La corretta motivazione della sentenza secondo la Cassazione (molto utile per i ricorsi, n.d.r.)

segnaliamo le ultime valutazioni della Cassazione in tema di motivazione per relationem, in particolare quando si appalesa il caso in cui la motivazione scritta dal giudice è da considerare carente

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 6741 depositata il 2 aprile 2015, ha respinto il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, affermando che era chiaro e condivisibile il passaggio motivazionale valorizzato dalla commissione regionale, ove si legge: “Quanto alla carenza di motivazione lamentata dalla parte ricorrente, il collegio ritiene legittima la doglianza“. A tale conclusione i giudici di merito giungevano del resto attraverso:

– una prima enunciazione dove affermavano che “in caso di accertamento per relationem, è l’ufficio che deve produrre anche il p.v.c. dal quale ha desunto gli elementi di rettifica“;

– una seconda enunciazione dove affermavano che “comunque è obbligo dell’ufficio, almeno in sede di contenzioso, produrre il p.v. da cui l’accertamento deriva, per consentire al giudice di avere la motivazione completa dell’atto notificato, mentre nessun obbligo incombe al ricorrente che deve, secondo le disposizioni dell’art. 18, comma 2 – lett. d), del D.Lgs. n. 546/1992, produrre solo l’atto impugnato“.

 

Nella specie, infatti, oltre ai profili d’insussistenza della pretesa tributaria addotti nel merito, lo stesso contribuente, sin dal ricorso introduttivo aveva denunciato il deficit formale dell’atto fiscale per carenza di motivazione ravvisata nella mancata allegazione e/o produzione del p.v.c. da parte dall’amministrazione.

Ed anche sotto il profilo meramente processuale, entrambi i profili erano stati accolti dal primo giudice ed entrambi dovevano dunque essere impugnati con l’atto di appello.

Non essendo però questo avvenuto, come aveva correttamente rilevato la commissione regionale, tale circostanza (la mancata allegazione del Pvc richiamato per relationem e dunque il difetto di motivazione), secondo i giudici di legittimità era anche ormai coperta da giudicato.

Essendo del resto “evidente la sconnessione logica e giuridica del ricorso erariale dove sostiene che i rilievi compiuti dalla commissione regionale non sarebbero suscettibili di passare in cosa giudicata, perché sostanzialmente giuridicamente inutili”.

Infatti, conclude la Suprema Corte, “il giudicato si è formato sul bene della vita controverso, cioè l’illegittimità dell’atto fiscale impugnato, e ciò avvenuto anche sotto il profilo del deficit formale dell’agire del fisco, come sempre accade quando – nel processo civile, amministrativo e tributario – viene in rilievo l’agire giuridico della pubblica amministrazione”.

 

Quindi, se è vero che l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti (come anche il PVC), questi ultimi devono essere allegati all’atto notificato, ovvero lo stesso atto ne deve riprodurre il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti che formano gli elementi della motivazione del provvedimento.

Nel caso di specie, peraltro, non avendo l’Amministrazione prodotto il Pvc in sede processuale, neppure in tale sede (e dunque sotto l’aspetto meramente probatorio) tale riscontro era stato possibile.

Il requisito motivazionale dell’accertamento, ex art. 42 D.P.R. 600/1973, esige dunque oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, anche l’indicazione dei fatti giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando poi affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva.

In linea dunque con un orientamento più “rigido” e a dire il vero più risalente della Cassazione, in base alla sentenza in commento, è censurabile l’avviso di accertamento privo di allegati, costituenti la motivazione dell’atto (vedi Cass. 15234/2001).

Se così non fosse l’atto sarebbe inidoneo a dar conto dei presupposti di fatto e diritto posti a suo fondamento, come è richiesto dal citato art. 42, d.P.R.600/73.

Né, secondo l’orientamento in commento, varrebbe osservare, in contrario, che l’art. 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo riconosce la legittimità della motivazione per relationem, anche nei casi in cui il documento richiamato sia indicato e reso disponibile per l’interessato, dato che, come dimostra la sentenza in commento, alla astratta conoscibilità, deve poi corrispondere in giudizio anche la concreta prova, con appunto produzione del Pvc a favore dell’organo giudicante.

Evidentemente peraltro (ma dalla sentenza non si evince) l’atto richiamato non era esposto nella motivazione neppure in termini “essenziali”, laddove un filone giurisprudenziale, allo stato dominante, ammette come sufficiente ai fini motivazionali la riproduzione in sintesi del contenuto essenziale – e non l’allegazione – dei documenti richiamati nella motivazione dell’atto impositivo.

In questo senso, la Cassazione detta coordinate precise affinchè possa dirsi legittima o meno la motivazione di un atto, riferendosi a cosa si intenda per “contenuto essenziale”.

Ed è in tal senso dunque sufficiente, a legittimare la motivazione dell’accertamento, il richiamo, anche in sintesi, a quegli elementi indispensabili affinchè il contribuente accertato possa comprendere pienamente le ragioni della pretesa impositiva (e il giudice valutarle).

Certo, laddove il Pvc sia stato notificato al contribuente, si potrebbe comunque sostenere la legittimità dell’accertamento che richiami il Pvc, che, anche se non allegato all’accertamento, o magari neppure richiamato in sintesi, non potrebbe quindi essere considerato sconosciuto allo stesso contribuente.

Ma tale “conoscenza” non varrebbe comunque in sede processuale, non avendone il giudice cognizione e non potendo dunque a quel punto valutare la idoneità della motivazione.

 

In tali casi siamo in ogni caso al confine tra accoglimento del ricorso per illegittimità della motivazione e accoglimento dello stesso per inidoneità della prova del merito della pretesa.

A ben vedere, infatti, in sede di accertamento non deve essere fornita la prova della pretesa fiscale, ma semplicemente la motivazione della medesima pretesa.

L’insufficienza probatoria non deve essere allora confusa con la validità della motivazione.

In sede di accertamento, vista la funzione dell’avviso di mera provocatio ad opponendum, è sufficiente infatti che tale motivazione sia adeguata.

La prova, invece, può (e deve) essere fornita in sede processuale.

Nella sede cioè in cui la prova svolge la propria funzione: “convincere” il giudice.

Il giudice di secondo grado, quindi, nel caso di specie, al di là della questione del giudicato, non doveva tanto valutare se vi fosse o meno una legittima motivazione per relationem, ma piuttosto se il fatto che non fossero stati prodotti i processi verbali di constatazione già richiamati dal medesimo PVC, da cui scaturiva l’accertamento, potesse comportare una limitazione probatoria talmente grave da inficiare la sostenibilità in giudizio della correttezza dell’atto impositivo (eccezione attinente quindi alla prova della pretesa e non alla sua legittimità).

Una tale mancanza poteva dunque avere riflessi in ordine alla forza probatoria relativa alle contestazioni sollevate dall’Ufficio, che, mancando alcuni elementi, poteva anche essere ritenuta insufficiente.

Partendo dall’assunto dell’esistenza di una motivazione per relationem, il giudice non parla però, di fatto, di prova insufficiente, ma di prova inesistente, facendone derivare così, in sostanza, l’illegittimità dell’avviso.

In pratica l’insufficienza probatoria viene legata alla validità della motivazione, ritenendo che tale insufficienza sia talmente grave da comportare l’inesistenza di una qualsiasi prova e quindi finanche l’inadeguatezza della motivazione sottesa all’accertamento.

Tale conclusione, indubbiamente sottile, ad avviso di chi scrive, deve però essere attentamente considerata, almeno laddove costituisca una mera affermazione di principio, non potendo essere ammissibile un’equiparazione automatica tra mancanza di prova e difetto di motivazione e dovendo il giudice di merito comunque prendere una chiara posizione in ordine alla prevalenza (e al perché di tale giudizio) della ricostruzione del contribuente o dell’Ufficio.

4 giugno 2015

Giovambattista Palumbo