I costi per servizi di consulenza prestati dalla società controllante alle società del gruppo

i costi infragruppo possono generare dubbi dal punto di vista della deducibilità fiscale: analizziamo il caso particolare dei costi per servizi forniti dalla capogruppo alle altre società del gruppo

Aspetti generali

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 8.10.2014 n. 21184) si è occupata dei costi derivanti dall’acquisto di servizi di consulenza prestati da una società controllante: questa problematica può ricollegarsi alla questione più volte affrontata dalla prassi, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, dell’inerenza dei costi in un contesto plurisocietario (sia all’interno che all’esterno di gruppi formalmente esistenti).

Si osserva al riguardo che le imprese operano sempre entro la cornice di rapporti intersoggettivi che possono o meno concretarsi in forme di partecipazione al capitale o agli utili di società, ovvero in ipotesi di controllo o compartecipazione di fatto.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la società controllante aveva prestato attività di consulenza in favore della propria controllata, che avevano consentito a quest’ultima di effettuare un’operazione di acquisizione societaria.

L’amministrazione finanziaria aveva recuperato i costi a tassazione per difetto di inerenza, e questa impostazione era stata condivisa dalla CTP ma non dalla CTR.

La Cassazione è quindi intervenuta a favore dell’ufficio accertatore sottolineando che la parte avrebbe dovuto soddisfare l’onere probatorio relativamente all’inerenza dei costi e della loro coerenza economica.

La questione viene esaminata di seguito dopo qualche precisazione preliminare sul concetto di inerenza nell’ambito della fiscalità di impresa e in particolare sull’inerenza delle operazioni che coinvolgono più soggetti legati tra loro da vincoli partecipativi (o contrattuali).

Precisazioni sull’inerenza

Il concetto di inerenza è trasversale nel sistema tributario per quanto attiene alle fiscalità delle imprese, giacché l’attività di impresa viene tassata secondo criteri analitici (imposte sui redditi, IRAP) e deve essere trasparente ai fini delle imposte sui consumi (IVA), escludendo quindi quei componenti che sono strumentali rispetto alla produzione dei risultati economici e non danno quindi luogo a un arricchimento (mentre ai fini IVA sono tenuti indenni dalla tassazione attraverso lo strumento della detrazione e del rimborso).

Ai fini dell’imposizione reddituale, sulla base dell’art. 109 quinto comma del TUIR tale principio comporta che «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».

Un’interpretazione ampliativa dell’inerenza, secondo la quale il principio deve intendersi riferito all’intera attività dell’impresa anziché ai singoli beni e attività, si è affermata sia nella prassi interpretativa dell’amministrazione, sia nella giurisprudenza di legittimità, come si evince ad esempio dall’esame della sentenza della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10062 del 1° agosto 2000.

Tale pronuncia ha fatto richiamo alla prassi ministeriale – in particolare alla circolare 7.7.1983, n. 30/9/944 – la quale aveva affermato che la «spesa inerente» doveva intendersi come legata non ai ricavi dell’impresa, bensì all’attività della stessa; in tale prospettiva, era stata ammessa la deducibilità delle spese sostenute per le «attività di certificazione, anche se volontaria, dei bilanci della società madre, nonostante sia palese che detti costi non abbiano un diretto collegamento coi ricavi».

Nel caso di specie si trattava in realtà della stabile organizzazione residente di una società madre residente a Hong Kong, ma ugualmente emerge dalla pronuncia una particolare considerazione e comprensione per il riconoscimento dei costi in una prospettiva ultrasoggettiva, che ammette la possibilità di portare in deduzione anche componenti reddituali negative non direttamente correlate all’utilità del soggetto che le inserisce nella dichiarazione fiscale.

L’inerenza e il comportamento «economicamente valido»

Nell’osservazione e nella valutazione dei comportamenti imprenditoriali, l’amministrazione finanziaria ha spesso proceduto disconoscendo gli effetti fiscali di comportamenti ritenuti «non fondati» sotto il profilo economico, quando a tali comportamenti si associavano dei vantaggi fiscali comparativi rispetto a comportamenti alternativi.

Tale modus operandi (che ha ricevuto l’avallo di più pronunce giurisprudenziali di legittimità) apre alla problematica delle «valide ragioni economiche», utilizzate quale criterio-guida nell’ambito della valutazione della possibile elusività dei comportamenti dell’impresa, sia in sede di accertamento e interpello ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e art. 21, L. n. 413/1991, sia nell’ambito dell’interpello specifico incardinato nell’ottavo comma del medesimo articolo.

Si osserva al riguardo che la preannunciata risistemazione normativa della materia dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale (in attuazione della legge delega per la riforma tributaria – art. 5, L. n. 23/2014), dovrebbe certamente innovare questi aspetti: per ora, la nozione di valide ragioni economiche (VRE) rappresenta comunque il perno della normativa antielusiva.

Tale nozione viene riferita all’«apprezzabilità economico-gestionale» del comportamento, ossia alla sua fondatezza dal punto di vista del «progetto» imprenditoriale, o quanto meno nel suo non essere «antieconomico», vale a dire irragionevole (alla luce della massima di «senso comune» che dice che l’impresa è volta a produrre un utile, e non semplicemente alla sua autoconservazione).

Occorre evidenziare al riguardo che l’impresa moderna si presenta sempre più come un apparato complesso, con funzioni diversificate, il cui «bene» non è necessariamente univoco e riconoscibile, anche perché presuppone l’esistenza di un’azienda «manageriale», nell’ambito della quale i fini propri della dirigenza (o del top management) non coincidono necessariamente con quelli dell’«imprenditore». All’interno di tale ultimo soggetto (l’imprenditore) convivono poi gli amministratori, i soci, etc., con condizionamenti da parte di soggetti interni ed esterni.

Secondo la prassi del soppresso Comitato «antielusivo» e dell’amministrazione finanziaria, e in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, le «ragioni» economicamente apprezzabili ai fini della valutazione sull’eventuale carattere elusivo (o non elusivo) di un comportamento devono essere «valide», cioè dotate di una propria «necessità» non meramente giuridica, e in nessun caso possono ridursi alla ricerca della soluzione più vantaggiosa dal punto di vista tributario.

Sulla nozione di VRE si è pronunciata l’Associazione Dottori Commercialisti di Milano (ora Associazione Italiana Dottori Commercialisti – AIDC) con la Norma di comportamento n. 147, affermando quanto segue:

  • la nozione di VRE di cui all’art. 37–bis del D.P.R. n. 600 del 1973, deve essere coerente con il diritto comunitario;

  • con riferimento a dette valide ragioni economiche, il criterio del vantaggio economico direttamente perseguito nella gestione delle società interessate all’operazione (c.d. «business purpose») non può essere usato come unico criterio predeterminato per escludere automaticamente ragioni economiche fondate su differenti presupposti.

In particolare secondo quanto è stato puntualizzato dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza della del 17.7.1997, relativa al procedimento C-28/95 (sentenza «Leur–Bloem»):

  • per accertare se l’operazione presa in considerazione abbia un obiettivo elusivo le autorità nazionali non possono limitarsi ad applicare criteri predeterminati;

  • l’emanazione di una norma e, a maggior ragione, di una prassi che escludesse automaticamente e sulla base di criteri predeterminati talune categorie di operazioni dai vantaggi tributari conseguibili, risulterebbe eccessiva rispetto alla finalità di evitare l’elusione dell’obbligo fiscale;

  • le misure adottabili devono rispettare un criterio di proporzionalità rispetto alla potenzialità elusiva delle operazioni;

  • anche un’operazione mirante a configurare una determinata struttura (o ristrutturazione giuridica) per un periodo limitato, e quindi non in maniera duratura, è idonea a perseguire VRE;

  • una finalità dell’operazione che sia esclusivamente fiscale (risparmio di imposta o rimborso) non può costituire valida ragione economica.

La prova in ambito tributario

La legittimità delle attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria è strettamente legata al contenuto dell’atto impositivo o del provvedimento emesso (avviso di accertamento / rettifica, atto di irrogazione di sanzioni).

In tale contesto assume un’importanza cruciale la motivazione dell’atto.

Nel settore delle imposte sui redditi, l’obbligo di motivazione degli atti (previsto in via generale per i provvedimenti amministrativi in forza dell’art. 3 della L. 7.8.1990, n. 241) poggia sull’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973, che esige a pena di nullità una compiuta indicazione delle ragioni in fatto e in diritto del comportamento dell’amministrazione.

Analoghe prescrizioni sono stabilite in ambito IVA dall’art. 56 del D. P. R. n. 633/1972.

Secondo l’indirizzo della Cassazione, l’atto di accertamento / rettifica non deve indicare nella motivazione gli elementi probatori, essendo sufficiente che questi vengano forniti in sede processuale (Cass. 27.10.00, n. 14200).

Occorre pertanto sicuramente argomentare sotto i profili fattuale e giuridico le condizioni e i presupposti in base ai quali è stato emanato l’atto di accertamento, mentre la dimostrazione delle «evidenze» a supporto della posizione dell’ufficio può essere demandata alla successiva fase giurisdizionale.

Se l’ufficio tributario ha l’onere di dimostrare i fatti sui quali la ricostruzione si fonda, assumendo esistenti maggiori ricavi o minori costi, il contribuente deve invece dimostrare in modo preciso e circostanziato le proprie affermazioni in ordine al possesso di minori redditi ossia, nell’ambito del sistema di impresa, di minori componenti positivi e/o di maggiori componenti negativi.

Nel caso esaminato nella recente sentenza della Corte di Cassazione, come si vedrà, l’onere probatorio che doveva essere soddisfatto riguarda non tanto l’ammontare dei componenti negativi in gioco (costi per consulenze), né la loro effettività o la loro inerenza in astratto, bensì la loro inerenza in concreto. Ciò che era richiesto, infatti, era di poter stabilire che detti costi, sostenuti per acquisti effettuati da una «parte correlata» (cioè verso la società «madre»), erano effettivamente riferibili a un beneficio conseguito dalla società accertata (resistente nel ricorso per cassazione).

La questione esaminata dalla Corte

Nella sentenza qui esaminata la Corte di Cassazione esamina in sostanza i presupposti per la deducibilità dei costi collegati a una prestazione infragruppo sotto il profilo dell’inerenza. Tale prestazione consisteva nella consulenza prestata dalla società controllante che avevano consentito alla partecipata di effettuare un’operazione di acquisizione societaria, con notevole incremento del proprio volume d’affari.

In sintesi:

  • l’amministrazione aveva proceduto tramite accertamento al recupero dei costi per difetto di inerenza;

  • la CTP aveva respinto il ricorso ritenendo che l’inerenza dei costi non era stata provata;

  • la CTR aveva riformato la sentenza della CTP riconoscendo che – pur in mancanza di una dimostrazione analitica – i costi erano collegati a un beneficio per la società ricorrente;

  • la Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado, ritenendo fondati i motivi sollevati dall’Agenzia delle Entrate, ad avviso della quale le fatture contenevano un’indicazione generica – e quindi insufficiente – delle prestazioni, a fronte di un contratto assai scarno e di ulteriori elementi emersi nel corso delle verifiche fiscali.

L’orientamento espresso dalla Cassazione

In sostanza, la Cassazione ha ritenuto fondato l’argomento di ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, la quale aveva contestato la genericità dell’indicazione in fattura delle prestazioni di consulenza, in presenza di un contratto di assistenza tecnico commerciale di appena dieci righe.

I costi infatti, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, devono rispettare tra gli altri requisiti il canone dell’inerenza: deve cioè trattarsi «di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa» (cfr. Cass. n. 6650/2006)

Secondo questo principio, che nel reddito d’impresa associa i costi ai ricavi, non è richiesta «la connessione comprovata per ogni molecola di costo quale partita negativa della produzione, essendo sufficiente la semplice (…) contrapposizione economica teorica (cioè, la cosiddetta latenza probabile degli stessi), avuto riguardo alla tipologia organizzativa del soggetto, che genera quindi partite passive deducibili se i costi riguardano l’area o il comparto di attività destinati, anche in futuro, a produrre partite di reddito imponibile. L’inerenza è quindi una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica, un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito bensì in virtù della sua correlazione con una attività potenzialmente idonea a produrre utili» (cfr. Cass. n. 12168/2009).

La prova dell’esistenza e dell’inerenza delle componenti negative del reddito spetta però al contribuente (cfr. Cass. n. 1709/2007) e in particolare per provare l’inerenza non è sufficiente «che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa» (cfr. Cass. n. 4570/2001).

Né potrebbe essere diversamente, si ritiene, dato che l’accertamento serve appunto a verificare se in concreto hanno avuto luogo quelle operazioni e quei comportamenti che stanno a monte rispetto sia al fatto dichiarativo (la deduzione del costo), sia alla rilevazione contabile.

Su tale base la corte che contestato l’affermazione della CTR, secondo la quale pur in mancanza di una puntuale descrizione delle concrete attività fatturate (tale da consentire all’ufficio fiscale la verifica analitica dei costi dedotti dalla società), la capogruppo aveva svolto a beneficio della controllata un’attività di consulenza rispetto alla quale l’inerenza poteva ritenersi provata.

Tale affermazione a detta della Cassazione si poneva «in aperto contrasto con il delineato quadro di riferimento che, in considerazione dell’onere probatorio cui è nella specie chiamata la parte, esige che la prova dei costi deducibili non solo sia opportunamente documentata, in modo tale che dalla documentazione relativa si possa ricavare “l’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o servizio stesso” (n. 16853/2013) rispetto all’attività da cui derivano i ricavi o gli altri proventi che concorrono a formare il reddito di impresa; ma occorre pure che sia dimostrata “la coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa, ove sia contestata dall’Amministrazione finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, in difetto di tale prova essendo perciò legittima la negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (n. 7701/2013)».

In tale prospettiva non solamente non veniva soddisfatto l’onere probatorio (violando quindi il principio di inerenza), ma anzi aveva luogo «un’oggettiva forzatura del quadro fattuale, atteso che l’inerenza è stata riconosciuta ad onta delle motivate contestazioni fatte valere dall’amministrazione in relazione alla genericità della descrizione della prestazione recata dalla fattura (“con la presente vi rimettiamo fattura per consulenza tecnico-commerciale relativa al mese (…)”), alla laconicità del contratto regolante il rapporto (“l’unico documento che è stato consegnato (…) è un contratto di assistenza tecnico-commerciale di appena 10 righe”) e all’ingente ammontare del costo portato in deduzione (euro 408090,92), e, se si vuole, pure delle riserve di cui in proposito non fanno mistero gli stessi giudici di appello (“(…) anche se la mancata descrizione delle concrete attività fatturate non consente all’ufficio la verifica analitica dei costi supportati dalla società rispetto all’attività di impresa (…))».

Sulla base di tali motivazioni la sentenza della CTR è stata cassata con decisione nel merito favorevole all’amministrazione finanziaria.

Considerazioni di sintesi

Sulla base delle argomentazioni fin qui presentate, e dell’analisi della recente sentenza della Corte di Cassazione, sembra di poter affermare che:

  • l’inerenza dei componenti reddituali negativi va riferita alla complessiva attività di impresa e non solamente ai ricavi cui i costi siano direttamente correlati;

  • quanto alla possibilità di riferire i componenti reddituali deducibili a un beneficio che non sia direttamente riferito al «business purpose» dell’impresa dichiarante, bensì ad altri soggetti in un contesto di gruppo formale o informale, è necessario verificare caso per caso il nesso esistente per stabilire se l’inerenza ricorra in concreto;

  • i concetti di inerenza (ai fini del riconoscimento dei costi nell’imposizione reddituale e della detrazione dell’IVA a credito) e di «valide ragioni economiche» (ai fini del riconoscimento del carattere non elusivo dell’operazione prospettata o posta in essere dai contribuenti) rappresentino due espressioni del medesimo principio: da un lato, infatti, è il «costo» o la «spesa» a doversi giustificare in ragione della sua utilità rispetto alla produzione di utili/redditi (o nella prospettiva dell’effettuazione di operazioni imponibili); dall’altro, è l’intero comportamento attuato a doversi giustificare secondo «apprezzabili» ragioni economico-gestionali (cioè nella prospettiva della conduzione razionale dell’attività d’impresa, secondo una logica orientata alla produzione di «profitti», o per lo meno alla remunerazione dei fattori produttivi);

  • in casi come quello esaminato dalla Corte nella sentenza sopra riportata, più che un problema di inerenza in senso lato sussiste un problema di tipo probatorio: occorre cioè che l’impresa «deducente» sia in grado di dimostrare in modo incontrovertibile (producendo idonei riscontri documentali) che i componenti negativi (nel caso di specie i costi per consulenze) sono riferibili a un vantaggio concretamente ottenuto.

In definitiva: la decisione della Corte di Cassazione non pregiudica la possibilità da parte di un’impresa societaria di far valere fiscalmente, nella determinazione del reddito di impresa, un costo collegato all’acquisto di una prestazione di consulenza da parte di una società a essa legata da rapporti partecipativi.

Si osserva peraltro che la mancata deduzione di tale costo è suscettibile di dar luogo a un fenomeno di doppia imposizione economica, in quanto la corresponsione del pagamento per le prestazioni di consulenza costituisce ricavo per la società controllante.

Sussiste tuttavia il rischio di «arbitraggio» (la controllante potrebbe essere una società in perdita e quindi al costo dedotto dalla controllata – produttivo di un minor reddito imponibile IRES – non corrisponderebbe alcun maggior carico impositivo in capo alla «madre»), e comunque l’inerenza del costo deve essere provata in modo credibile.

Il che, trattandosi di attività di generica «consulenza», non era avvenuto nel caso di specie.

23 febbraio 2015

Fabio Carrirolo