Responsabilità dell'ex amministratore per irregolare tenuta della contabilità dell'impresa

In caso di azione di responsabilità del curatore contro l’ex amministratore della società fallita, come si valuta il danno patrimoniale che deriva dall’omessa od irregolare tenuta della contabilità dell’impresa?

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza del 6 maggio 2015 n. 9100 ha fissato il seguente principio di diritto:

“Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma secondo, legge fallim., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, che integra solo un parametro per una liquidazione equitativa, ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso a tale criterio sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, che l’attore abbia indicato le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore”.

 

Responsabilità dell’ex-amministratore della società – IN FATTO

sentenze tributarieNel maggio del 2001 il curatore del fallimento della Società X citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli l’amministratore unico, Sig. Y, chiedendo la condanna dello stesso al risarcimento dei danni perché aveva consentito la distrazione di beni custoditi in locali della società, non aveva tenuto i libri sociali, nonchè non aveva predisposto i bilanci relativi agli esercizi 1994 e 1995 né presentato le relative dichiarazioni fiscali.

Il Tribunale accolse la domanda del curatore fallimentare e condannò il convenuto al risarcimento dei danni, liquidandoli in euro 96.593,04, pari alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato nell’ambito della procedura concorsuale.

L’amministratore unico impugnò la pronuncia di prime cure dinanzi alla Corte d’Appello di Napoli, che tuttavia rigettò il gravame perché era stato accertato l’inadempimento dei doveri inerenti alla carica amministrativa ricoperta dall’appellante ed era corretta la liquidazione del danno operata dal Tribunale, stante l’impossibilità di ricostruire l’effettiva situazione patrimoniale della società fallita a causa della mancanza delle scritture contabili, imputabile allo stesso amministratore.

L’amministratore unico, soccombente anche nel secondo grado del giudizio, ricorse per Cassazione lamentando:

  1. la violazione di norme di diritto sostanziale, in quanto il curatore non aveva fornito la prova del danno cagionato alla società fallita;

  2. i vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, non essendo stato chiarito quale fosse il nesso esistente tra la violazione dell’amministratore ed il pregiudizio che ne sarebbe derivato per il patrimonio sociale;

  3. la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la Corte di Appello non aveva dato risposta alle censure che l’appellante aveva mosso alla sentenza di primo grado.

La prima sezione della Suprema Corte, avendo rilevato un disallineamento nella giurisprudenza in merito alla questione se, nei giudizi di responsabilità promossi da una curatela fallimentare nei confronti di amministratori di società di capitali fallite, sia o meno corretto liquidare il danno utilizzando il criterio della differenza tra l’attivo ed il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale, quando la mancanza di scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore, impedisca di ricostruire quale è stato l’effettivo andamento dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, rimise la questione al Primo Presidente.

 

Responsabilità dell’ex-amministratore della società – IN DIRITTO

sentenza corte di cassazioneLa questione di diritto riguarda l’individuazione del danno risarcibile ed il relativo criterio di liquidazione nelle azioni di responsabilità promosse dagli organi delle procedure concorsuali nei confronti di amministratori di società di capitali dichiarate insolventi, che hanno tenuto un comportamento contrario ai doveri loro imposti dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto sociale.

L’art. 146 L.F. rubricato “Amministratori, direttori generali, componenti degli organi di controllo, liquidatori e soci di società a responsabilità limitata”, così come sostituito dall’art. 130 del D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, attribuisce al curatore fallimentare il compito di esperire:

  • le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori;
  • l’azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall’articolo 2476, comma settimo, del codice civile.

Nel gioco degli equilibri tra i poteri degli organi della procedura concorsuale il legislatore fallimentare ha limitato l’esercizio di tali azioni da parte del curatore, subordinandolo alla previa autorizzazione del giudice delegato e al parere del comitato dei creditori.

Quindi se attentamente analizzato l’art. 146 L.F. attribuisce al curatore del fallimento il compito di esercitare cumulativamente due azioni di responsabilità già disciplinate nel diritto societario:

  • l’azione sociale di responsabilità, esperibile dalla società in bonis nei confronti del proprio amministratore ai sensi dell’art. 2393 c.c.,

  • l’azione di responsabilità, esperibile dai creditori sociali danneggiati dall’incapienza del patrimonio della società debitrice ai sensi del successivo art. 2394 c.c..

La possibilità che il danno risarcibile venga identificato nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare è stata affermata, per la prima volta, dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1282. del 1977. Di poi la giurisprudenza ha costantemente utilizzato tale criterio differenziale (vedesi: Cass. n. 2671 del 1977, Cass. n. 6493 del 1985).

Tuttavia sul finire degli anni novanta è emersa l’inadeguatezza di tale metodo a correttamente considerare il rapporto di causalità che deve sussistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il danno risarcibile. È intervenuta quindi la Suprema Corte con la sentenza n. 9252 del 1997 affermando che

“… il danno che gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire … non s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società”.

E con la successiva sentenza n. 10488 del 1998 la Cassazione ha chiarito che

“… il danno non deve essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate”.

Quest’ultimo orientamento è stato poi confermato anche con la sentenza. n. 1375 del 2000, la quale ha precisato che

“… il danno può essere identificato nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare, ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società”.

Sostanzialmente nella stessa linea si sono collocate le successive pronunce (vedesi: Cass. n. 16211 del 2007, Cass. n. 17033 del 2008 e Cass. n. 16050 del 2009).

Tale quadro giurisprudenziale è stato nuovamente messo in discussione nel 2011, con le note sentenze n. 5876 e n. 7606, le quali, pur muovendo dal presupposto che nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità.

Oltretutto in questo caso la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, cominciano la puntuale analisi della questione di diritto precisando che i doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società sono assai variegati, quindi anche le conseguenze dannose, sia per la società che per i suoi creditori, che possano scaturire dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in rapporto di causalità con le violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore.

Come affermato dalla Massima Corte, in svariate pronuncie, il creditore che agisce in giudizio, per l’adempimento sia di un’obbligazione di mezzi che di un’obbligazione di risultato e per il risarcimento del relativo danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, allegando l’inadempimento della controparte, su quest’ultima incombe, poi, l’onere di dimostrare l’adempimento. Oltretutto “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno”, sicché

“l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno(Cass., S. U., n. 577 del 2008)”.

Quali sono gli inadempimenti qualificatiattribuibili all’amministratore di società e che il curatore/attore deve aver allegato alla sua domanda risarcitoria perché astrattamente efficienti a produrre un danno pari all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell’ambito della procedura concorsuale?

La risposta può rinvenirsi analizzando gli inadempimenti riconducibili all’ex amministratore nel caso in esame:

  • la distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, che certamente si riflette in senso negativo sul patrimonio della società. La perdita subita dalla società sarà pari al valore di quei beni o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare, non potendo quindi quantificarla come differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare;

  • la mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi, che fa gravare sul bilancio della società gli interessi e le sanzioni e non è certo la causa dell’intero dissesto patrimoniale;

  • l’omessa tenuta della contabilità sociale, i cui effetti nefasti devono essere quantificati sia in termini di danno emergente che di lucro cessante a carico del patrimonio sociale.

È vero che l’omessa tenuta della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, e tale violazione risulta di per sé potenzialmente idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale, va però precisato che la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina, infatti sono gli accadimenti che determinano un eventuale deficit patrimoniale, non certo la loro mancata o scorretta registrazione in contabilità.

È vero che il mancato rinvenimento delle scritture contabili o la loro irregolare tenuta non consente al curatore del fallimento:

  • di ricostruire attendibilmente le vicende che hanno condotto all’insolvenza dell’impresa,

  • di provare con sufficiente precisione il danno sofferto dal patrimonio della società.

Ciò però non può indurre il Giudice a quantificare il danno provocato dalla violazioni di tali obblighi come differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare, in linea con le pronunce della Suprema Corte del 2011, sopra richiamate. Ne tantomeno spostare l’onere della prova a carico dell’amministratore convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolverlo.

Quindi se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il curatore una quantificazione ed una prova del danno riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione dello stesso in via equitativa. Il Magistrato nel decidere il quantum potrà tenere da conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società registrato nell’ambito della procedura concorsuale, indicando:

  • le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto,

  • la plausibilità logica del ricorso a detto criterio.

Cassando con rinvio, la Suprema Corte ha formulato il seguente principio di diritto:

“Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.

Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

 

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11 luglio 2015

Anna Maria Pia Chionna