Il valore normale dopo il Decreto Internazionalizzazione

La ristrutturazione del sistema sanzionatorio tributario incide anche sul concetto di valore normale: problematiche, orizzonti e spunti processuali dopo la recente modifica legislativa.

Decreto Internazionalizzazione: la portata della novità legislativa

Il decreto legislativo n. 147 del 14 settembre 2015, intitolato “Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese” (nella GU Serie Generale n. 220 del 22 settembre 2015) ed entrato in vigore lo scorso 7 ottobre, prevede, all’articolo 5, un’importante novità in tema di utilizzo del “valore normale” in caso di cessione di immobili ed aziende.

L’art. 5, c. 3, D.Lgs. citato, infatti, dispone espressamente che gli articoli 58, 68, 85 e 86 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347.

Si tratta di una disposizione di carattere interpretativo e, dunque, di portata retroattiva, come tale idonea a condizionare i contenziosi già pendenti, particolarmente rilevante in quanto “mette in crisi” la presunzione di corrispondenza tra il valore del bene immobile dichiarato (o accertato) ai fini dell’imposta di registro ed il prezzo calcolato ai fini delle imposte dirette Irpef e Irap.

Viene superata, quindi, la granitica corrente giurisprudenziale di legittimità che finiva per equiparare, tout court, i due citati valori (valore normale = prezzo), ritenendo una sostanziale omogeneità degli stessi ai fini dell’imposizione diretta ed indiretta e legittimando, in ogni caso, l’accertamento induttivo delle imposte dirette dell’Amministrazione finanziaria, basato sulle indicazioni desumibili dall’atto del registro (o, meglio, sul valore definitivamente accertato).

Ci siamo occupati di questa giurisprudenza, ed in particolare della posizione del venditore di un bene il cui valore sia stato definito ai fini dell’imposta di registro, con nota pubblicata su questa rivista in data 19 giugno 2014, alla quale si fa rinvio per completezza esplicativa (vedi: La posizione del venditore di un bene, il cui valore sia stato definito ai fini dell’imposta di registro, del 19/06/2014).

Ma adesso, dopo il descritto mutamento normativo, l’avviso di accertamento teso al recupero delle plusvalenze realizzate tramite la cessione di immobili o aziende deve essere motivato più compiutamente, non potendo più limitarsi a riportare lo scostamento evidenziato in sede di tassazione dell’imposta di registro.

Si tratta, in definitiva, di un nuovo e più pregnante onere motivazionale del Fisco, pensato dal legislatore per superare ogni sorta di automatismo in materia e consentire al contribuente di spiegare la diversità (talvolta anche sostanziale) dei valori indicati ai fini del registro rispetto a quelli realizzati ai fini dell’imposizione diretta.

 

 

Le prime avvisaglie del “nuovo corso” nelle determinazioni dell’AIDC

La norma di comportamento n. 171 dell’Associazione italiana dei dottori commercialisti del 2008, per la verità, deponeva già nella direzione segnata dal novum legislativo in questione, nel senso che – secondo detta norma – in caso di cessione di azienda la definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro non assumesse automatica efficacia ai fini delle imposte dirette.

Stante la particolare conferenza della norma di comportamento testé citata, pare opportuno riportarne alcuni passaggi: “i principi relativi alla determinazione del valore di un’azienda che viene trasferita a titolo oneroso sono diversi a seconda dell’imposta che si applica: ai fini dell’imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato del bene, mentre con riferimento alle imposte dirette, la plusvalenza è costituita dalla differenza realizzata tra il prezzo di cessione convenuto dalle parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale e il costo non ammortizzato. Considerata la diversità dei presupposti per la determinazione dell’imposta nella cessione d’azienda ai fini della applicazione dell’imposta di registro e delle imposte dirette, sopra descritta, la definizione di un accertamento ai fini dell’imposta di registro non ha automatica efficacia ai fini di un accertamento delle imposte sul reddito effettuato sia ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera c) e d), sia ai sensi del secondo comma del medesimo articolo del D.P.R. n. 600/1973”.

Ed ancora, continua detta norma, “si ritiene che l’Amministrazione Finanziaria in sede di accertamento analitico del reddito d’impresa (ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera c) e d) e art. 40 del D.P.R. n. 600/1973) possa procedere alla rettifica del corrispettivo di cessione dell’azienda contabilizzato solamente in presenza di fatti certi o di ulteriori presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, che siano aggiuntive rispetto ad un accertamento definito ai fini dell’imposta di registro e che provino che l’effettivo corrispettivo è superiore a quanto contabilizzato”.

In sostanza, “i molteplici elementi presi a base dell’accertamento ai fini dell’imposta di registro concernono il valore e non il corrispettivo percepito e possono quindi rappresentare solamente una presunzione semplice che deve essere integrata con elementi aggiuntivi”.

In conclusione, secondo l’AIDC, “nella motivazione dell’accertamento ai fini delle imposte dirette non è sufficiente la sola indicazione dell’importo definito ai fini dell’imposta di registro, senza ulteriori elementi di prova in relazione al maggior prezzo di realizzo che l’Amministrazione Finanziaria assume come conseguito. Resta comunque salva la possibilità in capo all’Amministrazione Finanziaria di provare l’eventuale occultamento di una parte del corrispettivo utilizzando i poteri di verifica e controllo messi a sua disposizione dalla legge, ivi compresa la possibilità di effettuare indagini finanziarie”.

 

 

Il filone giurisprudenziale ad oggi minoritario

In senso favorevole alla norma di comportamento riportata, pare opportuno evidenziare che sulle tipologie di rettifica in analisi, inizialmente, anche la Cassazione aveva, in isolati casi, stabilito che il valore del bene venduto per come dichiarato dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro non rappresentasse di per sé elemento sufficiente per giustificare un accertamento induttivo della maggiore plusvalenza realizzata dal venditore (così Cassazione, sentenze nn. 10049/2000 e 16700/2005).

Più specificamente, entrambe le pronunce citate evidenziavano la necessità di un’attenta motivazione che l’Amministrazione finanziaria era tenuta a fornire, stabilendo che l’avviso di accertamento emesso ai sensi dell’art. 39 D.P.R. n. 600/73 unicamente in base a valutazioni dell’Agenzia del Territorio fosse nullo, ove fondato su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Inoltre, la pronuncia del 2005 affermava espressamente che “in tema di imposte sui redditi d’impresa, per la determinazione della plusvalenza realizzata con la vendita di un immobile, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in base all’inequivoco significato del termine “corrispettivo”, occorre avere riguardo alla differenza fra il prezzo di cessione e quello di acquisto, e non al valore di mercato del bene, come per l’imposta di registro, essendo i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito diversi a seconda dell’imposta da applicare”.

È da indicare, poi, un’altra (molto più recente) pronuncia di legittimità, la n. 24054/2014, secondo cui “in presenza di contabilità formalmente regolare tenuta da una società che ha venduto un immobile, i valori desunti dall’OMI non possono costituire da soli elementi sufficienti per giustificare una rettifica della plusvalenza in contrasto con le risultanze contabili, ma possono essere soltanto esaminati nel contesto della situazione contabile ed economica dell’impresa, e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive gravi, precise e concordanti – quali, tra le altre, l’assoluta sproporzione tra corrispettivo dichiarato e valore dell’immobile – costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare”.

La giurisprudenza di merito sembra, invece, essere maggiormente altalenante rispetto a quella di legittimità.

Di recente (si confronti, in materia, la sentenza della CTR Emilia Romagna n. 506/04/15 del 6 marzo 2015) è stato stabilito, più in generale, che la previsione contenuta nell’articolo 20 del Dpr 131/1986 che consente all’Amministrazione finanziaria di applicare l’imposta di registro secondo l’intrinseca natura degli atti, non è suscettibile di applicazione estensiva. Pertanto, una volta individuato l’esatto contenuto dell’atto ai fini dell’imposta di registro, sarebbe errata l’automatica trasposizione degli effetti ai fini delle altre imposte, come le imposte dirette.

 

Il consolidato orientamento della Cassazione: quali prospettive di cambiamento dopo il Decreto Internazionalizzazione?

Per la verità, a parte le sporadiche sentenze appena indicate, la nota comportamentale diffusa dall’Associazione di categoria fin dal 2008 è rimasta sostanzialmente lettera morta, non avendo – come accennato – quasi mai superato il vaglio di legittimità.

La Cassazione, in effetti, si è da sempre mostrata di tutt’altro avviso, ritenendo giustificato e legittimo l’avviso di accertamento ai fini del’imposizione diretta basato esclusivamente sul valore dichiarato o accertato ai fini dell’imposta di registro (cfr. ex multis, Cass. nn. 18705/2010, 22869/2011, 12632/2012 e 25290/2014).

I giudici della Suprema Corte sono tendenzialmente fermi nel ritenere che, in tema di accertamento del reddito d’impresa, il valore di mercato specificato in sede di applicazione dell’imposta di registro in capo all’acquirente possa essere legittimamente utilizzato dall’Ufficio come dato presuntivo ai fini dell’accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di azienda.

In tale ipotesi, spetta al contribuente-venditore provare un diverso valore, anche dimostrando di non aver interamente realizzato, in concreto, il valore di mercato del bene ceduto. Inoltre, la stessa Cassazione ha statuito che la circostanza per la quale il maggiore valore accertato ai fini dell’imposta di registro derivi dalla definizione di un accertamento con adesione dell’acquirente non determina l’illegittimità, per l’Amministrazione finanziaria, di procedere all’accertamento in capo al venditore sulla base di questo maggior valore, restando comunque salva la possibilità per il contribuente accertato di offrire la prova contraria, attraverso circostanze fattuali ed elementi concreti e certi in tal senso.

E’di qualche giorno fa, infine, un ulteriore pronunciamento della Cassazione, secondo cui, in tema di plusvalenze patrimoniali realizzate a seguito di cessione di azienda, la dichiarazione del contribuente, ai fini Irpef, di un valore inferiore a quello già accertato in via definitiva per il medesimo bene in sede di imposta di registro legittima l’Amministrazione finanziaria a procedere all’accertamento della plusvalenza, integrando o correggendo la relativa imposizione con possibilità di utilizzare una seconda volta, ricorrendo anche a presunzioni, gli stessi elementi probatori già posti a fondamento del precedente accertamento, mentre spetta al contribuente, che deduca l’inesattezza della correzione o dell’integrazione, superare la presunzione dimostrando di aver venduto al minor prezzo indicato in bilancio (Cass. n. 20204 dell’8 ottobre 2015).

Dopo la novella, occorrerà valutare quale sarà la presa di posizione dei giudici, di merito e i legittimità, sulla cause in corso tenuto conto della portata retroattiva della norma e del venir meno di ogni automatismo nell’equiparazione dei valori anzidetti.

Gli effetti concreti, con intento previsionale, potranno essere meno dirompenti quanto più gli accertamenti di valore ai fini dell’imposta di registro saranno accurati e circostanziati.

Infatti, l’interprete deve considerare, ad esempio, che un conto è il valore dell’azienda accertato con un metodo astratto e definito dall’acquirente in sede di accertamento con adesione, ad esempio per evitare le lungaggini del contenzioso (è ovvio che si tratta di un elemento presuntivo “debole” ai fini dell’accertamento di una maggiore plusvalenza), un altro conto è il valore dell’azienda, accertato con una metodologia minuziosa, magari con l’ausilio delle indagini finanziarie, rispetto al quale il venditore stesso (e non l’acquirente) ha prestato acquiescenza.

In quest’ultimo caso, il valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro non è solamente un elemento presuntivo inutilizzabile ai sensi del nuovo art. 5, c. 3, D.Lgs. 147/2015 ma riassume in sè una intrinseca “forza”, tale da corroborare l’accertamento di un maggiore prezzo, e probabilmente tale da giustificare quell’apparato presuntivo grave, preciso e concordante richiesto dall’art. 39 D.p.r. 600/1973.

 

24 novembre 2015

Martino Verrengia

Il presente scritto è a titolo personale e non vincola in ogni caso l’Amministrazione di appartenenza