Indisponibilità della obbligazione tributaria e pericolo di commissione del reato di autoriclaggio

negli ultimi tempi si parla molto di rafforzamento degli istituti deflativi del contenzioso (in particolare voluntary disclosure e conciliazione giudiziale), l’utilizzo di tali istituti tuttavia pone dei dubbi sui riflessi penali del reato di autoriciclaggio che possono emergere in fase di contraddittorio fra Fisco e contribuente: il consulente deve prestare estrema attezione!

 

Negli ultimi tempi si parla molto di rafforzamento degli istituti deflativi del contenzioso, visti come un efficace strumento di riduzione delle liti e di veloce incasso degli introiti.

Sia la procedura di voluntary disclosure che il rafforzamento dell’istituto della conciliazione nell’appena licenziato decreto delegato sul contenzioso confermano l’importanza che si ripone in tali procedure.

Come recentemente argomentato in un interessante quanto acuto articolo del Prof. Maurizio Leo, dal titolo inquietante “Sui patti con il Fisco resta l’ombra dell’autoriciclaggio”, la recente normativa sull’autoriciclaggio, tuttavia, rischia di aprire un fronte inaspettato e un vulnus alla effettiva operatività di tali istituti.

Sulla base della disciplina in tema di autoriciclaggio, infatti, anche il contribuente che sottoscriva un atto di adesione o conciliazione e che utilizzi poi la differenza rispetto all’accertato per fini non meramente personali, ma utilizzando appunto quel denaro “risparmiato” grazie all’adesione o conciliazione per investimenti, potrebbe rispondere del reato ex art. 648 ter.1 del Codice Penale.

 

Il tutto sta in effetti a chiarire una questione mai in realtà approfonditamente affrontata e cioè quale sia l’effettivo rapporto di tali istituti deflativi con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria costituzionalmente sancito.

Se infatti l’accordo con il Fisco comporta una sostituzione, con effetti ex tunc, di quella obbligazione tributaria, allora è chiaro che la differenza non pagata non può essere considerata frutto del reato e dunque che non ci possa essere alcuna fattispecie di autoriciclaggio.

Se invece tale accordo è motivato (e giustificato) da altra ratio (per esempio valutazione di opportunità in termini di incasso veloce e sicuro) allora il rischio potrebbe permanere.

E non da ultimo, se fosse vera quest’ultima ipotesi, si dovrebbe anche comprendere se vi possono essere eventuali profili di responsabilità erariale e se sì come possono essere valutati.

In effetti la procedura di adesione o conciliazione non è certo uno “sconto”, ma una transazione (legittimata dalla legge) tesa a deflazionare il contenzioso.

Tali procedure non comportano però neppure una rideterminazione dell’effettiva, originaria, pretesa, dato che se l’Amministrazione volesse rideterminare la pretesa, in quanto sbagliata, lo strumento sarebbe un altro (e senza sanzioni, seppur ridotte) e cioè l’autotutela.

 

Quindi a ben vedere la prima ipotesi della rideterminazione dell’obbligazione con effetti ex tunc, valida nel caso dell’autotutela, non regge nel caso degli istituti deflativi, con dunque il rischio effettivo dell’autoriciclaggio.

Va considerato inoltre che alcune sentenze della Suprema Corte, nel definire la natura dell’accertamento con adesione e della conciliazione, ne richiamano la natura negoziale.

Con la sentenza 12314/2001, per esempio, i giudici di legittimità hanno espressamente riconosciuto nella conciliazione giudiziale una “forma di composizione convenzionale della lite tributaria nella sede del processo” operante “in deroga al principio più generale della normale indisponibilità per l’erario del credito d’imposta“.

Anche successivi interventi giurisprudenziali hanno confermato tale impostazione.

Con la sentenza 21325/2006, per esempio, la Cassazione, ha affermato che “la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 attiene all’esercizio di poteri dispositivi delle parti“, essendo “concepita come una forma di composizione convenzionale della lite nella sede del processo” e “pur nella sua indubbia specificità, costituisce un istituto deflativo di tipo negoziale“.

La fase dell’accertamento con adesione comporta dunque una (eccezionale) possibilità di accordo sul quantum da pagare, in particolare in vista del rischio del contenzioso e dell’anticipazione della riscossione del credito vantato (o comunque di una sua parte).

Ma che l’effettiva obbligazione tributaria effettiva sia e resti quella originaria è dimostrato dal fatto che la stessa Cassazione parla di deroga al principio della indisponibilità e dal fatto che può anche succedere che l’Ufficio faccia una proposta di adesione o conciliazione e questa però poi non venga accettata dal contribuente.

In questo caso però, una volta che il contenzioso prosegue, essendo decaduta la finalità deflativa del contenzioso stesso, non è che l’Ufficio continua solo per la pretesa oggetto di proposta (come sarebbe stato se quella fosse stata l’obbligazione correttamente dovuta), ma la pretesa tributaria “torna” quella originaria, come appunto esplicata nell’atto di accertamento.

Il che è un’altra conferma della effettività dell’obbligazione tributaria.

 

E dunque ancora conferma del pericolo di autoriciclaggio per la parte non pagata a seguito del raggiunto accordo di adesione o conciliazione.

Istituti per i quali, del resto, non sussiste un’esclusione espressa del reato di autoriciclaggio, come invece esiste per la voluntary disclosure (a conferma ancora che se l’esclusione non ci fosse. Non esiste un’esclusione generalizzata per i casi di sanatoria e/o accordo ex post).

Quanto poi alla natura derogatoria rispetto al principio di indisponibilità di tali istituti si rappresenta quanto segue.

L’art. 13 del R.D. 23 dicembre 1923 n. 3269 vietava al Ministero delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti ed a qualsiasi altra autorità pubblica sia di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovratasse stabilite da questa legge” che “di sospendere dalla riscossione senza divenire personalmente responsabili” e l’art. 49 del Regolamento di Contabilità dello Stato prevede che “nei contratti con lo Stato non si può convenire alcuna esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca della loro stipulazione”.

L’art. 23 della Costituzione esclude del resto che gli organi dell’Amministrazione finanziaria possano (disporre del potere di) determinare la misura del tributo, essendo in ogni caso l’agire amministrativo, volto alla definizione del prelievo, vincolato dalla legge.

Ed anche l’art. 53 Cost., che sancisce l’inderogabile dovere di tutti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva sembrerebbe escludere la disponibilità del credito tributario, pena il superamento del citato dovere costituzionale.

Nè istituti introdotti dal legislatore ordinario, come appunto l’adesione e la conciliazione, potrebbero derogare il dettato costituzionale.

Va dunque trovata una linea di sintesi che giustifichi l’operatività di tali istituti con l’indisponibilità di cui alla norma costituzionale e tale linea potrebbe essere trovata in una sorta di bilanciamento del principio di indisponibilità con quello dell’efficienza della pubblica amministrazione e dell’effettività della pretesa fiscale.

Come risulta però dalla giurisprudenza costituzionale in tema di condono, se il bilanciamento degli interessi coinvolti può giustificare una eccezionale deroga al principio di indisponibilità, è tuttavia necessario che siffatto bilanciamento sia rigoroso e non meramente formalistico escludendosi comunque che la disposizione del credito tributario venga lasciata alla assoluta discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria.

La chiave di volta che consente una deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è dunque la motivazione dell’atto di adesione o conciliazione e la possibilità che tale valutazione possa essere soggetta a sindacato giurisdizionale.

Una sentenza della Corte dei Conti (Sez. Giurisdizionale della Corte dei Conti del Lazio, n. 5/2007), intervenendo proprio sulla materia, ha del resto condannato un direttore e un funzionario di un ufficio dell’Agenzia delle Entrate per danno erariale, causato dalla illegittima archiviazione, nell’ambito di un procedimento di adesione, di un rilievo fiscale.

Tale ultima pronuncia si poneva sul solco di altre precedenti decisioni della medesima Corte che sembravano andare tutte nella stessa direzione: l’istituto dell’accertamento con adesione non presuppone un’attività discrezionale assoluta da parte dei funzionari degli Uffici.

I giudici della Corte hanno dunque analizzato la ratio dell’istituto dell’accertamento con adesione, confermando che questa sarebbe esclusivamente quella di definire, in contraddittorio con il contribuente, le pretese tributarie, anticipandone la riscossione (pur con l’evidente vantaggio della riduzione delle sanzioni) ed evitando il contenzioso.

Questo però, ad avviso dei medesimi giudici, non vuol dire che bisogna chiudere a tutti i costi il relativo procedimento, poiché “gli uffici non hanno la disponibilità della pretesa tributaria, ma devono operare tenendo conto degli eventi fattuali e contabili concreti che emergono dalle singole situazioni”.

Eventi fattuali e contabili di cui dunque la motivazione dell’accordo deve dare conto, evidenziando le conseguenze giuridiche che a tali eventi la legge ricollega.

L’azione amministrativa dei funzionari dell’Agenzia è dunque senz’altro caratterizzata da discrezionalità tecnica “pura”, laddove la fase discrezionale si esaurisce nel momento del giudizio, mentre la scelta della misura migliore per l’interesse pubblico è posta in essere direttamente dalla legge. Solo così la deroga al principio costituzionale diventa possibile.

 

Pertanto, in caso di discrezionalità tecnica, vi dovrebbe essere una possibilità di verifica diretta da parte del giudice in ordine alla attendibilità delle operazioni tecniche effettuate (sindacato intrinseco), in particolare per quanto riguarda la motivazione data agli atti di competenza dell’Ufficio.

Non c’è dubbio infatti che la motivazione degli atti è il primo parametro che consente, in concreto, l’accertamento del danno erariale da parte della procura contabile, non tanto e non solo come sindacato sulla discrezionalità tecnica del funzionario, ma come vera e propria violazione contra legem, in particolare ai sensi dell’art. 3 della L. 241/90 in tema di obbligo di motivazione degli atti amministrativi (compresi quelli tributari), compreso il caso della non idonea motivazione, laddove il giudice contabile potrà valutare se la condotta adottata è comunque non conveniente o irrazionale alla luce dei parametri desunti dalla comune esperienza amministrativa.

Questo accertamento sulla motivazione degli atti di adesione e conciliazione però in realtà da qualche anno non esiste più per l’Amministrazione Finanziaria, il che può evidentemente comportare un vulnus nella legittimità della deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

I funzionari dell’Agenzia delle Entrate che provvedono alla conclusione dell’adesione, della mediazione o della conciliazione godono infatti, per legge, di una responsabilità limitata, in sede di giurisdizione dalla Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica, ai fatti ed omissioni commessi con dolo.

L’art. 39, comma 10, del DL n. 98 del 2011 dispone in particolare che “Ai rappresentanti dell’ente che concludono la mediazione o accolgono il reclamo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”.

Nella specie, il citato art. 29, comma 7, secondo periodo, del DL n. 78 del 2010 prevede che “Con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate ai fini della definizione del contesto mediante gli istituti previsti dall’articolo 182-ter del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, e dall’articolo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, la responsabilità di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata alle ipotesi di dolo”.

Se la norma certo consente ai funzionari di non temere di concludere accordi deflativi, incrementando così le possibilità di incasso, impedisce però così quel filtro di controllo sulla motivazione dell’accordo, che, come detto, solo potrebbe consentire una deroga al citato principio di indisponibilità tributaria.

Tale circostanza inoltre, alla luce di quanto sopra evidenziato in tema di possibile soggezione del contribuente a contestazioni di autoriciclaggio, potrebbe addirittura aprire la strada a contestazioni di concorso nel reato del funzionario che ha sottoscritto l’accordo, anche considerato che già la disciplina ordinaria in realtà tutela il funzionario pubblico laddove l’art. 23 del DPR 3/57 sostiene che è danno ingiusto solo quello cagionato da dolo o colpa grave (consistente nella sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio).

Il richiamo al requisito della colpa grave tende dunque già a rendere meno invasivo il profilo della responsabilità del dipendente pubblico rispetto alla responsabilità comune disciplinata dall’art. 2043 Cod. civ. (il semplice requisito della colpa); diversità di disciplina che ha comunque resistito a sospetti e censure d’incostituzionalità.

E del resto neppure tale previsione normativa dovrebbe in realtà essere sufficiente ad esonerare il dipendente da responsabilità erariale, se è vero che a tale riguardo la Corte dei Conti ha ripetutamente affermato il principio secondo cui neppure una specifica disposizione legislativa liberatoria (come ad esempio l’art. 66, comma 8, del D.Lgs n. 165/2001 sulle conciliazioni nel contenzioso giuslavoristico) vale ad esonerare dalla responsabilità erariale il funzionario che, nella gestione della controversia, abbia posto in essere atti dannosi connotati da colpa grave (oltre che ovviamente, da dolo), rinvenibile in comportamenti palesemente arbitrari o irrazionali, ovvero in macroscopiche lacune culturali e professionali.

 

E dunque mentre non danno adito a responsabilità penale gli errori materiali o concettuali, per ipotizzare il concorso è sufficiente e necessaria la consapevolezza di aver dato un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del reato (nel caso di specie, per quanto sopra detto, individuabile in un riutilizzo delle somme evase, e in parte non pagate all’Amministrazione grazie all’accordo transattivo, per fini di investimento), anche magari “solo” a causa della “sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio”, ovvero “per macroscopiche lacune culturali e professionali”.

Siamo sicuri allora, a prescindere da eventuali profili di responsabilità erariale, che la coscienza e volontà di diminuire, seppur in sede deflativa, l’originaria ed effettiva obbligazione tributaria, non possa comportare rischi penali per tutte le parti dell’accordo, che, grazie allo stesso accordo, hanno di fatto consentito il riutilizzo delle somme già oggetto dell’originario accertamento?

7 luglio 2015

Giovambattista Palumbo