Società a ristretta base proprietaria e accertamento a carico del socio

nel giudizio contro l’avviso di accertamento del socio di società di capitali a base familiare, con il quale si accerta il maggior reddito derivante dalla presunta distribuzione occulta degli utili extrabilancio, sono precluse eccezioni attinenti l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e definito mediante atto di adesione e la ristretta base azionaria rende meramente consequenziale, rispetto all’accertamento societario, e quindi legittimo, l’accertamento a carico del socio che non abbia dato alcuna prova contraria circa la destinazione degli utili accertati alla società

Nel giudizio avverso l’avviso di accertamento del socio di società di capitali a base familiare, con il quale si accerta il maggior reddito derivante dalla presunta distribuzione occulta degli utili extrabilancio, sono precluse eccezioni attinenti l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e definito mediante atto di adesione, e la ristretta base azionaria rende meramente consequenziale, rispetto all’accertamento societario, e quindi legittimo, l’accertamento a carico del socio che non abbia dato alcuna prova contraria circa la destinazione degli utili accertati alla società.

Il ricorso avverso l’atto impositivo notificato al socio di una società a ristretta compagine sociale è dunque pregiudicato dall’esito dell’accertamento con cui l’Amministrazione Finanziaria ha determinato il maggior reddito in capo alla società, per poi ribaltarlo pro quota sul socio.

Lo ha stabilito la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze con la sentenza n. 1329 depositata il 10/11/2014.

La fattispecie riguardava l’impugnazione da parte del socio di maggioranza di una società di capitali a base familiare (la compagine sociale era costituita dal ricorrente per il 90% e dal coniuge per il restante 10%), dell’avviso di accertamento emesso a suo carico in conseguenza della rettifica del reddito della società.

Trattandosi di società di capitali a ristretta base azionaria, l’ufficio aveva ritenuto operante la presunzione della distribuzione occulta degli utili extrabilancio, in forza del consolidato orientamento del giudice di legittimità secondo il quale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è legittima la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria (nella specie, quattro soci), con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (ex multis Cass. n. 10270/2011), e sulla base di ciò aveva accertato un maggior reddito di capitali in capo al socio di maggioranza e rappresentante legale dell’ente.

Quest’ultimo, successivamente alla notifica degli avvisi di accertamento, aveva proposto istanza di adesione sia con riferimento alla posizione della società sia con riferimento alla propria posizione personale.

Tuttavia, egli aveva, da un lato, accettato la definizione mediante adesione dei rilievi contenuti nell’avviso di accertamento della società, definizione che aveva peraltro condotto ad un azzeramento della base imponibile Ires ed Irap a causa delle perdite dichiarate generando solo un recupero ai fini Iva, e dall’altro aveva contestato i medesimi rilievi nel momento in cui l’adesione aveva inevitabilmente riversato i suoi effetti sulla propria personale posizione ai fini della tassazione Irpef, non perfezionando l’adesione con l’Ufficio sul proprio personale avviso di accertamento e impugnando l’atto impositivo al fine di vederlo annullato.

In giudizio l’ufficio, alle deduzioni contenute nel ricorso, tutte inerenti il merito dell’avviso di accertamento emesso a carico della società, opponeva che si trattava di eccezioni allo stato precluse dal perfezionamento del predetto atto di adesione, in forza del quale si presumevano distribuiti al socio ricorrente, salvo prova contraria, gli utili extracontabili nell’ammontare definitivamente accertato.

Sarebbe stato poi onere del ricorrente provare che gli utili extracontabili accertati e definiti in capo alla società avevano avuto una destinazione diversa dalla distribuzione ai soci.

Onere del socio sarebbe stato dunque quello di allegare fatti e circostanze che escludessero la distribuzione di utili, ovvero attestassero l’accantonamento od il reinvestimento degli stessi (ex multis Cass. n. 3972/2009).

La ristretta compagine sociale costituiva infatti già da sé, secondo l’ufficio, presunzione iuris tantum della distribuzione degli utili non contabilizzati, con onere della prova contraria a carico dello stesso socio. E ciò in quanto lo scarso numero dei soci si convertiva nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell’onere per il socio di conoscere tali affari; il socio poteva però fornire la prova dei fatti impeditivi dell’attribuibilità (ex multis Cass. n. 26428/2010).

Nessuna prova in tal senso era tuttavia stata fornita dal ricorrente.

Un esame del ricorso mostrava infatti come esso contenesse tutti rilievi attinenti il merito dell’avviso di accertamento emesso a carico della società.

Ciò che il ricorrente aveva inteso provare non era allora, come richiesto dalla giurisprudenza richiamata, la circostanza che gli utili non fossero stati distribuiti, o che fossero stati reinvestiti o accantonati, bensì la diversa circostanza che la società non avesse in realtà realizzato i ricavi ‘in nero‘ contestati ed accertati in via definitiva, e per far ciò si era inteso rimettere in discussione tutti gli argomenti attinenti i recuperi effettuati in capo alla società.

Così facendo tuttavia il ricorrente, oltre a formulare eccezioni che gli erano precluse, aveva omesso di fornire la prova contraria che sola lo avrebbe potuto mandare esente da responsabilità.

Nella fattispecie, infatti, analogamente a quanto accade nell’ipotesi disciplinata dall’art. 5 del Tuir per le società di persone, al socio erano stati imputati pro quota gli utili extrabilancio definiti in capo alla società, e pertanto l’accertamento emesso in capo a tale soggetto era una mera conseguenza dell’avviso di accertamento dell’ente, ed era unicamente l’accertamento societario che determinava il quantum accertabile in capo al socio, salvo il caso, che non ricorreva nella fattispecie, in cui quest’ultimo avesse fatto valere proprie situazioni personali in grado di incidere sull’accertamento emesso a suo carico.

Non si trattava, dunque, di valutare la singola posizione debitoria del socio ricorrente, bensì di valutare tale posizione debitoria in relazione alla posizione presupposta, e vincolante, della società, la quale non era più contestabile nè nell’an né nel quantuum, essendo stato, comedetto, il relativo accertamento definito mediante atto di adesione, in termini evidentemente irretrattabili e definitivi.

Ne derivava l’inammissibilità della richiesta, formulata dal ricorrente, di annullamento dell’avviso di accertamento emesso a suo carico, la quale non avrebbe potuto essere accolta se non affermando l’infondatezza di un atto impositivo presupposto che era ormai divenuto definitivo.

Oggetto della prova contraria avrebbero in definitiva dovuto essere, secondo l’ufficio, diversamente dalle allegazioni del ricorrente tutte tendenti a dimostrare che la società non aveva in realtà realizzato gli utili extrabilancio della cui distribuzione si discuteva, unicamente fatti impeditivi dell’attribuibilità al socio di detti utili, prova che nella fattispecie non era stata fornita.

Di qui la legittimità dell’accertamento del socio riconosciuta dal Collegio giudicante con la pronuncia in commento, per mera consequenzialità rispetto all’accertamento societario definitivo. Preso atto che il ricorrente si limitava a ripercorrere questioni attinenti all’accertamento alla società, accertamento ormai definito, il Collegio ha infatti ritenuto evidente che la ristretta base azionaria e rendeva consequenziale l’accertamento a carico dei soci che non avevano dato alcuna prova contraria circa la destinazione degli utili accertati alla società.

La pronuncia è del resto conforme ad una recente decisione della Suprema Corte ed in particolare alla sentenza n. 441 del 10/01/2013, relativa ad una fattispecie in cui l’accertamento societario, non notificato al socio ricorrente, si era definito per mancata impugnazione.

La Suprema Corte, nel ribadire la legittimità della presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non fossero stati fatti oggetto di distribuzione, ma fossero stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, ne ha fatto conseguire che, ove (come nella specie) il reddito nei confronti della società risulti accertato in maniera definitiva, il giudizio nei confronti del socio, per quanto attiene all’esistenza degli utili extracontabili realizzati dalla società, è pregiudicato dall’esito dell’accertamento effettuato nei confronti della società stessa, ed ha perciò rigettato il ricorso del contribuente col quale egli lamentava l’omessa considerazione da parte della CTR dei presunti vizi di merito attinenti l’accertamento emesso a carico della società.

Per quanto riguarda in conclusione la presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati dalla società, come ribadito ormai in via consolidata dalla Corte Suprema, “nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale deve ritenersi legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, non ricorrendo il divieto di presunzione di secondo grado in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale” (sentenza n. 18640 del 08.07.2008).

La correttezza logico giuridica di tale criterio d’imputazione ai soci degli utili extracontabili è stata del resto ripetutamente riconosciuta sulla considerazione della “complicità” che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale (v. tra le tante Cass. n. 941/86, n. 5129/95, n. 2390/2000, n. 2606/2000, n. 3254/2000, n. 1234/2000, nonché Cass. n. 4695/2002).

I ricavi non contabilizzati, non entrati nelle casse sociali, sono infatti naturalmente considerati distribuiti ai soci in quanto tali (uti soci), quindi senza nessun altro titolo giuridico che la qualità rivestita.

E’ dunque in questi casi legittimo presumere che le somme corrispondenti al risultato dell’esercizio economico sono entrate nella disponibilità dei soci.

Gli elementi che consentono il recupero sono infatti costituiti dalla differenza tra l’accertato ed il dichiarato (somma da distribuire), il fatto che tale somma non è stata impiegata all’interno dell’impresa, la natura e la funzione pratica delle poste recuperate, il carattere ristretto della compagine sociale e infine la causa tipica del contratto di società (divisione degli utili derivanti dall’attività sociale).

Ancora, tale impostazione rileva a ben vedere anche sotto il profilo delle corrispondenti ritenute a carico della società.

Come infatti concluso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10982 del 14 maggio 2007 “costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale opera la presunzione iuris tantum relativamente alla distribuzione pro quota degli utili extracontabili ai soci di una società di capitali caratterizzata da ristretta compagine partecipativa. Conseguentemente, grava sul soggetto societario l’obbligo di applicare la ritenuta ex art. 27 del D.P.R. n. 600/1973” (vedi anche la sentenza della Corte n. 25689 del 4 dicembre 2006).

Ai sensi di quanto disposto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27, comma 1, infatti, gli utili distribuiti dalle società per azioni e in accomandita per azioni e dalle società, anche cooperative, a responsabilità limitata, comprese quelle di mutua assicurazione, sono soggetti a una ritenuta a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche dovute dai soci.

A tal proposito la sentenza n. 6456 del 6 maggio 2002 della Corte di Cassazione ha dunque ricordato la circostanza che, in tema di accertamento sui redditi di società per azioni, le somme prelevate dai soci amministratori su conti correnti ad essi intestati, sui quali siano transitate operazioni riconducibili alla gestione delle società, devono essere inquadrate come utili extra-bilancio distribuiti e quindi come redditi di capitale.

Né si può del resto ritenere che tali utili, una volta accertati in capo alla società e dunque soggetti, “di forza”, a ritenuta, non debbano essere poi ripresi a tassazione in capo al socio, in quanto la ritenuta sarebbe, per sua natura, a titolo di imposta.

Infatti tale conclusione, ammettendo che comunque non ci sia stata alcuna delibera di distribuzione e che gli stessi utili, in nero, non siano stati indicati in bilancio, sarebbe intrinsecamente contraddittoria, laddove faccia rivivere i meccanismi, violati, della ritenuta e della sostituzione di imposta.

Una distribuzione di utili senza delibera comporta infatti un’omissione che nasconde anche un altro aspetto “sostanzialmente” illecito, quale appunto l’evasione, a monte, della società.

La quota attribuita in via di accertamento al socio non può dunque essere considerata al netto delle imposte che la società è tenuta a pagare (o ha magari pagato in caso di adesione o conciliazione), in quanto, trattandosi di ricavi extracontabili, almeno in riferimento a quelle poste, non sussiste più alcun vincolo di bilancio (e quindi fiscale) tra socio e società e i relativi procedimenti sono nettamente separati ed autonomi.

Pertanto, una volta accertato il conseguimento di redditi occulti, conseguono sia la presunzione di distribuzione degli utili ai soci, con relativa tassazione nel reddito complessivo, che l’accertamento delle maggiori ritenute e delle relative sanzioni in capo alla società.

Infine si sottolinea come anche l’eventuale riferimento all’art. 14 della L. 537/93 sia in questi casi corretto.

L’eventuale illiceità, sotto il profilo giuridico, dell’attività produttiva non dichiarata non esclude infatti la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

Chi trae proventi dall’attività illecita, come anche, si ricorda, deve essere considerata l’evasione fiscale, realizza infatti, comunque, una ricchezza, che costituisce appunto la causa del pagamento di un tributo.

Se dunque è vero che la dichiarazione fraudolenta mediante artifici è un reato (ex art. 3 del Dlgs 74/2000), oltre che, evidentemente, un illecito amministrativo e se è vero che, grazie a tale dichiarazione fraudolenta, il contribuente ha ottenuto i dividendi non sottoposti a tassazione, a prescindere dalle specifiche responsabilità penali del ricorrente (e considerate comunque quelle amministrative), è chiaro che si sta parlando di proventi illeciti, laddove appunto l’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993 (le cui previsioni sono state anzi oggi estese con l’articolo 36, comma 34-bis, del Dl 223/2006), fin dalla sua prima emanazione recitava che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria“.

16 gennaio 2015

Giovambattista Palumbo

Francesca Dominici