IRAP: non si paga neanche con un dipendente che aiuta poco, non addetto all'organizzazione lavorativa ma solo all'erogazione di un miglior servizio

la sentenza che si annota apre le porte a tante professioni autonome, che si avvalgono di aiuti contrattualizzati minimi, che servono comunque, più che all’organizzazione, a fornire un miglior servizio

Sono sicuramente interessanti le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1544 del 27 gennaio 2015 (ud. 4 dicembre 2014), che si pone in controtendenza con alcune precedenti pronunce che legavano l’assoggettamento all’Irap in forza della presenza di un dipendente qualsiasi (anche part time). Il caso in questione investe un medico pediatra, convenzionato con il S.S.N..

La storia

La pronuncia che si annota, oltre a prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 156/2001, secondo cui, in tema di IRAP, l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diversa dall’impresa commerciale costituisce presupposto dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività autonomamente organizzata, opera una ricostruzione storica delle pronunce della Suprema Corte, così da giungere alle conclusioni sopra anticipate.

Il significato della nozione di autonoma organizzazione è stato individuato dalla Sezione Tributaria della Corte, a partire dalle sentenze nn. 3672, 3673, 3674, 3675, 36736, 73677, 3678, 3679 e 3680 del 16 febbraio 2007, secondo un duplice approccio.

 

In primo luogo, di tale nozione è stata fornita una definizione astratta, secondo formule variamente modulate:

  • organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente“; non, quindi, “un mero ausilio della attività personale, simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esclusi dalla applicazione dell’IRAP” (sent. 3672/07);

  • un apparato esterno alla persona del professionista e distinto da lui, risultante dall’aggregazione di beni strumentali e/o di lavoro altrui” (sent. 3673/07);

  • un contesto organizzativo esterno anche minimo, derivante dall’impiego di capitali e/o di lavoro altrui, che potenzi l’attività intellettuale del singolo” vale a dire, una “struttura riferibile alla combinazione di fattori produttivi, funzionale all’attività del titolare” (sent. 3675/07);

  • uno o più elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell’interessato, potenziandone le possibilità ovverosia un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista” (sent. 3676/07);

  • una struttura organizzativa ‘esterna’ del lavoro autonomo e cioè quel complesso di fattori dei quali il professionista si avvale e che per numero ed importanza sono suscettibili di creare valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al suo know-how” (3678/07).

In secondo luogo, osserva la Corte, “le suddette formule astratte sono state riempite di significato concreto con un approccio empirico-induttivo, vale a dire mediante l’indicazione di talune circostanze di fatto valutate come di per se stesse idonee a manifestare la sussistenza del requisito impositivo dell’autonoma organizzazione”.

Tali circostanze, precisa la Corte, “sono state individuate, in numerosissime pronunce della Sezione Tributaria, confermate anche dalle Sezioni Unite (sentt. 12108 e 12111 del 26.5.09), nel fatto che il contribuente non sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse (sia, cioè, il responsabile dell’organizzazione) e nel fatto che il contribuente impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l”id quod plerumque accidit’, costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, o, alternativamente, si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”, fermo restando che l’accertamento in concreto del requisito dell’autonoma organizzazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.

Il principio espresso

I massimi giudici ritengono che, “ferma restando la definizione normativa di autonoma organizzazione scolpita nelle formulazioni sopra riportate, il ‘fatto indice’ costituito dall’avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui non possa essere considerato di per sè solo – secondo un giudizio aprioristico che prescinda da qualunque valutazione di contesto e da qualunque apprezzamento di fatto in ordine al contenuto ed alle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa – manifestazione indefettibile della sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione. Proprio dalla natura reale, e non personale, dell’imposta – sottolineata nella sentenza C. cost. n. 156/01, laddove si evidenzia che la stessa ‘colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate’ – discende infatti che la nozione di autonoma organizzazione si definisce, come emerge dagli stralci giurisprudenziali sopra trascritti, in termini di ‘contesto organizzativo esterno’, diverso ed ulteriore rispetto al ‘mero ausilio della attività personale’ e costitutivo di un ‘quid pluris’ che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista“.

Sotto questo aspetto, prosegue la sentenza, è “necessario verificare se la prestazione lavorativa sia effettivamente idonea ad integrare, in concorso con altri fattori, ‘un contesto organizzativo esterno’ rispetto all’operato del professionista (ossia, per il suo contenuto, o anche soltanto per la sua rilevanza quantitativa, fornisca al medesimo un apporto ulteriore rispetto alla di lui personale attività), oppure costituisca un mero ausilio di tale attività, vale a dire una mera agevolazione delle relative modalità di svolgimento. Tale verifica, deve aggiungersi, deve essere condotta alla stregua del medesimo criterio già formalizzato dalla Corte con rifermento all’impiego di beni strumentali, ossia il criterio dell’eccedenza rispetto al minimo indispensabile secondo l’id quod plerumque accidit. Si tratta, cioè, di accertare, caso per caso, se l’apporto del lavoro altrui ecceda l’ausilio minimo indispensabile, secondo l’id quod plerumque accidit, per lo svolgimento di una determinate attività professionale. Tale accertamento compete al giudice di merito e si risolve in una valutazione … di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica, secondo il comune sentire, del quale, come persuasivamente sottolineato nella motivazione di Cass. n. 3677/07, proprio il giudice di merito è portatore ed interprete”.

 

Nel caso specifico, per un medico, la collaborazione di un “inserviente part-time non è sufficiente, a prescindere dal concreto contenuto qualitativo e quantitativo delle relative prestazioni, ad integrare il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, atteso che “l’automatica sottopozione ad IRAP del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente, qualsiasi sia la natura del rapporto e qualsiasi siano le mansioni esercitate, vanificherebbe l’affermazione di principio desunta dalla lettera della legge e dal testo costituzionale secondo cui il giudice deve accertare in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’IRAP divenga una (probabilmente incostituzionale) tassa sui redditi di lavoro autonomo” (Cass. Sent. n. 22024/13).

Pertanto, prosegue la sentenza con viva lucidità socio-economica, “non può affermarsi che l’apporto fornito all’attività di un professionista dall’utilizzo di ordinarie prestazioni ausiliarie (come quelle di un segretario o di un inserviente) costituisca di per se stesso, a prescindere da qualunque analisi qualitativa e quantitativa di tali prestazioni, un indice indefettibile della presenza di un’autonoma organizzazione, dovendosi al contrario ritenere che l’apporto di un collaboratore che apra la porta o risponda al telefono mentre il medico visita il paziente o l’avvocato riceve il cliente, o che tenga i ferri mentre il dentista opera, rientri, secondo l’id quod plerumque accidit, nel minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale – compete al giudice di merito apprezzare, con un giudizio di fatto censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione, se nel caso concreto, per le specifiche modalità qualitative e quantitative delle prestazioni lavorative di cui il professionista si avvale, le stesse debbano giudicarsi eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale”.

Le nostre considerazioni

Al di là della vexata quaestio se il medico convenzionato, con dipendente, è soggetto Irap (con ordinanza n. 17598/agosto 2011 la Corte di Cassazione ha sottoposto ad Irap il medico convenzionato che si è avvalso in modo non occasionale del lavoro di un’inserviente1, mentre, con la circolare n. 28/E del 28 maggio 2010, che fa seguito alle indicazioni diramate con circolare n. 45/E del 13 giugno 2008 le Entrate hanno fornito la propria interpretazione, secondo cui la stretta disponibilità dello studio attrezzato così come previsto dalla convenzione non possa essere considerata di per sè indice di esistenza dell’autonoma organizzazione per i medici di medicina generale. In altri termini, lo studio e le attrezzature previste in convenzione possono essere considerate il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività da parte del medico2, mentre l’esistenza dell’autonoma organizzazione è configurabile, ex adverso, in presenza di elementi che superano lo standard previsto dalla convenzione e che devono essere pertanto valutati volta per volta – ma la presenza di personale fa scattare l’Irap), la sentenza che si annota apre le porte a tante professioni autonome, che si avvalgono di aiuti contrattualizzati minimi, che servono comunque, più che all’organizzazione, a fornire un miglior servizio.

19 febbraio 2015

Roberto Pasquini

 

1Con ordinanza n. 24953 del 9 dicembre 2010 (ud. del 27 ottobre 2010) la Corte di Cassazione, invece, aveva salvato dall’Irap il medico convenzionato, in forza del principio che, In tema di IRAP, la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell’art. 22 dell’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, rientrando nell’ambito del minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale, ed essendo obbligatoria ai fini dell’instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sè, in assenza di personale dipendente, il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo (Cass. Ord. n. 10240/2010)”. Cioè lo stesso principio ancora una volta oggi espresso dalla Corte di Cassazione.

2 Cfr. l’ordinanza n. 23006 del 4 novembre 2011 (ud. 22 settembre 2011) della Corte di Cassazione, di cui riportiamo il passaggio saliente: “questa Corte ha già affermato (ord. n. 10240/2010) con indirizzo condivisibile, che, in tema di IRAP, la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell’art. 22 dell’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con D.P.R. n. 270 del 2000, rientrando nell’ambito del ‘minimo indispensabile’ per l’esercizio dell’attività professionale, ed essendo obbligatoria ai fini dell’instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sè, in assenza di personale dipendente, il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo”.