Spese pubblicitarie sostenute in zone in cui il marchio non è pubblicizzato o in aree in cui non è esercitata attività

Le spese pubblicitarie sostenute da una società sono chiaramente deducibili, in quanto inerenti, se può essere stabilito un collegamento tra esse e l’attività dell’impresa, tuttavia in alcuni casi il Fisco contesta la mancata inerenza della spese sostenute, soprattutto se indirizzate in zone geografiche dove il contribuente non opera.

Deducibilità delle spese pubblicitarie 

Le spese pubblicitarie sostenute da una società sono chiaramente deducibili, in quanto inerenti, se può essere stabilito un collegamento tra esse e l’attività dell’impresa.

A tale riguardo occorrerebbe intendere cosa sia oggi la pubblicità, come possa manifestarsi sui vari mezzi di comunicazione e diffusione di contenuti scritti, visivi e multimediali, e se sia possibile un collegamento territoriale tra i luoghi di esercizio dell’attività e il sostenimento delle spese pubblicitarie.

Su questo tema è intervenuta la Corte di Cassazione [sentenza 25.2.2015, n. 3770], affermando la deducibilità delle spese pubblicitarie di una società anche se sostenute in zone nelle quali il marchio non è pubblicizzato, ovvero in aree geografiche nelle quali l’impresa non esercita attività.

Nel caso esaminato dalla Corte, una catena di supermercati aveva presentato ricorso per il riconoscimento della deducibilità delle spese pubblicitarie sostenute in territori nei quali non era presente con propri punti vendita, riprese a tassazione dall’Agenzia delle Entrate per difetto del requisito di inerenza.

La decisione favorevole muove dalla considerazione che, in presenza di un mercato globale e di una produzione industriale di massa, il messaggio pubblicitario ha assunto una funzione di sensibilizzazione preventiva dell’interesse dei consumatori verso beni e servizi, senza che occorra un legame territoriale tra l’offerta pubblicitaria e l’area geografica nella quale l’impresa svolge l’attività.

 

 

Costi della pubblicità d’impresa – Aspetti generali

Nel TUIR, i costi relativi alla pubblicità dell’impresa trovano puntuale disciplina nell’articolo 108, secondo comma, primo periodo, che classificandoli tra le spese relative a più esercizi così dispone:

«le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi».

Precedentemente alle innovazioni apportate dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344, occorre guardare all’analoga formulazione del vecchio art. 74 del Testo Unico antevigente.

Tali costi devono essere confrontati con il principio di inerenza, che è uno dei capisaldi in materia di determinazione del reddito nel sistema di impresa.

Seguendo la testuale formulazione dell’art. 109, quinto comma, del TUIR, il principio di inerenza comporta che «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».

Il comma in questione riprende fedelmente il tracciato del vecchio art. 75, c. 5.

 

L’inerenza ampia

Un’interpretazione ampliativa dell’inerenza, secondo la quale il principio deve intendersi riferito all’intera attività dell’impresa anziché ai singoli beni e attività, si è affermata sia nella prassi interpretativa dell’amministrazione, sia nella giurisprudenza di legittimità, come si evince ad esempio dall’esame della sentenza della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10062 del 1° agosto 2000.

Tale pronuncia ha fatto richiamo alla prassi ministeriale (in particolare alla circolare 7.7.1983, n. 30/9/944) la quale aveva affermato che la «spesa inerente» doveva intendersi come legata non ai ricavi dell’impresa, bensì alla «attività» della stessa; in tale prospettiva, era stata ammessa la deducibilità delle spese sostenute per le

«attività di certificazione, anche se volontaria, dei bilanci della società madre, nonostante sia palese che detti costi non abbiano un diretto collegamento coi ricavi».

Sulla base di tali argomentazioni e interpretazioni, la Cassazione riteneva doversi riconoscere alla stabile organizzazione italiana la deduzione di una quota delle spese sostenute dalla società madre residente a Hong Kong: tale orientamento si supportava sia sul modello di Convenzione OCSE del 1977 (che, per l’appunto, riconosceva in capo alla stabile organizzazione le spese di direzione e di amministrazione), sia sulla stessa «logica della produzione del reddito d’impresa, a maggior ragione quando, come nella specie, la distribuzione dei costi avviene nell’ambito di un gruppo».

È infatti evidente, secondo la Corte,

«che la strategia degli investimenti di un’impresa che si trova a capo di un gruppo non può essere confinata nei limiti di quella propria del cd. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento di una redditività in tempi brevi. L’impresa capo-gruppo può, infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela dell’immagine mondiale del gruppo o nell’intento di assicurarsi una maggiore presenza sul mercato, mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella specie, stabili organizzazioni senza personalità giuridica distinta, anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi».

In definitiva, secondo la regola di diritto enucleata dalla Cassazione, occorreva riconoscere validità alla scelta imprenditoriale, espressione di una «corretta strategia aziendale di gruppo», consistente nell’attribuire alla stabile organizzazione italiana «una quota di costi (siano essi generali o operativi)» sostenuti dalla casa madre (nel caso di specie non residente).

In tale prospettiva possono essere messe tra parentesi le problematiche che ora potrebbero derivare dal riconoscimento diretto di costi esteri di una società residente in un territorio «black list» da parte della SO italiana, perché il principio-cardine affermato è quello della trasmissibilità dell’inerenza all’interno del gruppo, ovvero all’interno di una struttura di impresa (non residente) dotata di stabili organizzazioni in Italia.

Sulla base di analoghe considerazioni si può evincere una nozione di inerenza slegata rispetto alla stretta correlazione costi – ricavi, come pure dalla puntuale riferibilità a un fenomeno commerciale unico e determinato.

A maggior ragione considerando che l’era presente si caratterizza per l’onnipervasività dell’informazione e della comunicazione, anche pubblicitaria, e per la possibilità, per le imprese, di acquisire fattori produttivi e di commercializzare i propri prodotti prescindendo da ogni collegamento territoriale e utilizzando forme innovative di distribuzione e vendita.

 

 

Inerenza e spese pubblicitarie

Nella sentenza n. 24065 del 16.11.2011, la Corte di Cassazione ha affermato che la norma fiscale sulla quale si fonda la deducibilità delle spese di pubblicità e propaganda nell’esercizio in cui sono state sostenute od in quote costanti nell’esercizio stesso e nei due successivi (art. 74, secondo comma, del TUIR ante – riforma IRES, applicabile ratione temporis nel caso esaminato e ora ripresa nell’art. 108, secondo comma, del Testo Unico, che ha ampliato la rateizzazione fino al quarto esercizio successivo),

«non prescinde dalla prova del requisito della “inerenza” … che, pertanto, grava sul contribuente anche in relazione alla congruità della spesa sostenuta rispetto “ai ricavi od all’oggetto della impresa”».

Intendendo la sponsorizzazione come species del genus «pubblicità», la Corte ha altresì rilevato che la sentenza impugnata della CTR non aveva fornito adeguata giustificazione dell’inerenza delle spese per pubblicità sostenute dalla società, «omettendo di indicare le ragioni per le quali tale inerenza possa o debba ravvisarsi anche nel caso di pubblicità svolta a favore di un soggetto diverso dalla società contribuente».

(Emergeva quindi l’implicita ammissione che, in linea generale, anche la pubblicità «acquistata» a favore di un’impresa terza può risultare inerente rispetto all’attività di impresa).

In particolare, la CTR avrebbe dovuto verificare, dovendo valutare il rispetto del criterio di inerenza, se il contratto di pubblicità era stato stipulato dalla società accertata (e ricorrente) per conto proprio, ovvero in adempimento di obbligazioni assunte con il soggetto terzo a favore del quale la pubblicità era (ad esempio nel caso di mandato o di intermediazione di servizi, ovvero di contratto di sponsorizzazione o di pubblicità a favore di terzi), «a tal fine essendo rilevante considerare anche l’oggetto sociale … della società contribuente (in ipotesi lo “sponsor”) come emerge dal contratto sociale o dallo statuto».

Alla CTR veniva quindi richiesto in sede di rinvio di risolvere il problema sopra esposto (la società contribuente aveva agito per conto terzi – rimanendo quindi indifferente all’utilità prodotta dai servizi pubblicitari -, oppure in proprio – per la diffusione e la promozione della propria immagine imprenditoriale -, nel qual caso dovrebbe essere verificata l’inerenza del costo?).

«In ordine alla questione indicata, fermo il principio secondo cui la prova della inerenza della spesa grava sul contribuente, dovrà fornire adeguata motivazione il Giudice del rinvio, tenendo conto che la mera prestazione pubblicitaria richiesta dalla contribuente a favore di un terzo soggetto non configura elemento sufficiente a qualificare il contratto come stipulato per conto altrui con conseguente non inerenza ed indeducibilità della spesa), dovendo essere indagati eventuali rapporti tra la società contribuente ed il terzo tali che la prima possa comunque ottenere vantaggi ed utilità dalla pubblicità svolta in favore del terzo (ad es. nel caso in cui sussista un rapporto di subfornitura, il subfornitore sostiene le spese di pubblicità del prodotto finale fabbricato o commercializzato da un’altra impresa: da tale pubblicità il sub-fornitore si attende infatti un potenziale incremento degli ordini di fornitura: od ancora nel caso di clausola di esclusiva di rivendita, il rivenditore sostiene le spese di pubblicità del marchio della ditta produttrice: la pubblicità della immagine o dei prodotti della impresa produttrice ridonda, infatti, a favore del potenziale incremento delle vendite della concessionaria in esclusiva».

 

 

Deducibilità dlele spese pubblicitarie – Alcune riflessioni

contabilità spese di pubblicità e di rappresentanzaLa questione della deducibilità o indeducibilità del costo relativo a un determinato componente del reddito di impresa, in presenza di rapporti negoziali tra più soggetti, deve essere decisa in base ai criteri generali che guidano il sistema di impresa.

Se quindi, in linea generalissima, può essere contestato il sostenimento di un costo a favore di un terzo soggetto, occorre appurare se, nel caso concreto, il rapporto tra i due soggetti (quello che trae il beneficio diretto e quello che sostiene il costo) sia tale da generare un beneficio indiretto in capo al «deducente», a sua volta in grado di soddisfare il canone dell’inerenza.

In base a quest’ultimo, è il caso di rammentare, i costi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi: la formulazione è talmente ampia da ricomprendere, almeno in potenza, varie ipotesi di tipo intersoggettivo (gruppo, accordi negoziali). È del tutto condivisibile, tuttavia, l’orientamento espresso dalla Cassazione quanto all’esigenza di verificare in concreto l’inerenza del costo, con onere della dimostrazione in capo al contribuente.

L’ipotesi sopra rappresentata è differente da quella dell’inerenza del costo pubblicitario in assenza di collegamento territoriale con il business, però consente ugualmente di comprendere cosa l’inerenza possa essere nell’epoca presente, che è caratterizzata da rapporti economici e commerciali smaterializzati, sottratti alla tradizionale fisicità e ciò nonostante concreti e in grado di produrre i propri effetti.

Come dunque l’inerenza si slega dalla riferibilità diretta a un soggetto rispetto ad altri, in un contesto di gruppo nel quale l’utilità all’impresa deve essere intesa in senso allargato, così essa si svincola dal collegamento territoriale. Il quale può assumere rilevanza come criterio per stabilire l’esigenza di una struttura societaria in un Paese estero (ciò che accade nel regime delle CFC), ma con difficoltà può prestarsi a escludere in assoluto la riferibilità del costo, se regolarmente sostenuto, all’attività dell’impresa.

 

La sentenza del 2015

sentenza corte di cassazioneLa sentenza della Corte di Cassazione n. 3770 del 25.2.2015 è già stata commentata in un precedente intervento su questo sito con riferimento al secondo motivo di ricorso, relativo alla traslazione economica dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti di cui all’art. 17 del D.P.R. n. 601/1973.

Con il terzo e ultimo motivo di ricorso, la società ricorrente denunciava la violazione dell’art. 75 (ora 109) del TUIR, censurando la sentenza della CTR nella parte in cui era stata esclusa la deducibilità, per mancanza di inerenza, di spese pubblicitarie sostenute – congiuntamente a un’altra società del gruppo – in aree geografiche in cui la società contribuente non era presente.

Era stato chiesto al riguardo

«se (…) le spese pubblicitarie per la divulgazione del marchio aziendale in aree in cui, non essendo presente alcun punto vendita, i prodotti pubblicizzati non sono ancora commercializzati, debbano essere considerate inerenti all’esercizio dell’impresa e, pertanto, deducibili».

Si registrava al riguardo una difformità tra le motivazioni della sentenza (escludenti l’inerenza delle spese di pubblicità sostenute in aree geografiche prive della presenza fisica della società, cioè di suoi punti vendita) e il controricorso dell’Agenzia delle Entrate, secondo la quale in realtà sarebbero state disconosciute solamente le spese relative a zone in cui il marchio della ricorrente non era pubblicizzato.

Secondo quanto argomentato dalla Corte, questa diversa ricostruzione dei fatti operata dall’Agenzia avrebbe potuto trovare ingresso nel giudizio di legittimità solamente mediante la proposizione di un ricorso incidentale per vizio di motivazione.

Sul punto in discussione, la Cassazione ha affermato la fondatezza della questione, osservando che «la pubblicità da tempo non svolge più un ruolo puramente informativo limitato alla notizia dell’esistenza di un prodotto già introdotto sul mercato, poiché lo sviluppo della produzione industriale di massa ha fatto assumere al messaggio pubblicitario la funzione di sensibilizzare preventivamente l’interesse dei consumatori verso beni o servizi ancora non offerti concretamente: un tal tipo di spesa deve perciò essere qualificata come inerente all’esercizio d’impresa anche quando sia sostenuta prima ancora che l’offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia in concreto realizzata» (la Corte richiama al riguardo i precedenti costituiti da Cass. nn. 14350 del 1999 e 6502 del 2000).

Nell’attuale mercato globalizzato quindi – a maggior ragione – ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza delle spese di pubblicità non deve necessariamente sussistere un legame territoriale tra l’offerta pubblicitaria e l’area geografica in cui l’impresa svolge la propria attività.

 

Considerazioni di sintesi

Determinate spese, tra quelle sostenute nell’utilità dell’impresa e perciò ammesse a concorrere analiticamente alla determinazione del reddito imponibile, presentano un carattere immateriale che mal ne consente la riconduzione fissa a un apparato produttivo o commerciale.

In particolare per le spese di pubblicità, a parere di chi scrive, non ha senso pretendere che questi componenti reddituali negativi siano correlati, oltre che all’attività dell’impresa, anche alla fisica materialità del suo insediamento in un luogo determinato, né che debbano essere supportati dalla presenza territoriale di un marchio.

Anche a non voler considerare infatti le possibilità di forme sempre diverse e innovative di esercizio dell’attività, estendentisi a territori geograficamente diversi grazie alle nuove modalità di penetrazione (fondate sui nuovi media e su Internet), occorre riflettere sulle modalità di estrinsecazione dell’«utilità» della spesa pubblicitaria:

  • a fronte del carattere sovralocale e sovranazionale dell’impresa (entità disgiunta da una precisa collocazione territoriale, fatta salva l’applicazione delle disposizioni speciali in materia di esterovestizione, exit tax, cfc, costi esteri black list);

  • in un contesto in cui l’impresa stessa – nel senso di attività organizzata dedita alla produzione/scambio di beni e servizi – può corrispondere a uno o più soggetti, nonché alla rete di relazioni di controllo, collegamento e negoziali tra tali soggetti.

 

28 maggio 2015

Fabio Carrirolo