La deducibilità del compenso all'amministratore: dalla delibera alla congruità del compenso

Sono tanti i casi in cui il Fisco contesta la deducibilità del compenso erogato all’amministratore di società; i problemi tendenzialmente messi sotto la lente in fase di controllo sono: la necessità o meno della delibera del Consiglio di Amministrazione e la sindacabilità o meno della congruità dei compensi erogati, deducibilità del compenso nel Modello Redditi.

compenso agli amministratori della società

Con l’avvicinarsi di Unico 2015, fra le analisi da effettuare, vi è sicuramente la problematica legata ai compensi agli amministratori, sotto tre triplici aspetti: necessità o meno della delibera del Consiglio di Amministrazione; sindacabilità o meno della congruità dei compensi; deducibilità o meno del compenso all’amministratore unico.

Vediamo, quindi, di fornire agli addetti ai lavori le risultanze delle principali sentenze della Corte di Cassazione, che possono essere da guida, nella redazione dei bilanci.

 

DELIBERA

Con la sentenza n. 17673 del 19 luglio 2013 (ud. 13 marzo 2013), la Corte di Cassazione ha negato la deducibilità del compenso agli amministratori, in assenza di delibera dei soci, o di specifica indicazione statutaria, richiamando sempre il pronunciamento emesso a SS.UU. (sentenza n.21933/2008), con i cui i massimi giudici hanno ritenuto necessario necessaria l’esplicita delibera assembleare di determinazione dei compensi, negando che tale delibera possa considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio.

Differenti, infatti, sono le funzioni cui adempiono: le deliberazioni di approvazioni del bilancio mirano a controllare la legittimità di un atto di competenza degli amministratori; le determinazioni dei compensi degli amministratori, invece, determinano o stabiliscono il compenso.

Per le SS.UU.poichè è certo che il bilancio in ogni caso contiene la posta relativa al compenso degli amministratori, a voler ammettere che la delibera di approvazione debba ritenersi come implicita determinazione del compenso, la norma di cui si tratta sarebbe del tutto inutile”. Secondo i massimi giudici fiscali, “anche a voler ipotizzare l’ammissibilità di una ratifica tacita della (auto)determinazione del compenso da parte dell’amministratore, sarebbe necessaria la prova che, approvando il bilancio l’assemblea sia a conoscenza del vizio e abbia manifestato la volontà di far proprio l’atto posto in essere dall’organo privo di potere, non essendo invece sufficiente, in quanto circostanza non univoca, la generica delibera di approvazione”.

Successivamente, con la sentenza n. 5349 del 7 marzo 2014 (ud. del 27 novembre 2013) la Corte di Cassazione ha confermato l’indeducibilità dei compensi agli amministratori, in assenza di delibera. Anche in questo caso, la Corte fa proprio il pensiero espresso a SS.UU. (sentenza n. 21933 del 29/08/2008) secondo cui “con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art.2389 c.c., comma 1, (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003), qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630 c.c., comma 2, abrogato dal D.Lgs. n. 61 del 2002, art. 1); la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art.2364 c.c., nn. 1 e 3); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art .2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393 c.c., comma 2). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori“.

 

E di recente, la Corte di Cassazione, con la sentenza 18 giugno 2014, n. 13844, è ritornata sulla questione. Nella sentenza impugnata si afferma che il compenso dell’amministratore, pur se non preventivamente deliberato, può venire ratificato in sede di approvazione del bilancio. Detta tesi è censurata dal ricorrente “ non invocando il principio di diritto secondo cui qualora la misura del compenso degli amministratori di società di capitali non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio (Cass. s.u. 29 agosto 2008, n. 21933; conformi le pronunce di questa sezione, Cass. 4 settembre 2013, n. 20265; 19 luglio 2013, n. 17673), ma con la diversa affermazione per la quale non è deducibile ai sensi dell’art. 75 TUIR il compenso dell’amministratore se sia carente la delibera assembleare e, mancando la chiara evidenziazione del compenso in una specifica posta del conto economico, se non risulti la ratifica in sede di approvazione del bilancio”. Per la Corte, “ formulata in tal modo la censura, a parte la questione della conformità al principio di diritto sopra richiamato, involge, anche sotto il profilo del denunciato vizio motivazionale, un’inammissibile accertamento di fatto in quanto, per il suo accoglimento, richiede che si accerti se, in fatto, non risultasse la chiara evidenziazione del compenso in una specifica posta del conto economico, che è circostanza il cui accertamento è precluso nella presente sede”.

 

CONGRUITA’

Il dibattito sulla congruità ha preso le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 12813 del 17.5.2000, depositata il 27.09.2000, che ha ritenuto il compenso agli amministratori soggetto alla valutazione di “congruità, in rapporto alle dimensioni dell’impresa, da parte dei funzionari del Fisco. Per i Giudici Supremi, infatti, la riconosciuta deducibilità fiscale “non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall’invalidità di tali atti sotto il profilo civilistico”, in presenza di elementi certi, precisi e concordanti, e non mere presunzioni semplici, tali da permettere all’ufficio “un sindacato di legittimità”. E pertanto, “una volta ritenuta la correttezza dell’esercizio dei poteri valutativi istituzionalmente attribuiti all’ufficio finanziario e l’incensurabile motivazione della sentenza di merito sul punto, resta superfluo il ricorso ad accertamenti (da compiersi incidenter tantum) riservati ad altri giudici, quali quello sulla validità di negozi giuridici”.

 

Successivamente, la stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 13478 del 10.11.2000, depositata il 30.10.2001) ha riconfermato il proprio pensiero: “l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”.

Di diverso avviso, invece, si è posta la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 6599 del 09.05.2002 e confermata dalla sentenza nn. 21155/2005, 28595/2008 e 24597/2010, secondo cui l’attuale legislazione non consente all’Amministrazione finanziaria di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone. Per la Corte, “la mancanza, poi, nel sistema di una clausola generale antielusiva è di ostacolo al riconoscimento, nell’attualità, di un potere dell’Amministrazione a fare questo tipo di valutazione per questi comportamenti (l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 prevede, infatti, ipotesi tassative tra le quali non si può comprendere quella in esame)… né, per superare questi ostacoli, può farsi ricorso al meccanismo dell’interposizione di persona di cui al comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973, poiché nella fattispecie in esame si discute solo di deducibilità o meno per un soggetto di costi (che all’Amministrazione sono apparsi eccessivi), e non di imputazione di reddito ad un soggetto piuttosto che ad un altro (i costi che risultano sostenuti dalla società risultano nella stessa misura reddito per altri soggetti, per cui non vi è una interposizione…; né, per riconoscere il potere di valutazione, può farsi riferimento alla disciplina dell’inerenza … poiché in questa materia (dell’inerenza) a fini impositivi rileva tendenzialmente il profilo della qualità del costo piuttosto che quello della quantità, proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa. Orbene, il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile poter dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese”.

 

Con l’ordinanza n. 3243 dell’11 febbraio 2013 (ud. 10 gennaio 2013) la Corte di Cassazione ritorna sulla propria posizione: Questa Corte ha affermato (Sez. 5, Sentenza n. 9497 del 11/04/2008), che rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti…; e che, poichè rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimiEd invero dall’eliminazione (in sede di redazione del Tuir) del riferimento del limite delle ‘misure correnti per gli amministratori non soci’ consegue solo la liberalizzazione del concetto di spettanza ai fini della deducibilità. Il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili, non confligge con i suesposti principi generali”. D’altro canto, prosegue la sentenza, è inopponibile all’Amministrazione finanziaria il risultato elusivo ottenuto dall’impresa nel “conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr. Cass. Sez. 5 20/7/2012 n. 12622; Cass. SU 2.1.12.2008 n. 30055)”. Talchè viene riaffermato che la deducibilità dei compensi degli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (conf. Sez. 5, Sentenza n. 13478 del 30/10/2001; Cass. 27 settembre 2000 n. 12813), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.

 

Da ultimo, con l’ordinanza n.9036 del 15 aprile 2013 la Corte di Cassazione ha confermato l’indeducibilità dei compensi elevati dati agli amministratori. “Questa Corte ha affermato (Sez. 5, sentenza n. 9497 del 11/04/2008), che rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti. Ha altresì ripetutamente ritenuto (di recente, Sez. 5, sentenza n. 4554 del 25/02/2010; Sez. 5, sentenza n. 26480 del 30/12/2010), che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, incombe al contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del d.P.R. n. 597 del 1973 e del d.P.R. n. 598 del 1973, che del d.P.R. n. 917 del 1986; e che, poiché rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi”. Per la Corte, tali principi non risultano incompatibili con la formulazione dell’art. 95, vigente pro tempore, secondo cui “I compensi spettanti agli amministratori delle società ed enti di cui all’articolo 72, comma 1, sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti”. Ed invero, il mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti, che pongano limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili, non confligge con il suesposto principio generale; “ di talché va in questa sede riaffermato che la deducibilità ai sensi dell’articolo 62 del DPR n. 917 del 1986 dei compensi degli amministratori non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (conf. Sez. 5, sentenza n. 1348 del 30/10/2001; Cass. 27 settembre 2000 n. 12813), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.

Rileviamo, per completezza, che sul punto, le Entrate, con la R.M. n. 113/E del 31 dicembre 2012, hanno affermato che “resta fermo che, in sede di attività di controllo, l’amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei componenti negativi di cui si tratta in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”.

 

IL COMPENSO DELL’AMMINISTRATORE UNICO

La problematica relativa all’indeducibilità o meno del compenso dell’amministratore unico è da diversi anni alla ribalta.

Già la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24188, depositata il 13 novembre 2006, ha affermato che “la riconosciuta equiparazione, sotto il profilo giuridico, tra l’attività gestoria svolta dall’amministratore unico di società e quella svolta dall’imprenditore comporta, pertanto, che a norma dell’art.62 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il quale prevede la deducibilità per spese di lavoro dipendente e per compensi agli amministratori, escludendo espressamente la deducibilità del compenso per l’opera prestata o per il lavoro svolto dall’imprenditore, deve ritenersi non ammessa in deduzione la spesa per compenso di lavoro prestato e dell’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali considerato che l’attività svolta a tale titolo rientra in quella svolta dall’imprenditore”.

Con l’ordinanza n. 25572 del 14 novembre 2013 (ud. 23 ottobre 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che, “in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione di quello d’impresa, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62, il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali. Infatti la posizione di quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 24188 del 13/11/2006, n. 21155 del 2005)”.

 

23 luglio 2015

Gianfranco Antico