Amministratore dipendente di società: analisi pratica e suggerimenti in merito alla deducibilità fiscale del costo del lavoro

la questione relativa alla deducibilità dal reddito d’impresa della retribuzione dell’amministratore delegato/dipendente che risulta essere dipendente della società

 

Con la sentenza n. 19050 del 25 settembre 2015, n. 19050, la Corte di Cassazione è ritornata ad affrontare la questione relativa alla deducibilità della retribuzione dell’amministratore delegato/dipendente.

La decisione di secondo grado, censurata dall’amministrazione finanziaria, ha ritenuto deducibili gli emolumenti asseritamente corrisposti all’amministratore delegato di una società, dotato di amplissimi poteri di rappresentanza ed amministrazione della stessa, al quale veniva altresì corrisposto un compenso per tale carica, commisurato in misura percentuale ai ricavi della società.

 

Il pensiero del collegio

La Corte, richiamando precedenti pronunce, rifissa precisi principi:

  • l’incompatibilità con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società sia ravvisabile nella sola qualifica di amministratore unico di una società, non potendo ricorrere in tal caso l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che si configura cane requisito tipico della subordinazione (Cass. n. 13009 del 2003)”;

  • la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita (Cass. n. 329 del 2002)”;

  • in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’art. 62 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – articolo largamente trasfuso nel “nuovo” art. 95 del tuir) -, il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali” (Cass. n. 13009 del 2003)”.

 

Nel caso di specie, osserva la Corte, il giudice d’appello ha escluso la rilevanza di “eventuali incompatibilità di natura civilistica in capo all’A.”, perché esse “non limitano la deduzione di detti costi“. Lo stesso giudice di appello ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva considerato deducibili perché inerenti i costi per lavoro dipendente in discorso, ritenendo “ che l’ulteriore attività svolta dal componente del consiglio di amministrazione era direttamente collegati all’attività societaria e volta alla produzione di reddito, adempiendo all’obbligo motivazionale e cogliendo la questione in punto inerenza dell’attività svolta nell’interesse della società”.

 

La questione

La problematica relativa all’indeducibilità o meno del costo del lavoro dell’amministratore ovvero dell’amministratore unico è da diversi anni alla ribalta.

Per considerare la prestazione di lavoro come effettuata in regime di subordinazione è necessario che le mansioni svolte dal socio in forza del contratto di lavoro siano diverse da quelle svolte nelle funzioni di amministratore e che il socio amministratore si trovi in posizione subordinata nei confronti della società, il cui potere direttivo, gerarchico e disciplinare, sia esercitato da altro organo della società.

L’art.2094 c.c. prevede che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore “.

La cumulabilità della posizione di socio con quella di lavoratore subordinato presuppone l’accertamento effettivo della sussistenza del vincolo di subordinazione gerarchica e, in particolare, lo svolgimento da parte del socio-lavoratore di mansioni diverse da quelle proprie della carica ricoperta.

La nota dell’INPS

L’Inps (circolare n.179 dell’8 agosto 1989) ha affermato che “quando il presidente, l’amministratore unico e il consigliere delegato esprimono da soli la volontà propria dell’ente sociale, come anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina, in veste di lavoratori essi verrebbero ad essere subordinati a se stessi, cosa che non è giuridicamente possibile. Per essi, pertanto, in linea di massima, è da escludere ogni riconoscibilità di rapporto di lavoro subordinato”.

La posizione delle Entrate

Per l’Agenzia delle Entrate (R.M. n. 158/E del 27 maggio 2002) “la deducibilità dei compensi per il lavoro prestato dal socio è ammessa a condizione che, sul piano civilistico, ricorrano i presupposti essenziali per l’instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato tra il socio e la società”.

Il pensiero giurisprudenziale

Perché la prestazione di lavoro sia considerata come effettuata in regime di subordinazione sono necessarie due condizioni essenziali :

  • che le attività (mansioni) svolte dal socio in forza del contratto di lavoro siano diverse da quelle (funzioni) che sono attribuite allo stesso in quanto amministratore. Infatti l’obbligo di esplicazione di quest’ultime, e le relative modalità, trovano la loro fonte nel contratto sociale e nella legge, e non possono pertanto essere oggetto anche di un contratto di lavoro che ha ben differenziate natura e caratteristiche;

  • che il socio amministratore si trovi in posizione subordinata nei confronti della società, il cui potere direttivo, gerarchico e disciplinare, sia esercitato da altro organo della società. Rimane fermo, infatti, che l’amministratore non può dipendere da se stesso, cioè non può assumere la duplice veste di datore di lavoro e di dipendente.

 

A conforto si richiama la pronuncia della Corte di Cassazione n.7562 del 22 dicembre 1983 ( sezione lavoro), secondo cui ” la cumulabilità nello stesso soggetto della qualità di amministratore di una società e di dipendente della medesima deve escludersi allorchè non sia configurabile una volontà imprenditoriale che si formi in modo autonomo al dipendente, si che possano attuarsi i poteri di controllo e disciplinare che caratterizzano in termini di subordinazione lo stesso svolgersi del rapporto di lavoro e in definitiva la causa del relativo negozio costitutivo “.

Per la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n.894/1998) è compatibile la qualifica di amministratore di una società con la condizione di lavoro subordinato alle dipendenze della stessa, purchè colui che intende far valere il rapporto di lavoro subordinato provi in modo certo l’elemento tipico qualificante, e cioè il requisito della subordinazione. Il vincolo della subordinazione non può sussistere, invece, quando, l’amministratore della società sia unico .

Sempre la Corte di Cassazione (sentenza n. 13009 del 5 settembre 2003) aveva già affermato che la qualifica di amministratore unico di una società non è compatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società, non potendo ricorrere in tal caso l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che si configura come requisito tipico della subordinazione.

Ancora la Corte di Cassazione, con sentenza n. 24188, depositata il 13 novembre 2006, ha ritenuto indeducibile dal reddito d’impresa i costi sostenuti a titolo di compenso per il lavoro subordinato prestato dall’amministratore unico di una società di capitali, poiché l’attività gestoria svolta è stata equiparata sotto il profilo giuridico a quella dell’imprenditore individuale. I giudici supremi osservano che secondo giurisprudenza consolidata della Suprema Corte “la qualifica di amministratore unico di una società non è compatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società, non potendo ricorrere in tal caso l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che si configura come requisito tipico della subordinazione (cfr., per tutte, Cass. n. 13009/2003) e tanto per il contenuto sostanzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria svolta dall’amministratore unico in relazione alla quale non è individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta, tale da determinare la soggezione dipendente-amministratore unico (vd. in tal senso Cass. n. 1662/2000 e n. 381/2001)”. Prosegue la Corte: “la riconosciuta equiparazione, sotto il profilo giuridico, tra l’attività gestoria svolta dall’amministratore unico di società e quella svolta dall’imprenditore comporta, pertanto, che a norma dell’art.62 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il quale prevede la deducibilità per spese di lavoro dipendente e per compensi agli amministratori, escludendo espressamente la deducibilità del compenso per l’opera prestata o per il lavoro svolto dall’imprenditore, deve ritenersi non ammessa in deduzione la spesa per compenso di lavoro prestato e dell’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali considerato che l’attività svolta a tale titolo rientra in quella svolta dall’imprenditore”.

Con l’ordinanza n. 25572 del 14 novembre 2013 (ud. 23 ottobre 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che, “in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione di quello d’impresa, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62, il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali. Infatti la posizione di quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 24188 del 13/11/2006, n. 21155 del 2005)”.

Con la sentenza n. 7312 del 22 marzo 2013 (ud. 24 gennaio 2013) la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ha confermato che “la carica di amministratore unico di una società a base personale è incompatibile con la posizione di lavoratore subordinato della stessa, in quanto non possono in un unico soggetto riunirsi la qualità di esecutore subordinato della volontà sociale e quella di organo competente ad esprimere tale volontà; infatti, la costituzione e l’esecuzione del rapporto lavorativo subordinato devono essere collegabili ad una volontà della società distinta da quella dell’amministratore (Cass. sent. 15 settembre 1979 n. 4779; cfr. pure Cass. 17 maggio 1975 n. 1940)”. Nella fattispecie in esame, la Corte di Appello ha riscontrato “l’effettività del ruolo gestorio assunto dalla V.; di conseguenza, è corretta anche in punto di diritto la sentenza impugnata laddove ha escluso che l’amministratore unico di una società in accomandita semplice possa essere, contemporaneamente dipendente della medesima, per la necessità che non si concentrino ad un tempo nella stessa persona fisica il potere di esprimere la volontà della società, di dare ad essa esecuzione nonchè di effettuarne il relativo controllo, tanto più che, instaurandosi il rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’amministrazione della società, nel caso di amministratore unico verrebbe a mancare l’elemento dell’intersoggettività, senza del quale è inconcepibile la stessa esistenza di siffatto rapporto giuridico. Ciò vale, a maggior ragione, per le società di persone, nelle quali la mancata creazione di un distinto ente giuridico e la minore spersonalizzazione dei soggetti preposti agli organi sociali fanno apparire ancor più necessaria la distinzione tra i soggetti dei relativi rapporti giuridici (Cass. 3 novembre 1977 n. 4690)”.

Le nostre considerazioni

Come abbiamo potuto vedere, in ordine alla compatibilità del ruolo di amministratore con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, in assenza di specifica disposizione di legge, soccorre la giurisprudenza, la quale ha ritenuto che nelle società di capitali, il rapporto di lavoro dei “soci non amministratori” può definirsi subordinato, solo quando la prestazione lavorativa abbia tutti i requisiti del lavoro dipendente, e l’attività sia diversa da quella svolta in qualità di socio (i.e., se dall’esame dei verbali del C.d.A., lo stesso non risulta assegnato, in qualità di dirigente, alla direzione del Servizio cui è preposto in qualità di lavoratore dipendente, né è in grado di “guidare” la volontà sociale per la ridotta partecipazione posseduta).

Per giurisprudenza costante, infatti, “per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali e la società stessa è necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione e cioè l’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso, nonostante la suddetta qualità di membro del consiglio di amministrazione” (cfr. Cass. nn. 6819/2000 e 5418/1996).

La giurisprudenza è giunta in genere alla conclusione che il rapporto di subordinazione e la sottoposizione alle direttive del datore di lavoro non viene meno quando il potere di decisione finale in relazione al settore di amministrazione affidato al Consigliere-Dirigente rimanga affidato a terzi, sia che si tratti del C.d.A. nel suo complesso che ad altro Consigliere, fermo restando che il riconoscimento della natura giuridica di rapporto di lavoro dipendente deve risultare, in sede di accertamento di merito, dalla persistenza della soggezione ad un potere esterno di controllo da parte degli organi sociali istituzionalmente investiti del relativo potere, denotante la presenza del vincolo di subordinazione.

La presenza o l’assenza del vincolo di subordinazione non può costituire esito di un giudizio di legittimità, ma è l’assetto societario concreto che costituisce valido parametro per il giudizio di merito. Non basta la presenza di un Consiglio di Amministrazione a provare la sussistenza del vincolo di subordinazione, ma occorre accertare che, di fatto, la contrapposizione fra potere di direzione, di controllo, e disciplinare, in capo al Consiglio, ed obbligazione di esecuzione di volontà aliene, in capo al dirigente, si sia realizzata, o che sussistono gli elementi per la sua realizzazione.

E’, quindi, incompatibile la qualifica di amministratore con quella di lavoratore subordinato, quando l’amministratore della società possiede tutti i poteri di controllo, gestione, comando e disciplina, ovvero quando la società sia amministrata da un amministratore unico. Le due qualifiche non possono coesistere in quanto, se così non fosse, l’amministratore sarebbe subordinato a se stesso, determinandosi un’ipotesi di auto-assunzione o auto-controllo.

 

In pratica, si ritiene che possano costituire validi elementi di supporto per dimostrare la compatibilità di amministratore/lavoratore subordinato:

  • fare deliberare l’assunzione dal Consiglio di amministrazione, con astensione dell’interessato dalla votazione;

  • specificare nella delibera che l’amministratore viene assunto per esercitare una attività diversa, e comunque estranea, ai suoi compiti di organo della società;

  • in mancanza della subordinazione, connotato indispensabile nel rapporto di lavoro dipendente, in forza del quale un lavoratore è giuridicamente obbligato ad applicare le proprie energie lavorative / professionali nei compiti e con le modalità di volta in volta prescritte dal datore di lavoro, a tal fine titolare di un personale potere di supremazia e di un potere disciplinare ad esso strumentale, risultano irrilevanti e, quindi, di per sé non concludenti, la collaborazione, la continuità dell’attività svolta e la forma della retribuzione;

  • indicare in maniera precisa e dettagliata oltre le mansioni attribuite e il relativo trattamento economico – normativo, anche il superiore gerarchico cui il dirigente è sottoposto nell’espletamento delle sue mansioni, specificando altresì che egli deve sottostare alle direttive che gli verranno impartite nonché al potere di controllo e disciplinare dello stesso.

Diversamente, non essendo compatibile il rapporto di lavoro dipendente con la carica di socio amministratore, sono legittimi i recuperi a tassazione degli stipendi, i contributi sociali I.N.P.S. e gli accantonamenti di quiescenza, in quanto non inerenti, ex art.109 del T.U. n. 917/86.

Infatti, i costi e gli oneri accessori di cui si discute sono deducibili dal reddito d’impresa, solo se correlati con l’attività d’impresa potenzialmente produttiva di redditi tassabili. In materia tributaria un costo è inerente per il solo fatto che ricorre un nesso causale con l’esercizio dell’attività d’impresa, nel senso che tale costo non si sarebbe sostenuto in assenza di quella attività.

Come affermato dalla migliore dottrina1, ” con riferimento alle società va osservato che la qualità di socio amministratore, non unico, di una società per azioni è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima ove – alla stregua di un accertamento riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato – risulti la persistenza della soggezione ad un potere esterno di controllo da parte degli organi sociali istituzionalmente investiti del relativo potere (inconcepibile nel caso di amministratore unico), denotante la presenza del vincolo della subordinazione“.

12 ottobre 2015

Gianfranco Antico

1 Leo – Monacchi – Schiavo, in “Le imposte sui redditi nel Testo Unico “, Giuffrè Editore, ediz.1999, pag.624.