Anche il deposito IVA può essere usato per una frode con una cartiera

in sostanza, il vantaggio dato dall’utilizzo dei depositi IVA consiste nel differire l’assolvimento dell’imposta a un momento successivo rispetto alle normali operazioni d’importazione e a non anticipare finanziariamente il pagamento dell’imposta, che verrà assolta nel momento di estrazione delle merci dal deposito pur se attraverso il meccanismo dell’inversione contabile, c.d. reverse charge
(Giovambattista Palumbo e Fiammetta Poltronieri)

 

Premessa

La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza n. 401/17/15, depositata il 2 marzo 2015, ha stabilito interessanti principi in tema di frodi legate all’utilizzo dei depositi Iva.

La metodologia oggetto dell’indagine si basava sull’utilizzo di aziende, appositamente costituite, utilizzate per brevi periodi, prive di una struttura operativa, i cui rappresentanti accettavano di figurare come titolari, senza svolgerne le relative funzioni.

Tali cartiere, all’atto dell’importazione, per non versare l’Iva, ricorrevano alla procedura del deposito Iva in sospensione d’imposta.

Nello specifico, dopo aver estratto la merce mediante l’emissione di autofattura, la consegnavano direttamente alle ditte interessate, che, in questo modo, determinavano un’ingente evasione fiscale.

Nel caso di specie, la titolarità di fatto della ditta era del resto risultata riconducibile ad altro soggetto, come si evinceva anche dagli ordini di posizionamento della merce. Tale soggetto tuttavia si professava semplice dipendente della ditta in questione.

Laddove però l’Amministrazione, sulla base di un quadro presuntivo ben delineato, contesti la qualifica di amministratore di fatto e, in conseguenza di ciò, notifichi l’avviso di accertamento per le violazioni tributarie commesse dalla società, è senza dubbio onere del contribuente dare prova del fatto che agisse come dipendente.

In conseguenza di ciò, con la sentenza citata, la Commissione Tributaria Regionale Toscana, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, ha dunque confermato la legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del soggetto individuato come amministratore di fatto della società.

 

I fatti in causa

Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento con cui l’Amministrazione Finanziaria procedeva al recupero delle imposte dirette e dell’Iva evasa da parte della società di cui il contribuente era stato riconosciuto come l’amministratore di fatto.

In particolare la Guardia di Finanza, durante la verifica, aveva trovato chiuso il luogo di esercizio dell’attività e non era riuscita a reperire il titolare nominale della ditta, cittadino di origine cinese.

L’indagine traeva origine da un’analisi dei flussi economici e delle transazioni commerciali effettuate da parte di importatori di nazionalità cinese ed italiana con sedi legali e/o unità locali ubicate nella Regione Toscana, i quali immettevano in libera pratica nel territorio comunitario merci di origine e provenienza cinese, dichiarando valori imponibili assolutamente “fuori mercato” e comunque apparentemente inidonei a consentire anche la sola copertura dei costi delle materie prime contenute nelle merci importate.

Le informazioni acquisite avevano dunque permesso di individuare una stabile compagine associativa dedita al contrabbando doganale aggravato di tessuti, nonché alla commissione di altri reati di natura fiscale che aveva consentito ad innumerevoli società di etnia cinese di omettere di versare all’Erario, Dazi Doganali ed Imposta sul valore Aggiunto, per un importo pari a circa 100 milioni di Euro.

La metodologia fraudolenta, riconducibile al sodalizio criminoso oggetto dell’indagine, si basava sull’utilizzo di aziende, appositamente costituite, c.d. “cartiere”, utilizzate per brevi periodi, prive di una vera e propria struttura operativa (depositi e magazzini), economica e finanziaria, i cui rappresentanti legali, dietro il pagamento di un compenso, accettavano di figurare come titolari o legali rappresentanti delle stesse, senza svolgerne le relative funzioni.

Le cartiere all’atto dell’importazione ricorrevano alla procedura del deposito Iva in regime di sospensione d’imposta, previsto dall’art. 50-bis del D.L. n.331/93, convertito in Legge n.427/93.

Nello specifico, dopo aver estratto la merce mediante l’emissione di autofattura ex art.17 DPR.n.633/72, la consegnavano direttamente alle ditte cinesi interessate, che in questo modo determinavano un’ingente evasione fiscale e concorrenza sleale nel settore commerciale.

 

Lo schema di tale tipo di frode è tipico, basato sullo sfruttamento della la possibilità, offerta dall’art. 50-bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, di importare beni senza il pagamento dell’Iva attraverso la loro introduzione in depositi fiscali presenti sul territorio nazionale.

L’introduzione dei beni nei predetti depositi consente, infatti, l’acquisto in sospensione d’imposta, rinviando l’imposizione al momento dell’estrazione dei predetti beni dai depositi con emissione di autofattura ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972.

Grazie all’utilizzo dei depositi fiscali, quindi, l’importazione dei beni avveniva attraverso la semplice doppia registrazione della fattura da parte del soggetto passivo che la effettuava, con applicazione dell’imposta, quindi, esclusivamente formale.

La possibilità di estrarre i beni dal deposito fiscale senza versare l’imposta veniva dunque utilizzata dalle società organizzatrici dell’attività fraudolenta per interporre fittiziamente nelle operazioni di estrazione operatori di loro creazione, che non erano altro che le “società fantasma” precedentemente descritte.

 

Il ricorso allo strumento investigativo delle indagini tecniche, nonché il monitoraggio “fisico” delle aziende destinatarie del tessuto importato in contrabbando, ha dunque permesso di individuare il sistema fraudolento finalizzato a celare i legami tra fornitori e i reali destinatari della merce.

Attraverso la circ. n. 16/D del 28 aprile 2006, l’Agenzia delle Dogane ha del resto già individuato le possibili irregolarità generalmente connesse all’immissione in libera pratica di merci comunitarie, emergenti dal riscontro della documentazione contabile in sede di controllo presso i depositi Iva e tra queste rientra appunto anche quella relativa a frodi tramite l’interposizione di un prestanome che ha provveduto all’estrazione della merce custodita nel deposito Iva (omettendo però il versamento dell’imposta), nonché alla successiva cessione della medesima ad altro soggetto Iva che è l’effettivo beneficiario dell’illecito vantaggio economico derivante dall’intera attività fraudolenta.

In particolare, nel caso di specie, la ditta sottoposta a verifica da parte dei verificatori era risultata essere quindi una delle c.d. “reali destinatarie” della merce importata dalla Cina da società “cartiere”, opportunamente costituite dal sodalizio criminoso.

Nonostante l’intestazione della ditta individuale, l’amministratore formale era inoltre sempre risultato irreperibile durante tutto il corso della verifica.

D’altro canto, a fronte dell’assenza di qualsiasi indizio circa la reale esistenza dell’amministratore formale di una ditta che smuoveva importi milionari, gli ordini di posizionamento sulla merce, come detto, risultavano invece intestati ad altro soggetto, formalmente dipendente della ditta,con l’indicazione, tra l’altro, oltre che del suo nome, anche del suo recapito telefonico, necessari per concordare luogo e tempo di consegna delle merci dei container.

Non solo ma, come rilevato durante le indagini svolte sulla ditta, l’amministratore di fatto non risultava aver mai avuto alcun contatto telefonico con personale dipendente e/o con i responsabili della società di spedizione che aveva curato la consegna della merce importata dalla Cina.

Per questo l’Ufficio procedeva al recupero nei confronti di quello che riteneva essere il titolare reale della ditta.

 

Con il proprio ricorso quest’ultimo, tra le varie eccezioni contestava dunque la propria qualifica di amministratore di fatto, eccependo la propria qualifica di dipendente della ditta presso la quale risultava essere regolarmente assunto.

La circostanza che il suo nome e numero di cellulare fossero sui pacchi era a suo dire dovuta al fatto che, a differenza del titolare della ditta, nonostante anche il contribuente fosse di origine cinese, parlava italiano, mentre il titolare formale parlava unicamente cinese.

L’Ufficio rilevava del resto come, nel caso di specie, era stato contestato non un rapporto fiduciario, ma un’interposizione soggettiva, ovvero una simulazione; evidenziava l’Ufficio come l’art. 37.3 del Dpr 600/73 non avesse funzione antielusiva, ma antievasiva, poiché diretta a perseguire un tipico fatto di evasione (tipico in quanto previsto dalla legge come tale), quale quello che può discendere dalla interposizione fittizia di un soggetto.

Concludeva pertanto l’Ufficio per il rigetto del ricorso del contribuente.

Contro la sentenza della Commissione di primo grado, che accoglieva il ricorso, l’Ufficio proponeva appello che veniva accolto dalla sentenza della Commissione di secondo grado in epigrafe.

 

La pronuncia della Commissione Tributaria Regionale

Con la sentenza in commento la Commissione Regionale ha accolto l’appello dell’Amministrazione sulla base del presupposto per cui, a fronte di un quadro indiziario che ragionevolmente portava a ritenere il contribuente il reale amministratore (c.d. amministratore di fatto), il contribuente non aveva dato alcuna prova delle circostanze idonee a “smontare” la tesi dell’Ufficio.

Come riporta la Commissione nella propria decisione, l’Ufficio aveva evidenziato “un quadro presuntivo che non lasciava alcuno spazio alle difese di costui: non risultava, in particolare, che vi fosse mai stato alcun contatto, sia pure meramente telefonico, fra lui e il titolare dell’azienda cinese; di quest’ultimo, anzi, per la verità, non risultava nemmeno la reale esistenza; il nome e il numero telefonico che comparivano negli ordini di posizionamento della merce importata in Italia erano quelli del ricorrente; era quest’ultimo, in sostanza, che, di fatto, aveva svolto l’attività di commercializzazione in Italia delle merci delle quali si tratta”.

Ad avviso dei giudici di seconde cure l’appello dell’Ufficio era manifestamente fondato, “posto che, a fronte della sicura attività gestoria esercitata, in concreto da XXX non vi è alcuna prova della reale esistenza del rapporto di mandato che, secondo il ricorrente, avrebbe giustificato l’attività stessa ed anzi, per la verità, non v’è, addirittura, alcuna prova dell’esistenza stessa del mandante”.

 

Conclusioni

Sul lato probatorio, dunque, ciò che rilevava era solo la circostanza che il titolare di fatto avesse svolto un’attività di commercializzazione, proponendosi nei contatti con gli acquirenti direttamente e quale unico interlocutore.

Anche considerato che, come da giurisprudenza costante della Suprema Corte, gli uffici sono autorizzati, ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. 600/1973, ad avvalersi della prova per presunzione, con conseguente onere della prova contraria a carico del contribuente.

Proprio tali elementi di prova contraria, nel caso di specie, erano assenti.

La decisione dei giudici di primo grado, secondo cui le prove addotte dal contribuente erano sufficienti, era dunque errata.

Non solo infatti non risultavano provati i fatti addotti dal ricorrente (ossia che egli era solo un semplice dipendente della ditta), ma anzi ricorreva contro di lui un quadro presuntivo che non lasciava dubbi.

Non risultava, in particolare, come detto, che vi fosse mai stato alcun contatto, sia pure meramente telefonico, fra lui e il titolare dell’azienda; di quest’ultimo, anzi, non risultava nemmeno la reale esistenza; il nome e il numero telefonico che comparivano negli ordini di posizionamento della merce importata in Italia erano quelli del ricorrente.

Era quest’ultimo, in sostanza, che aveva svolto l’attività di commercializzazione in Italia delle merci delle quali si trattava.

 

Non vi era poi alcuna prova della reale esistenza del rapporto di mandato che, secondo il ricorrente, avrebbe giustificato l’attività stessa.

La pronuncia in esame segna dunque un punto a favore delle contestazioni dell’Amministrazione Finanziaria dirette a cercare di individuare i reali autori degli illeciti in materia di importazioni dall’estero e di utilizzo dei depositi in sospensione di imposta.

Come evidenziato nella relazione della Guardia di Finanza al Parlamento, il meccanismo contestato nel caso di specie, in cui la ditta è formalmente intestata ad un soggetto che risulta sempre irreperibile, mentre l’attività viene in concreto svolta da un soggetto che risulta formalmente dipendente della ditta, dalla quale risulta regolarmente assunto, è del resto non di rado utilizzato dalle ditte che rivendono materiale, importato con il meccanismo dei depositi in sospensione di imposta, dalla Cina.

In questi casi l’assoluta irreperibilità (tale da fare dubitare anche dell’esistenza) dei formali titolari delle ditte rischia di rendere questi soggetti esenti da qualsiasi recupero.

Il ricorso all’amministratore di fatto, nei confronti di soggetti che evidentemente svolgono nei fatti la gestione di società che presentano non di rado giri di affari anche cospicui consente di evitare le elusioni della normativa, tramite l’istituzione di soggetti schermo.

 

Ovviamente sarà cura dell’amministrazione dare prova di un quadro indiziario chiaro preciso e univoco circa lo svolgimento di un’attività gestionale da parte del soggetto che pure formalmente appare dipendente, restando a carico di questi l’onere di dare la prova contraria, ovvero di aver agito come mero esecutore e sotto le direttive del titolare della ditta.

Difatti ai sensi dell’articolo 37 dpr. 600/1973 “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne e’ l’effettivo possessore per interposta persona”.

 

Sul punto giova del resto ricordare la giurisprudenza secondo cui “In sede di accertamenti in rettifica ai fini Irpef, gli uffici competenti sono autorizzati, ai sensi degli artt. 37 e seguenti del D.P.R. 600/1973, ad avvalersi della “prova per presunzione”, la quale presuppone la possibilità logica di inferire, in modo non assiomatico, da un fatto noto e non controverso, il fatto da accertare, con conseguente onere della prova contraria a carico del contribuente, il quale, ove intenda contestare l’efficacia presuntiva dei fatti addotti dall’ufficio a sostegno della propria pretesa, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano” Sent. n. 10345 del 7 maggio 2007 (ud. del 19 marzo 2007) (in senso conforme Cass. civ. Sez. V Ord., 26-11-2009, n. 24933).

A fronte di ciò, secondo le ordinarie norme che regolano l’onere probatorio, sarebbe dunque spettato al contribuente dare prova di fatti incompatibili con la ricostruzione dell’Amministrazione; e non essendo stata data tale prova la Commissione Tributaria Regionale ha confermato quindi il recupero dell’Ufficio.

In considerazione di quanto precede si doveva infatti concludere nel ritenere sussistere nella fattispecie i presupposti richiesti dal comma 3 dell’art. 37 D.P.R. 600/73, che legittimavano l’Ufficio ad imputare al ricorrente i redditi in discussione.

La prova per presunzioni è consentita infatti in tali casi dal legislatore proprio in considerazione della pericolosità di tali condotte.

 

I depositi Iva, infatti, come sopra detto, consentendo alle imprese di operare in sospensione d’imposta e di assolvere il tributo all’atto dell’estrazione delle merci, attraverso il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge), si prestano ad un possibile uso distorto, quando non addirittura strumentale alla realizzazione di vere e proprie operazioni fraudolente.

In Italia, il recepimento delle norme comunitarie in tema di depositi Iva ha del resto avuto un’evoluzione piuttosto travagliata.

Solo attraverso la L. 18 febbraio 1997, n. 28, in attuazione della direttiva n. 95/7/CE del 10 aprile 1995, è stato introdotto l’art. 50-bis al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, disciplinando, così, l’istituto dei depositi fiscali (o depositi Iva) , diversi da quelli doganali.

Attraverso la lettera b), comma 4, dell’art. 50-bis in parola, il legislatore ha dunque disposto che le merci immesse in libera pratica ed introdotte direttamente in un deposito Iva non siano assoggettate al pagamento dell’Iva.

Tale regime di non imponibilità esige due specifici adempimenti da parte dell’importatore: la presentazione all’Ufficio doganale competente della dichiarazione relativa all’introduzione dei beni in un deposito Iva e la successiva restituzione allo stesso Ufficio di una copia della dichiarazione doganale con l’attestazione del depositario di aver preso in carico la merce nel registro di cui al comma 3 dell’art. 50-bis del D.L. n. 331/1993.

Ancora, il comma 6 dell’art. 50-bis dispone testualmente che “l’estrazione dei beni da un deposito I.V.A. ai fini della loro utilizzazione o in esecuzione di atti di commercializzazione nello Stato può essere effettuata solo da soggetti passivi d’imposta agli effetti I.V.A. e comporta il pagamento dell’imposta (…). L’imposta è dovuta dal soggetto che procede all’estrazione, a norma dell’art. 17, comma 2, d.P.R. 633/1972 (…)”.

In tali casi, dunque, è all’atto dell’estrazione dal deposito Iva che si realizza un’operazione astrattamente soggetta all’applicazione dell’imposta; il proprietario emetterà una “autofattura”, ex art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, i cui estremi verranno contemporaneamente annotati sul registro fatture attive e sul registro fatture passive, in modo tale da determinare una “sterilizzazione” dell’imposta.

Al momento poi della successiva rivendita, il proprietario emetterà una fattura, da annotare sul registro fatture attive, con esposizione dell’Iva relativa.

In sostanza, il vantaggio dato dall’utilizzo di tali depositi Iva consiste nel differire l’assolvimento dell’imposta a un momento successivo rispetto alle normali operazioni d’importazione e a non anticipare finanziariamente il pagamento dell’imposta, che verrà assolta nel momento di estrazione delle merci dal deposito pur se attraverso il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge).

I comportamenti contestati nel caso in esame pertanto presentavano dunque caratteristiche di indiscussa pericolosità, che solo il ricorso alla previsione di cui all’articolo 37 e l’esatta valutazione del principio dell’onere della prova, come avvenuto nel caso di specie, hanno consentito di contestare in modo efficace.

 

2 aprile 2015

 

Giovambattista Palumbo

Fiammetta Poltronieri