Le "obiettive condizioni di incertezza" tra pretesa tributaria e tutela del contribuente (utilissimo per i ricorsi…)

non sono applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme tributarie: analisi delle casistiche in cui è possibile ravvisare l’incertezza e conseguente disapplicazione delle sanzioni

 

Cenni sull’origine storica dell’esimente di cui all’articolo 8 D.Lgs. 546/92

L’articolo 8 del Decreto Legislativo n. 546/92, rubricato “Errore sulla norma tributaria”, recita: “La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.

La disposizione in esame riproduce quella prevista dall’art. 39-bis del previgente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, sicché il dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha interessato quest’ultima disposizione, particolarmente interessante, può essere traslato direttamente sulla norma in esame.

L’introduzione dell’art. 39-bis veniva motivata dalla relazione ministeriale di accompagnamento al precedente decreto sul contenzioso tributario, attraverso l’applicazione generalizzata del principio di scusabilità dell’errore del contribuente dovuto ad oggettiva incertezza della legge tributaria, principio che in origine era previsto solo per alcuni tributi, come l’ Iva e le imposte sui redditi.

Tale principio è vigente, in verità, da molti decenni nell’ordinamento tributario: esso si ritrova, per la prima volta nell’art. 2 del R.D. 28 gennaio 1929, n. 360, poi trasfuso nell’art. 15 del R.D. 15 settembre 1931, n. 1608, e nell’art. 5, lettera a) del D.M. 1 settembre 1931, emanato in attuazione della L. n. 4 del 1929, che giustificava l’abbandono della richiesta di irrogazione delle pene pecuniarie qualora le violazioni si fossero riferite a casi dubbi di applicazione di tributi indiretti, riconosciuti come tali dall’Amministrazione finanziaria a livello centrale.

Poco prima della riforma tributaria, poi, l’art. 248 del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 affermava che le sanzioni previste per l’omissione, la tardività e l’incompletezza della dichiarazione dei redditi (artt. 243, 244 e 246) non trovavano applicazione se l’obbligo di questa “era fondatamente contestabile per obiettiva incertezza sull’esistenza dei presupposti dell’obbligazione tributaria“.

La descritta previsione, in sostanza, concerne anche l’incertezza circa i presupposti (pure di fatto) dell’obbligazione tributaria e comporta la possibilità di esclusione delle sole sanzioni previste per gli adempimenti dichiarativi, ad eccezione dell’infedele dichiarazione.

Successivamente alla riforma, l’inapplicabilità delle sanzioni per obiettiva incertezza è stata progressivamente estesa a qualsiasi tipo di illecito tributario: difatti, si è passati dagli articoli 55, ultimo comma D.P.R. n. 600/1973 e 48, ultimo comma D.P.R. n. 633/1972, poi abrogati per l’effetto dell’introduzione dell’art. 16 D.Lgs. 471/97 (riferiti esclusivamente alle pene pecuniarie in materia di IIDD e IVA) alla previsione generale di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992.

La ratio

La rilevanza dell’esimente in commento entra in funzione in situazioni di obiettiva carenza dell’ordinamento tributario che impediscono al soggetto chiamato ad applicare la disposizione di avere una sufficiente certezza in ordine al suo contenuto. In tali ipotesi, l’esercizio statuale del potere punitivo viene inibito dall’assenza di rimproverabilità del comportamento del privato contribuente.

In argomento, ormai pacifica è quella giurisprudenza costituzionale che esprime l’esistenza di un valore costituzionale comportante la chiarezza normativa e la certezza nell’applicazione del diritto: l’ignoranza inevitabile ed incolpevole della legge fonda il principio di scusabilità dell’illecito per obiettiva incertezza della legge tributaria.

Le difficoltà che si incontrano per la corretta conoscenza della legge tributaria – normalmente superiori a quelle inerenti la conoscenza di leggi di altra natura – costituisce, dunque, l’elemento di base da cui partire per una ricostruzione della ratio della scriminante.

E’ stato osservato che la funzione della scriminante sarebbe quella di correttivo di un sistema, quello tributario, caratterizzato da una normativa talvolta oscura e contraddittoria ovvero di attuazione di un “meccanismo di autotutela ordinamentale”, che esclude l’applicazione delle sanzioni non penali sulla base dell’interesse pubblico (e non meramente soggettivo) alla non punibilità di illeciti determinati da circostanze oggettivamente imputabili all’ordinamento.

La portata applicativa della disposizione in esame

Dal punto di vista soggettivo, è possibile rilevare un primo elemento interpretativo da attenzionare: il potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative per obiettiva incertezza della legge tributaria sembra spettare esclusivamente al giudice tributario di primo e di secondo grado non anche alla Corte di Cassazione, trattandosi di una valutazione circa la sussistenza delle condizioni di obiettiva incertezza della legge nel caso concreto, costituente un apprezzamento di fatto che è naturalmente sottratto al giudice di legittimità.

Dal punto di vista dell’interpretazione sistematica, la disposizione di cui all’articolo 8 è, difatti, collocata nel Titolo I del D.Lgs. n. 546/1992, il quale disciplina le disposizioni generali sul contenzioso tributario e la figura del giudice tributario.

L’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992, dunque, è norma processuale che fonda il potere giudiziale di disapplicazione delle sanzioni tributarie non penali: il giudice tributario può, secondo la dottrina, rilevare d’ufficio l’esimente dell’obiettiva incertezza delle disposizioni applicabili al caso portato alla sua cognizione, senza necessità di un’espressa domanda di parte in tal senso.

L’esimente dell’obiettiva incertezza assume le sembianze di norma del procedimento di accertamento, di modo che è, anzitutto, l’Amministrazione finanziaria a non dover irrogare le sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della legge o nelle ipotesi di violazioni degli obblighi tributari causate da comportamenti legittimi o meno della stessa Amministrazione.

Il mancato riconoscimento da parte del Fisco del principio generale di non punibilità degli illeciti tributari determinati da una erronea applicazione della legge non imputabile al contribuente può, di conseguenza, essere contestato dal contribuente in sede giurisdizionale, con la conseguenza che la disapplicazione delle sanzioni amministrative può avvenire a seguito della valutazione giudiziale di contrarietà della pretesa sanzionatoria alla legge.

L’ignoranza inevitabile della legge tributaria

Il tema in discorso si lega strettamente a quello, più generale, dell’ignoranza inevitabile della legge.

Il contributo della Corte Costituzionale è stato a tal riguardo decisivo: il Giudice delle Leggi, difatti, con la nota sentenza n. 364 del 1988 ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 5 del codice penale, riformulandolo nel senso che “l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile”.

Considerato che nella decisione della Corte Costituzionale il termine “ignoranza” è utilizzato in senso ampio, come mancanza di conoscenza e di erronea conoscenza del testo normativo, ciò che rileva ai nostri fini è la ricostruzione del principio di colpevolezza quale requisito minimo di imputazione: per la “rimproverabilità” dell’illecito occorre che l’agente abbia avuto l’effettiva possibilità di conoscere la legge (penale). Tale presupposto, sostiene la Corte, “si ricava dall’intero sistema costituzionale” e, in particolare, dagli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione.

Ad avviso della Consulta, per la sussistenza di un qualsiasi tipo di responsabilità è necessario il requisito minimo della “comprensibilità” della legge, in modo tale che qualsiasi persona di normale diligenza possa conoscerne il significato.

Nessun rimprovero, quindi, può essere mosso al soggetto agente a causa di un’ignoranza di diritto “inevitabile“: ciò vale certamente anche quando si tratta di un illecito amministrativo tributario, in quanto il principio di colpevolezza (inteso nella sua estrinsecazione di “conoscibilità della legge” valutata su basi oggettive) è immanente a qualsiasi tipo di responsabilità.

La tesi dottrinaria in base alla quale per la responsabilità fiscale era sufficiente la mera volontarietà del comportamento deve ritenersi superata non solo sulla base dei più recenti contributi dottrinali e giurisprudenziali in materia, ma soprattutto a seguito della riforma del sistema sanzionatorio amministrativo tributario di cui al D.Lgs. n. 472/1997, che richiede per l’integrazione dell’illecito l’elemento soggettivo individuato nella colpevolezza (dolo o colpa) del soggetto agente (art. 5).

Ne consegue che sicuramente l’obiettiva incertezza della legge tributaria rientra nell’ambito dell’operatività del principio generale della scusabilità dell’ignoranza di diritto incolpevole, principio immanente a qualsiasi settore dell’ordinamento e in quanto tale applicabile agli illeciti fiscali.

I presupposti per la scusabilità dell’errore sulla norma tributaria: le obiettive condizioni di incertezza richiamate dall’articolo 8 D.Lgs. 546/92

L’art. 8 citato subordina la dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni tributarie amministrative all’esistenza di una “incertezza obiettiva“, cioè ad una seria perplessità sul significato della norma, che si traduce in un’ignoranza del suo “vero” contenuto.

Il dato della “obiettiva incertezza” della legge tributaria, adottato dal nostro legislatore, è elemento poco propenso ad essere delimitato concettualmente, come dimostrano i due tradizionali antitetici orientamenti che sono stati elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza: l’uno che accentua l’aspetto “oggettivistico“, l’altro che evidenzia la rilevanza del profilo “soggettivistico“.

Secondo il primo orientamento, il giudice, nell’indagare sull’esistenza delle condizioni di incertezza, deve unicamente stabilire se la norma violata, singolarmente considerata o in relazione ad altre norme, possa definirsi di oscura interpretazione.

Ciò comporta la conseguenza che l’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992 parrebbe non sottendere un “errore di interpretazione” ma una astratta impossibilità o grave difficoltà di comprensione del contenuto normativo, a prescindere dall’interpretazione concretamente offerta.

Gli argomenti addotti a sostengo di tale tesi muovono certamente dall’argomento letterale (il riferimento è alle “oggettive” condizioni di incertezza); inoltre, l’irrilevanza dell’elemento soggettivo risponderebbe ad imprescindibili esigenze di coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico, sostanziantesi anche nella necessità che la legge conservi la sua imperatività a prescindere dalla sua effettiva conoscenza, essendo sufficiente la possibilità di conoscenza, garantita dalla sua pubblicazione.

Viceversa, per la tesi soggettivistica, l’esimente dell’obiettiva incertezza pone, invece, una vera e propria giustificazione soggettiva, la quale si risolverebbe, ad avviso di alcuni interpreti, nella salvaguardia della buona fede del contribuente ovvero si concretizzerebbe nell’applicazione di un principio equitativo o in un istituto funzionalmente assimilabile alle cause di esclusione della colpevolezza previste dal diritto penale.

In realtà, l’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992, pare operare una sorta di compromesso: la pronuncia di disapplicazione delle sanzioni tributarie sembra, infatti, presupporre un rapporto tra l’elemento soggettivo, la mancata cognizione dell’esatta portata o significato del testo normativo, e l’elemento oggettivo, consistente nel ricorrere di particolari circostanze che turbano la normale capacità di comprensione della disposizione normativa. L’elemento soggettivo, in sé irrilevante, assume importanza in quanto derivante da circostanze oggettive che viziano la conoscibilità della legge: lo stato soggettivo di incertezza è rilevante in quanto determinato da circostanze obiettivamente valutabili.

La disposizione in esame attribuirebbe, quindi, efficacia scusante ad un errore di diritto oggettivamente apprezzabile: che si tratti di un errore di diritto sembra essere confermato tanto dalla rubrica dell’articolo (argomento, peraltro, non decisivo ma valutabile alla stregua del brocardo rubrica legis est lex), quanto dai recenti sviluppi interpretativi e legislativi in tema di illecito tributario amministrativo.

In concreto: dove si può reperire la ”obiettiva incertezza” e quali sono le cause sintomatiche

Le obiettive condizioni di incertezza che possono determinare la disapplicazione delle sanzioni amministrative in sede giudiziale devono necessariamente riguardare le disposizioni alle quali si riferisce la violazione.

L’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992 non precisa la natura di tali disposizioni e, dunque, oggetto della violazione scusabile può essere sia una disposizione tributaria sia una disposizione extratributaria, a cui la legge tributaria rinvia, esplicitamente o implicitamente, o della quale si deve tener conto nella situazione concreta al fine di colmare una lacuna dell’ordinamento tributario.

Ad ogni modo, la questione di maggior rilevanza pratica è costituita dall’applicabilità della scriminante ad ipotesi in cui l’incertezza è generata non da una singola disposizione, ma dall’ingente quantità di disposizioni (tributarie e non) cui bisogna di frequente ricorrere al fine di completare il contenuto della fattispecie normativa che regolamenta il singolo caso.

Da tale prospettiva, il giudice tributario che accerti la farraginosità, la contraddittorietà, la frammentarietà delle leggi, regolamenti e decreti che eventualmente si siano sovrapposti nella materia oggetto di causa, tanto da rendere obiettivamente incerta la regola applicabile al caso singolo, può dichiarare la inapplicabilità delle sanzioni non penali.

E’, dunque, rimesso alla valutazione del giudice tributario l’accertamento delle cause da cui deriva l’obiettiva incertezza sulla norma tributaria tale da scusare il comportamento del contribuente: essa va valutata, come si è detto, secondo criteri oggettivi che facciano ritenere che la comprensibilità della norma da parte del contribuente sia impedita o anche soltanto limitata.

Ai fini dell’individuazione delle cause fondanti l’applicazione dell’esimente, la già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988 sull’ignoranza inevitabile della legge penale offre degli spunti notevoli.

Secondo la Corte, infatti, la concreta ed effettiva inevitabilità dell’errore deve essere verificata alla stregua di criteri c.d. oggettivi puri, quali la “mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa” dovuta, per esempio, all’assoluta oscurità del testo legislativo o regolamentare, il susseguirsi di interpretazioni discordanti in materia, ovvero di criteri cc.dd. misti, i quali sussistono quando la violazione è stata provocata da peculiari circostanze di fatto, a carattere “positivo” che hanno indotto il soggetto a ritenere lecito il suo comportamento: si parla, in questo caso, anche di “affidamento necessitato” , poiché, ad esempio, determinate rassicurazioni (erronee) sono state fornite da soggetti istituzionalmente legittimati ad operare nel settore, ovvero ancora da precedenti amministrativi e giudiziari.

Sulla scorta della casistica sottoposta alla giurisprudenza tributaria in materia, di seguito vengono elencate le principali cause sintomatiche dell’obiettiva incertezza:

  • Oscurità, contraddittorietà, ambiguità, equivocità della norma violata.

  • Novità legislativa nel periodo di prima applicazione.

  • Emanazione di una disposizione di interpretazione autentica.

  • Incertezza sull’ambito temporale di applicazione della norma.

  • Mancanza di pronunce giurisprudenziali ovvero contrastanti orientamenti giurisprudenziali.

  • Conformità della condotta alle circolari ministeriali ovvero alle indicazioni

fornite dall’Amministrazione finanziaria.

  • Contraddittorietà delle informazioni o interpretazioni fornite dall’Amministrazione.

  • Conflitto tra opinione interpretativa dell’Amministrazione e l’orientamento giurisprudenziale.

  • Precedenti giurisprudenziali pronunciati a favore del contribuente.

  • Opinioni dottrinali autorevoli confortanti l’operato del contribuente.

La situazione del contribuente in buona fede

L’incertezza normativa, ovviamente, non è un dato o un fatto noto, ma un elemento da dimostrare in giudizio, secondo gli ordinari schemi di riparto dell’onere della prova ex art.2697 c.c..

Il contribuente, allora, fin dal tentativo di adesione con l’Ufficio può prospettare la disapplicazione delle sanzioni qualora ricorrano le obiettive difficoltà interpretative.

Ove il relativo accordo non sia raggiunto, è possibile per la parte privata, già nel ricorso introduttivo, eventualmente quale richiesta in subordine, argomentare in tal senso, indicando – ad esempio – le ragioni della complessità della norma ovvero tutti i possibili legittimi comportamenti adottabili in quella specifica circostanza.

In altri termini, il contribuente deve fornire al giudice tributario un ventaglio di potenziali interpretazioni della normativa, mostrando come le diverse ipotesi siano tutte ugualmente valide ed ammissibili.

Si può, in ipotesi, discorrere tanto sulla bontà del comportamento adottato quanto sulla correttezza dell’operato dell’Ufficio, supportando ciascuna tesi con pronunce di merito o legittimità, circolari, pareri, articoli di dottrina e così via; in altre parole, egli deve dimostrare che le diverse interpretazioni fossero comunque applicabili e che, ad ogni modo, nella soluzione adottata non si potesse ravvisare una qualche finalità “fraudolenta”.

Solo dinanzi a tale quadro probatorio è possibile che il giudice ravvisi l’incertezza normativa alla quale consegue la non applicazione delle sanzioni.

Nessuna chance di essere accolte hanno, di contro, le richieste generiche di non applicazione delle sanzioni per generica “incertezza della norma”, che pure si palesano nella quotidiana pratica.

La Cassazione, da parte sua, tende a salvaguardare il legittimo affidamento del contribuente, ma solo a determinate condizioni.

A conferma delle osservazioni appena svolte, la sentenza n. 18434/2012 depositata il 26 ottobre 2012 dalla Corte di Cassazione ribadisce che la valutazione sull’equivocità del procedimento di interpretazione normativa è demandata esclusivamente al giudice, mentre al contribuente spetta l’onere dell’allegazione degli elementi comprovanti tale forma di incertezza. Del resto, pacificamente i giudici di legittimità affermano che è onere del contribuente dimostrare l’incertezza della norma ai fini della non applicabilità delle sanzioni amministrative in ambito tributario.

La Corte di Cassazione, infatti, ha sempre affermato (cfr. anche la sentenza n. 4031 del 14 marzo 2012) che la dimostrazione “del complicato coordinamento e dei dubbi sull’applicabilità delle norme” grava solo sul contribuente ed è da escludere la possibilità che i giudici tributari di merito possano decidere d’ufficio sulla debenza della sanzione (in termini sentenze n. 22890 del 2006 e n. 7502 del 2009), nonostante, su quest’ultimo punto, la dottrina non sia sempre d’accordo.

Più di recente, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, in tema di incertezza normativa, le eventuali conseguenze legate alla spettanza dell’Irap (v. sentenza n. 4394 del 2014) visto che la rilevanza sul reddito professionale è stata oggetto di articolato e complesso dibattito, sia in dottrina come pure in giurisprudenza e che solo a partire dal 2007 si è configurato l’orientamento costante che ha determinato presupposti e limiti dell’imposizione fiscale.

Nella specie, i giudici di legittimità hanno affermato che la rilevanza sul reddito professionale è stata oggetto di articolato e complesso dibattito, sia in dottrina come pure in giurisprudenza e che solo a partire dall’anno 2007 si è delineato l’orientamento costante che ha determinato presupposti e limiti dell’imposizione fiscale: atteso che l’obiettiva incertezza, allora, esisteva dal 2003 al 2005 in ordine al presupposto dell’attività “autonomamente organizzata”. In questo senso, in caso di errore commesso dal contribuente in ordine all’applicazione dell’imposta per gli anni precedenti al 2007, non può ravvisarsi la potestà sanzionatoria.

Un’altra ipotesi di “incertezza normativa” (notata dagli studiosi) è stata individuata anche dalla Cassazione (v. sentenza n. 17250 del 2014) sui bonus riconosciuti ai concessionari automobilistici. In particolare, la questione concerneva la possibile imponibilità Iva dei “premi” riconosciuti da una società distributrice di autoveicoli ad una società concessionaria sulla base di specifiche clausole contrattuali che prevedano compensi al raggiungimento di determinati volumi di vendita. La Cassazione ha concluso per l’esistenza della citata incertezza normativa e, pertanto, ha esonerato dal pagamento delle sanzioni irrogate la società ricorrente, sulla base anche della giurisprudenza comunitaria di riferimento.

Infine, per il futuro non si potrà certamente trascurare la portata delle questioni interpretative legate ai nuovi tributi locali (Tasi, Imu o mini Imu…): situazioni queste, di fronte alle quali potrebbero incardinarsi richieste di inapplicabilità delle sanzioni da parte dei contribuenti, incorsi in eventuali errori, che i giudici potrebbero ritenere “scusabili”.

14 maggio 2015

Martino Verrengia (*)

(*) Il presente scritto è a titolo personale e non vincola in ogni caso l’Amministrazione di appartenenza