Accertamento da studi di settore: la giurisprudenza aggiornata richiama sempre il contraddittorio, che è determinante

in contenzioso diventa determinante l’esito del contraddittorio, la questione riguarderà la sufficienza o idoneità della prova dei fatti contestati e in particolare il confronto comparativo con le prove contrarie addotte dal ricorrente: le giustificazioni addotte devono essere idonee ad assolvere a tale onere di prova contraria e non di mero principio, generiche, o non specificamente documentate

 

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 13497 del 01.07.2015, ha deciso in ordine ad un ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, che aveva denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 Dpr 600/73 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., censurando la sentenza di secondo grado per aver ritenuto che non sussistessero i presupposti per dar luogo ad accertamento induttivo, da individuarsi nell’esiguità dei ricavi, nonché nella incongruenza ed incoerenza con gli studi di settore ai sensi dell’artt. 62-sexies DL 331/92.

Il motivo secondo la Suprema Corte era fondato.

L’accertamento induttivo del reddito è infatti consentito, anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente inattendibile in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza (Cass. 5870/2003).

 

In particolare, l’accertamento dei maggiori ricavi può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente (Cass. 26388/05), e sull’esistenza di gravi incongruenze tra ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio della specifica attività svolta dagli studi di settore ex artt. 62-bis e sexies DI 331/93.

La Corte ha poi precisato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario, che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello standards, né costituisce una valida prova contraria, laddove, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata (Cass. Ss. Uu. 26635/09).

A tale consolidato indirizzo interpretativo non risultava quindi essersi conformata la sentenza impugnata, che aveva sic et simpliciter escluso l’applicabilità dell’accertamento induttivo in forza del regime di contabilità semplificata del contribuente.

E ciò nonostante le irregolarità rilevate in sede di accesso, quali la mancata indicazione delle rimanenze iniziali e finali e del criterio di valutazione dei beni acquistati e la assoluta esiguità del reddito dichiarato, tale da rendere antieconomica l’attività esercitata.

 

Lo stesso giorno, la Corte di Cassazione, sempre in tema di studi di settore ha del resto emesso anche la sentenza n. 13498, che affronta inoltre il caso di un esercente l’attività di intermediario di commercio, il quale lamentava che, nel caso della specifica attività svolta, le provvigioni (i ricavi) venivano determinati direttamente dalle ditte mandanti (società di capitali), sicchè i ricavi dichiarati non potevano che corrispondere a quelli conteggiati dalle ditte stesse.

Il contribuente sosteneva inoltre che l’Ufficio non aveva individuato i gravi indizi idonei a dimostrare l’incongruenza del ricavato dichiarato rispetto a quello presunto dagli studi di settore.

In primo grado la CTP, in parziale accoglimento del ricorso, riduceva il reddito accertato, evidenziando che, a fronte delle presunzioni scaturenti dall’applicazione dei parametri, il contribuente non aveva fornito alcuna circostanza idonea a superare del tutto i risultati ottenuti.

Le affermazioni del contribuente, tuttavia, secondo i giudici di merito, potevano essere utilizzate per una riduzione equitativa (pari al 40%) del maggior reddito scaturente dall’applicazione dei parametri, sì da ritenere parzialmente giustificato lo scostamento.

Con sentenza 64/6/08 la CTR Piemonte rigettava poi l’appello principale proposto dal contribuente, e, in accoglimento di quello incidentale dell’Agenzia, dichiarava nuovamente la legittimità dell’avviso originario, precisando che, ai fini della quantificazione dei reddito, l’applicazione degli studi di settore e/o dei parametri non costituisce una presunzione iuris et de iure, ma ha comunque come effetto quello di invertire l’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la dimostrazione dell’inadeguatezza di quei risultati rispetto alla concreta situazione del contribuente.

La Cassazione infine, con la sentenza sopra citata, respingeva il ricorso presentato dal contribuente e stabiliva che, per costante e condiviso principio, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati (meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività) ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.

In tale sede, quest’ultimo ha dunque l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards, o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame.

 

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass. Sez. Unite 26635/2009, conf., tra le tante altre successive, Cass 12558/2010 e Cass. 13594/2010).

La su menzionata sentenza 26635 del 2009 ha del resto anche ribadito la legittimità costituzionale, quindi anche con riferimento all’art. 53, delle disposizioni istitutive dell’accertamento con applicazione dei parametri (già riconosciuta dalla Corte Costituzionale), sia in quanto la procedura in questione costituisce un sistema basato su una presunzione semplice, la cui idoneità probatoria è rimessa alla valutazione del giudice di merito, sia in quanto l’astrattezza della elaborazione statistica trova un efficace correttivo nel contraddittorio preventivo con soggetti destinatari dell’accertamento.

Nel caso di specie costituiva quindi circostanza pacifica che il contraddittorio era stato previamente instaurato con il contribuente, il quale, nel corso dello stesso, aveva addotto le sue giustificazioni in ordine al riscontrato scostamento tra quanto dichiarato e quanto risultante dall’applicazione dei parametri; siffatte giustificazioni erano poi state tenute in considerazione dall’Ufficio, che, proprio in relazione alle stesse, aveva ridotto la misura del reddito accertato.

Correttamente, pertanto, la CTR, in linea con il su esposto principio, aveva ritenuto il reddito in questione (accertato sia in base ai parametri, sia tenendo conto del contraddittorio) sorretto da presunzione, ed aveva poi valutato con esito negativo la prova contraria offerta dal contribuente, con giudizio peraltro non censurabile in sede di legittimità.

 

In tema di studi di settore, quindi, a fronte dell’obbligatorietà dell’invito e della sanzione di nullità dell’accertamento in sua assenza, è chiaro che un qualche contrappeso a carico del contribuente che allo stesso invito non risponda ci debba essere.

In tale sede, questi ha infatti il diritto (e l’onere) di provare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards, o la specifica realtà dell’attività economica, potendo così evitare un accertamento che magari poi si riveli infondato.

Anche considerato che la motivazione dell’atto di accertamento, a seguito dell’avvenuto contraddittorio, non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma va integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standards prescelto e le ragioni per le quali sono state disattese le giustificazioni addotte dal contribuente.

In contenzioso, allora, la questione non riguarderà la sufficienza o idoneità della motivazione dell’accertamento e quindi la sua legittimità, ma, semmai, la sufficienza o idoneità della prova dei fatti contestati e in particolare il confronto comparativo con le prove contrarie addotte dal ricorrente.

Quanto al livello di argomentazione che l’Ufficio deve rispettare nel dar conto delle sue valutazioni, come evidenziato anche dalla Corte Suprema con la Sentenza n. 4624 del 22 febbraio 2008, la motivazione dell’atto impositivo deve contenere “una adeguata replica, tale da superare le deduzioni del contribuenti”, laddove la replica dovrà essere più o meno elaborata a seconda delle giustificazioni addotte dal contribuente.

Se è vero infatti che gli studi di settore costituiscono degli strumenti attraverso i quali determinare in via induttiva la capacità contributiva del contribuente e se è vero che, tuttavia, il contribuente è sempre ammesso ad assolvere all’onere probatorio contrario sulla dimostrazione delle circostanze concrete che palesino le ragioni dello scostamento, è anche vero però che le giustificazioni addotte devono essere idonee ad assolvere a tale onere di prova contraria e non di mero principio, generiche, o non specificamente documentate.

Una volta che l’Ufficio, nell’avviso di accertamento, prenda posizione (anche sintetica, ma chiara) sulle ragioni addotte dal contribuente per giustificare lo scostamento dagli studi di settore, il Giudice tributario è quindi tenuto a valutare la persuasività di questa motivazione, valutando i fatti e le circostanze su cui quella motivazione si regge ed essendo onere dell’Ufficio provare in giudizio quei fatti e quelle circostanze che lo hanno indotto a non ritenere sufficienti le giustificazioni avanzate dal contribuente.

 

5 agosto 2015

Giovambattista Palumbo