato che non esiste nel nostro ordinamento un obbligo generalizzato per l’Amministrazione di attivare il contraddittorio prima dell’emissione dell’atto, salvo non sia espressamente previsto per legge. Si tratta, infatti, di un principio di derivazione comunitaria e pertanto applicabile solo ai tributi “armonizzati” (IVA). Peraltro, anche per questa ipotesi, perché operi la sanzione di nullità del provvedimento, occorre che il contribuente dimostri che in tale sede avrebbe concretamente potuto produrre elementi difensivi. Con tale pronuncia si era dunque di fatto limitata l’applicazione dell’art. 12, comma 7, alle sole verifiche in loco.

La questione di legittimità costituzionale

Prendendo le mosse da un tale contraddittorio panorama giurisprudenziale, la CTR si pone dunque il seguente quesito: sussiste nel nostro ordinamento un generale obbligo per l’Amministrazione di instaurare il contraddittorio con il contribuente prima di emettere un accertamento ovvero tale obbligo sorge solo ove previsto da specifiche disposizioni di legge? E dunque l’art. 12, comma 7, si applica solo per le verifiche in loco – così come parrebbe dal dettato letterale della norma – ovvero in generale a tutte le tipologie di accertamento, anche a tavolino?

I giudici della CTR analizzano, a tal proposito, le peculiarità del processo tributario, caratterizzato dalla sostanziale assenza di una fase istruttoria o di raccolta delle prove da parte di un giudice terzo, o comunque in contraddittorio (è infatti vietata la prova testimoniale). Di fatto, dunque, l’istruttoria fiscale è affidata quasi esclusivamente all’Amministrazione, che peraltro può spesso avvalersi di meri “indizi”.

Posto che non è possibile – osserva la Commissione – che i giudici tributari si facciano ricercatori di prove, appare dunque necessario che il contribuente abbia voce nella fase “amministrativa”, in cui si forma il materiale probatorio su cui poi si fonderà il giudizio.

Il contraddittorio amministrativo appare dunque strumentale a garantire il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e a far si che le parti processuali si trovino su un piano di sostanziale parità.

Peraltro, voler applicare l’art. 12, comma 7, alle sole verifiche in loco sarebbe discriminatorio nei confronti di quei contribuenti che hanno invece subito accertamenti a tavolino i quali hanno comunque diritto ad evidenziare le proprie ragioni prima che la pretesa del fisco si cristallizzi in un atto impositivo.

Ne deriva dunque che è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, legge n. 212/2000 nella parte in cui riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale di chiusura delle operazioni di accertamenti e di disporre dei 60 giorni per eventuali controdeduzioni, nelle sole ipotesi di verifiche in loco.

Sarà ora la Consulta a dover pronunciarsi definitivamente sulla questione.

4 febbraio 2016

Fabio Carricolo

1 La questione della possibilità di non osservare, a determinate condizioni, il periodo di 60 giorni prima dell’emanazione/notificazione dell’avviso di accertamento, è stata oggetto dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 244 del 2009 (giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale – camera di Consiglio dell’8.7.2009, decisione del 16.7.2009, deposito del 24.7.2009).

2 E’ sempre opportuna la verbalizzazione dei contraddittori con esito negativo, come segnalato dalla circ. n. 65/2001, paragrafo 4.2.

3 Vengono richiamate le seguenti sentenze: 3.7.2014, in causa C-129 e C/130/13, Ramino International Logistics; 22.10.2013, in causa C-276/12, Jiri Sabou; 18.12.2008, in causa C-349/07, Sopropé; 12.12.2002, causa C-395/00, Soc. Distillerie Cipriani; 21.9.00, in causa C-462/98 P, Mediocurso c. Commissione; 4.10.1996, in causa C-32/95 c. Lisrestat.