L’evasione dell’IRAP non ha rilevanza di carattere penale

l’evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive non assume rilevanza di natura penale e come tale non deve rientrare nella determinazione del superamento della soglia di punibilità per il reato di dichiarazione infedele

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 4906 del 2 febbraio 2015, ha affermato che l’evasione dell’IRAP non ha rilevanza di carattere penale; i giudici di legittimità nel dichiarare non rilevante penalmente l’evasione IRAP perché non rientra fra quelli sui redditi in senso stretto, osservano che il tributo regionale non concorre al superamento della soglia di punibilità, per il reato di dichiarazione infedele.

Il contenzioso tributario

Il Tribunale ordinario con ordinanza del dicembre 2012, aveva rigettato l’istanza di riesame proposta da un imprenditore avverso il provvedimento di sequestro preventivo (per equivalente) dei beni facenti capo ad alcuni indagati a seguito di un procedimento penale avviato, in relazione ai reati:

  • di omessa dichiarazione di redditi (art. 5, del d.lgs. n. 74/2000);

  • di omesso versamento di ritenute fiscali (art. 10bis, del d.lgs. n. 74/2000);

  • sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, del d.lgs. n. 74/2000).

I reati contestati

L’art. 5, del D.Lgs. 74/2000 prevede che è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte a euro trentamila.

Ai fini della disposizione prevista non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.

In materia di omesso versamento di ritenute fiscali, l’art. 10-bis del D.Lgs. 74/2000, afferma che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

In materia di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte l’art. 11, del D.Lgs. 74/2000 afferma che è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni.

E’, inoltre, punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni.

Il contenzioso tributario

Nel 2013 la Cassazione aveva annullato l’ordinanza del Tribunale, rinviando al medesimo giudice per nuovo esame, affinché procedesse all’accertamento:

1) delle specifiche norme anti-elusive concretamente violate dagli indagati ai fini dell’integrazione del reato di omessa dichiarazione dei redditi;

2) dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni in relazione alle quali era stato asseritamente commesso il reato di omesso versamento di ritenute fiscali;

3) dell’effettiva realizzazione del fittizio depauperamento patrimoniale strumentale alla frustrazione della soddisfazione delle pretese erariali, ai fini dell’integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte;

4) della legittima assoggettabilità a sequestro dei beni intestati a soggetti terzi .

Il Tribunale ordinario ha riesaminato il “caso” con le seguenti modifiche:

  1. sono stati confermati gli episodi di dichiarazione infedele dei redditi (art. 4, d.lgs. 74/2000) i fatti già contestati come omessa dichiarazione (ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 74/2000);

  2. è stata ritenuta comprovata la sussistenza del fumus commissi delicti in ordine ai reati di omesso versamento di ritenute fiscali e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (sia pure per importi minori, rispetto all’originario provvedimento di sequestro impugnato);

  3. è stata confermata, infine, la non sequestrabilità dei beni intestati a persone giuridiche o a soggetti diversi dagli indagati, parzialmente annullando il provvedimento di sequestro dei beni intestati a tali ultimi soggetti e, riqualificati come episodi di dichiarazione infedele dei redditi i fatti originariamente contestati ai sensi dell’art. 5. del citato D.Lgs. 74/2000, rideterminando il valore del sequestro, confermando, nel resto, il provvedimento impugnato.

Il ricordo di uno degli indagati

A seguito della sentenza di condanna del Tribunale ordinario, uno degli indagati ricorre in Cassazione censurando il provvedimento impugnato per violazione di legge, con particolare riguardo all’erronea determinazione, ad opera del giudice a quo, del quantum oggetto del sequestro preventivo, nella specie identificato sulla base di mere presunzioni del tutto prive di attendibilità e senza alcuna considerazione degli elementi negativi di reddito indispensabili per l’esatta quantificazione della base reddituale imponibile. Sotto altro profilo, il ricorrente si lamenta della violazione di legge in cui sarebbe incorso il giudice del merito, per aver tenuto conto, ai fini della determinazione del quantum del sequestro, di imposte (segnatamente a titolo di IVA) riferite a importi inferiori alle soglie di punibilità previste per legge, ovvero estranee (come l’IRAP) all’ambito di applicabilità del d.lgs. n. 74/2000.

Avverso tale sentenza sfavorevole uno degli indagati è ricorso in Cassazione.

 

L’analisi della Corte di Cassazione

Per la Corte di Cassazione il ricorso è parzialmente fondato, con riferimento alla parte che di seguito si esamina.

Per i giudici di legittimità, le censure mosse nel ricorso sono fondate con riferimento alla determinazione dell’entità del profitto (e dunque della somma confiscabile per equivalente) calcolato anche attraverso l’inclusione dell’IRAP, nella quantificazione dell’imposta evasa. Per i giudici di legittimità costituisce principio di diritto consolidato, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che il sequestro e la confisca per equivalente non possono avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, sicché il giudice di merito deve individuare l’effettivo profitto del reato e, quindi, procedere, anche in sede di sequestro, alla valutazione dell’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto.

Nella fattispecie in esame il Tribunale, per la quantificazione del profitto del reato, erroneamente ha tenuto conto anche dell’asserito mancato pagamento dell’IRAP, laddove la legge non conferisce rilevanza penale all’eventuale evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive (non trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico) e le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato di cui all’art. 4, d.lgs. n.74/2000, sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali IVA ; su tale aspetto la Cassazione richiama la circolare del Ministero delle Finanze n. 154/E del 4 agosto 2000, che motiva l’esclusione della dichiarazione IRAP con la natura reale di siffatta imposta, che perciò considera non incidente sul reddito.

Il parere delle Entrate

Il Ministero delle Finanze con la circolare n.154/E del 4 agosto 2000, in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ha analizzato il comportamento di chi “gonfi” fraudolentemente le componenti negative, in modo da abbattere l’imponibile.

Il delitto può essere realizzato da chiunque sottoscriva o presenti una dichiarazione fraudolenta, a prescindere dalla qualificazione di soggetto passivo d’imposta e dalla titolarità dei redditi o dall’intestazione dei beni oggetto della dichiarazione. Infatti, ai sensi delle lettere c) ed e) dell’articolo 1, del D.Lgs. 74/2000, l’autore del reato può essere il liquidatore o il rappresentante legale di società, enti e persone fisiche, relativamente alle dichiarazioni da loro presentate in tale veste.

La configurazione del delitto de quo è subordinata alla realizzazione di due comportamenti consequenziali e necessari:

1) innanzitutto, è richiesto che l’autore si avvalga di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il comma 2, dell’articolo 2 del D.Lgs. 74/2000, per evitare incertezze sul piano ermeneutico, precisa la portata di tale condotta, la quale si concreta nella registrazione della documentazione rilevante ai sensi della lettera a, dell’articolo 1, nelle scritture contabili obbligatorie e nella detenzione della stessa a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. Quest’ultima modalità, evidentemente, si riferisce alla massa indifferenziata dei contribuenti (anche a quelli non obbligati alla tenuta delle scritture contabili); essa ricorre, tra l’altro, nel caso di detenzione di fatture e di altri documenti per provare gli oneri o le spese deducibili o detraibili, indicati in dichiarazione; tra gli altri documenti possono annoverarsi l’autofattura, la ricevuta fiscale, gli scontrini fiscali, emessi ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 696 del 1996, le schede carburante, le note di variazione previste dall’art. 26 del D.P.R. n. 633 del 1972 e le ricevute e altri documenti attestanti comunque oneri, spese e costi, fittizi;

2) il secondo comportamento integrativo della condotta consiste nella presentazione della dichiarazione contenente l’indicazione di elementi passivi fittizi: ciò implica che la mera «utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» non integra gli estremi della figura delittuosa in esame. Le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali Iva; di conseguenza, sono, ad esempio, escluse dalla fattispecie criminosa le dichiarazioni prodotte ai fini dell’Irap, le dichiarazioni periodiche Iva e le dichiarazioni di successione. A tale proposito, si osserva che, anche se la dichiarazione presentata in forma unificata a norma dell’art. 3, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, accoglie più dichiarazioni prodotte ai fini delle imposte dirette, dell’Iva e dell’Irap, acquistano rilievo solo le violazioni in materia di imposte dirette e di Iva.

Le conclusioni

Per la Cassazione l’ipotizzato art. 4, del D.Lgs. n. 74/2000, tutela il bene giuridico patrimoniale della percezione del tributo ed è all’indebito vantaggio d’imposta (sui redditi e dell’IVA), deducibile dalle correlate dichiarazioni annuali, che deve farsi riferimento per l’individuazione del profitto del reato.

Per la Corte di Cassazione l’ordinanza impugnata dev’essere, pertanto, annullata sul punto, con rinvio al giudice a quo, affinché provveda a verificare l’effettivo ammontare del profitto (e dunque della somma confiscabile per equivalente), sempre tenendo conto delle soglie di punibilità, sulla base dei principi secondo i quali gli importi concernenti l’IRAP non possono concorrere a determinare il profitto del reato.

28 aprile 2015

Federico Gavioli