Provvedimenti delle Commissioni Tributarie e principio di prevalenza della sostanza sulla forma: sentenza, ordinanza e decreto

come è noto, i provvedimenti giudiziali adottati nel processo tributario assumono a seconda dei casi la forma della sentenza, della ordinanza e del decreto: un’introduzione ragionata alle casistiche previste per i singoli provvedimenti

 

Le varie forme di provvedimenti giudiziali e la problematica dei differenti mezzi di impugnazione

Come è noto, i provvedimenti giudiziali, adottati nel processo tributario, assumono a seconda dei casi la forma della “sentenza”, della “ordinanza” e del “decreto”.

Il legislatore del processo tributario ha contemplato, per il rito innanzi le commissioni tributarie, forme di provvedimenti che coincidono con quelle del processo civile, per cui il collegio giudicante tributario emette un’ordinanza quando provvede intorno al processo mentre pronuncia con sentenza in tutti i casi in cui definisce il giudizio decidendo la controversia o dichiarando di non poterla decidere ovvero quando esamina e risolve in modo irrevocabile e immodificabile una questione dibattuta fra le parti sul merito della controversia o su presupposti e condizioni processuali.

L’ordinanza viene pronunciata in tutti i casi in cui il collegio giudicante non definisce il giudizio; tale provvedimento necessita generalmente di una motivazione “succinta”, tant’è che si sostiene come l’ordinanza, strumentale e propedeutica rispetto alla decisione finale che non può mai pregiudicare, sia quell’atto che dispone circa il contenuto formale delle attività concesse alle parti, sempre revocabile e modificabile dal giudice che l’ha emessa.

Nel processo tributario, per esempio, il collegio provvede con “ordinanza nei casi di:

sospensione cautelare dell’atto impugnato,

sospensione o interruzione del processo,

assunzione di mezzi di prova,

riunione dei processi.

Il “decreto, invece, è un provvedimento emesso quando non vi è il contraddittorio fra le parti; infatti esso (anche nel processo tributario) è un atto ordinatorio pronunciato inaudita altera parte e vi provvede il Presidente della Commissione o il Presidente della Sezione.

Il Presidente della Commissione, ad esempio, pronuncia decreto quando:

assegna il ricorso ad una Sezione,

riunisce dinanzi ad una medesima sezione ricorsi pendenti dinanzi a sezioni diversi,

fissa l’udienza di trattazione dell’istanza di sospensione.

Il Presidente della Sezione emette decreto quando:

fissa la trattazione della controversia,

nomina il relatore,

dispone la riunione dei ricorsi,

dichiara, con decreto soggetto a reclamo dinanzi al Collegio:

l’inammissibilità manifesta del ricorso,

la sospensione del processo,

l’interruzione del processo,

l’estinzione del processo (art. 27 del D.Lgs. n. 546/1992).

Occorre però sottolineare che assume un effetto rilevante la differenza esistente tra “sentenza” e “ordinanza” con riferimento alle modalità di impugnazione, laddove la prima è impugnabile con i mezzi di impugnazione, ordinari e straordinari, previsti dal legislatore mentre la seconda resta revocabile e modificabile unicamente dal giudice che l’ha emessa.

La parte che, quindi, viene coinvolta da un provvedimento giudiziale sfavorevole ha l’interesse (e l’onere) di valutare con attenzione il mezzo di contestazione di tale provvedimento, tenendo altresì presente che le diverse scelte si correlano a diversi tempi di impugnazione, con la conseguenza che una condotta difensiva erronea può determinare elementi di inammissibilità o formazione di giudicati.

Il principio maggioritario della prevalenza della sostanza sulla forma

Nell’affrontare il vaglio difensivo appena descritto, è opportuno tenere presente che (secondo la giurisprudenza di legittimità) al fine di individuare se, ed attraverso quale mezzo, un determinato provvedimento del giudice sia impugnabile, occorre riferirsi non alla forma che esso ha concretamente assunto, ma a quella di cui avrebbe dovuto essere rivestito secondo la norma processuale. Si tratta, in altre parole, del principio giurisprudenziale che riconosce la prevalenza della sostanza sulla forma (ex plurimis: Cass. Civ. SS.UU., 11 dicembre 2007, n. 25837; Cass. civ., 14 novembre 2007, n. 23495) e la conseguenza della predetta conclusione comporta che le ordinanze (od i decreti) con le quali si risolvono questioni che la legge riserva al provvedimento da assumere con la forma di “sentenza” possono essere censurate, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza civile maggioritaria, mediante i mezzi ordinari e straordinari di impugnazione ed ove pronunciati dal giudice di primo grado, sono appellabili e non ricorribili direttamente per cassazione ex art. 111 Cost..

Inoltre, poi, alla necessaria distinzione tra “ordinanze” e “sentenze”, la stessa Cassazione ritiene che si sia in presenza di una “ordinanza” quando il provvedimento adottato disponga circa il contenuto formale delle attività consentite alle parti e di una “sentenza” quando, viceversa, il giudice, nell’esercizio del suo potere giurisdizionale, si sia pronunciato, in via definitiva o non definitiva, sul merito della controversia e/o su presupposti e condizioni processuali di questa.

Un caso pratico e la soluzione offerta dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione

La tematica del presente scritto può essere meglio spiegata con il riferimento ad uno specifico caso di specie ed alla correlata soluzione, così come rilasciata dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione (sentenza n. 2913 del 7 febbraio 2013).

Nell’occasione, la fattispecie riguardava la proposizione (alla competente C.T.P.) di una istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’atto impositivo impugnato, basata sulla produzione ai sensi della normativa sul condono (L. n. 289 del 2002, art. 15) dei prospetti per la definizione parziale dell’accertamento con riguardo al recupero a tassazione delle componenti di reddito diverse dalla sopravvenienza attiva.

La C.T.P. adìta non valutava la sussistenza dei presupposti (fumus e periculum) necessari per emettere l’ordinanza non impugnabile (di cui all’art. 47 del D.Lgs n. 546/1992) di sospensione dell’atto impositivo ma non definitivamente pronunciando dichiarava, con ordinanza, ammissibile il condono con conseguente estinzione parziale della controversia (e compensazione delle spese) rilevando che la cartella esattoriale, della quale era stata chiesta la sospensione, doveva essere considerata del tutto inesistente perchè il presupposto impositivo era venuto meno in data antecedente.

La lite, così come poi pervenuta all’attenzione del Supremo Collegio, assumeva come aspetto di assoluta centralità il fatto che l’Agenzia delle Entrate in ultima istanza deduceva l’errore commesso dalla C.T.R. nell’avere ritenuto tardivo l’appello proposto proprio dall’ufficio impositore avverso la decisione di primo grado relativa all’operatività del condono L. n. 289 del 2002, ex art. 15.

I motivi di ricorso in cassazione si incentravano sull’asserita erroneità della decisione di grado inferiore:

per avere qualificato sentenza un provvedimento che, invece, recava la intestazione di ordinanza e nel dispositivo la frase “non definitivamente pronunciando”, ed il cui contenuto era richiamato per conferma nella sentenza con cui era stato concluso il giudizio di primo grado;

per avere ritenuto ammissibile nel processo tributario una sentenza parziale espressamente vietata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, c. 3;

per avere ritenuto impugnabile una ordinanza emessa ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 47 a seguito di apposita istanza cautelare benché il comma 4 della norma indicata espressamente preveda che “il collegio sentite le parti e delibato il merito provvede con ordinanza motivata non impugnabile”.

Valutate queste doglianze, il giudice di ultima istanza rappresentava che, a fronte dell’inequivocabile contenuto decisorio del provvedimento a nulla rilevasse né l’intestazione di ordinanza dello stesso né che fosse stato emesso all’esito di istanza cautelare proposta dal contribuente ai sensi del citato art. 47. L’ordinanza resa dalla C.T.P. (avente inequivocabile contenuto decisorio) doveva, secondo la conclusione dei giudici di Piazza Cavour essere ritenuta estranea agli schemi propri del procedimento ex art. 47 D.Lgs n. 546/1992 e del relativo provvedimento conclusivo, con la conseguenza dell’assoggettamento della predetta decisione agli ordinari mezzi di impugnazione.

Inoltre, sempre secondo la conclusione assunta dalla Cassazione, seppure è vero che la norma di cui all’art. 35, c. 3, del D.Lgs n. 546/1992 (eccezionale rispetto all’art. 279 c.p.c.) espressamente prevede che non sono ammesse sentenze non definitive o limitate ad alcune domande (Cass. 30 marzo 2007, n. 7909 e Cass. 31 gennaio 2011, n. 2254), è pur vero che l’asserita nullità per la violazione di detta norma, avrebbe, comunque, dovuto essere rilevata tempestivamente nei confronti del detto provvedimento.

L’indirizzo minoritario

La riconosciuta prevalenza della sostanza sulla forma è talvolta mitigata dal principio c.d. di “apparenza e affidabilità (vedasi Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n. 390) che assicura rilievo alla qualificazione eventualmente data dal giudice con l’ordinanza emessa, a prescindere dalla sua esattezza e che, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione (8 marzo 2012, n. 3672), comporta necessariamente un’indagine sugli atti, al fine di accertare se l’adozione da parte del giudice di merito di quella determinata forma del provvedimento decisorio sia stata o meno il risultato di una consapevole scelta, ancorché non esplicitata con motivazione ‘ad hoc’, nel qual caso decisiva rilevanza va attribuita alle concrete modalità con le quali si è svolto il procedimento.

19 settembre 2015

Antonino Russo