Verifiche fiscali e documentazione rinvenuta in locali diversi da quelli destinati all’esercizio di attività

sono valide nel processo tributario le prove raccolte dai verificatori al di là dei limiti di legge? In particolare i documenti raccolti senza la necessaria autorizzazione del PM? Un corposo approfondimento.

La Corte di Cassazione, nella sentenza 17 ottobre 2014, n. 22022, ha ritenuto illegittimamente acquisita, e quindi inutilizzabile, la documentazione rinvenuta in sede di perquisizione, in locali diversi da quelli destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, che poteva essere effettuata solo in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie e previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

La sentenza di Cassazione n. 22022/2014

La Corte prende le mosse dal dettato normativo di riferimento, secondo cui

“l’art. 52 del dpr 633/1972 (relativo all’IVA, ma applicabile anche alle imposte dirette in base al richiamo contenuto nell’art. 33, comma 1, dpr 600/73), nel regolamentare le modalità di accessi, ispezioni e verifiche da parte dell’Amministrazione Finanziaria, prevede tre diverse ipotesi a seconda delle caratteristiche dei locali ove devono essere effettuati detti accessi, ispezioni e verifiche; in particolare: 1) I locali aziendali (e cioè destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali), per i quali è sufficiente l’autorizzazione del capo dell’Ufficio finanziario; i locali aziendali ma destinati anche ad abitazione, per i quali è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica; i locali non aziendali (cioè non destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali), per i quali è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica e la sussistenza di gravi indizi di violazioni delle norme di cui al decreto”.

 

Osserva la Corte che,

“nel caso di specie, la CTR, con accertamento in fatto non suscettibile di ulteriore valutazione da parte di questa Corte, ha affermato che la documentazione extracontabile in questione è stata rinvenuta in locale non destinato all’esercizio di attività sociale; tanto è sufficiente, alla stregua dei principi di cui sopra, per ritenere necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica (mancante nella fattispecie) e per affermare quindi l’illegittimità dell’accesso e l’inutilizzabilità della detta documentazione; irrilevanti appaiono, di conseguenza, le altre circostanze dedotte da parte ricorrente (“natura” del locale,  “titolo” del possesso o della detenzione di detto locale, motivo del rinvenimento in quest’ultimo di contabilità parallela”.

 

La questione: l’irrituale acquisizione degli elementi probatori

ispezioni domiciliari per verifiche fiscaliI pronunciamenti della Corte di Cassazione in tema di irrituale acquisizione degli elementi probatori (cosiddette “prove illecite1) continuano a rendere viva e di attualità una importante tematica che sembrava posta in soffitta dagli studiosi.

La Suprema Corte è stata chiamata più volte ad occuparsi della delicata questione che investe aspetti precisi e particolari dell’attività di verifica, pur se l’atto che acquista rilevanza esterna è l’avviso di accertamento ( eventuali vizi del processo verbale, che l’ha preceduto e su cui esso si fonda, possono essere fatti valere in sede di ricorso giurisdizionale contro l’accertamento).

 

“Tale prospettiva, comunemente nota come teoria dell’invalidità derivata, permette al contribuente di far valere i comportamenti posti in essere dai funzionari incaricati dei controlli fiscali, ritenuti illegittimi …attraverso l’impugnazione dell’avviso di accertamento…fondato sulle risultanze probatorie acquisite in occasione o a seguito del controllo asseritamente viziato, escludendosi comunque la possibilità di una reazione immediata avverso l’atto conclusivo dell’attività istruttoria, sia perché, in quanto preparatorio, non idoneo ad incidere in via autonoma e diretta sulla sfera giuridica del soggetto controllato, sia perché il sistema del contenzioso tributario ne esclude l’impugnabilità”2.

 

La posizione della giurisprudenza di Cassazione

Indichiamo ed analizziamo le sentenze più interessanti emesse dalla Suprema Corte di Cassazione nel corso degli ultimi anni.

La sentenza n.15209/2001

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Con la sentenza n. 15209 del 30.11.2000 (depositata il 29.11.2001) la Corte di Cassazione ha ritenuto che, dall’interpretazione dell’art. 52, comma 1, del D.P.R. n. 633/72, ne discende un intervento preventivo per iscritto dell’autorità che deve disporre l’accesso, essendo eccezionali le ipotesi in cui l’amministrazione agisce all’esterno con atti meramente verbali.

Pertanto, la documentazione, acquisita a seguito di autorizzazione verbale all’accesso nei locali dell’impresa, è inutilizzabile, e, conseguentemente, è nullo l’avviso di accertamento che su di essa si fonda.

Nella specie, oggetto della controversia sono degli avvisi di rettifica Iva, i cui accertamenti si fondavano su documentazione acquisita su autorizzazione verbale all’accesso nel locali dell’impresa da parte della Guardia di Finanza.

La Corte, acclarato che il giudice tributario ha accertato che la Guardia di Finanza ha proceduto all’accesso senza disporre di una previa autorizzazione scritta del proprio comando, ritiene che dalla lettura delle disposizioni che regolano l’accesso,

“non sembra sussista alcun dubbio che esso prescriva un intervento preventivo della Autorità che deve disporre l’accesso (non si vede come possa sussistere una disposizione successiva al fatto); ed altrettanto ovvio che tale disposizione debba essere data per iscritto essendo eccezionali le ipotesi in cui la Amministrazione agisce, con rilevanza verso terzi, con atti meramente verbali. Si tratta poi di ipotesi in cui il ricorso all’atto scritto è reso impossibile da situazioni di fatto o di assoluta urgenza (si pensi agli ordini emanati dal responsabile dell’ordine pubblico). Non vi è invece alcuna ragione pratica che possa consentire il ricorso nella materia qui in esame a disposizioni verbali, mentre la forma scritta è imposta proprio dalla esigenza per il contribuente che ha diritto di assistere all’accesso di verificare che esso si svolga nell’ambito della legge”.

 

L’Avvocatura dello Stato, a difesa dell’Amministrazione finanziaria, sostiene che il principio della inutilizzabilità della prova irregolarmente acquisita sarebbe proprio esclusivamente del processo penale, e non del tributario.

Tale tesi non convince gli estensori della sentenza, in quanto si porrebbe in contrasto con il dettato dell’art. 24 della Costituzionale.

 

La sentenza n. 15230/2001

Con la sentenza n. 15230 del 2.7.2001, depositata il 3.12.2001, la Sezione tributaria della Suprema Corte ha statuito che il decreto del Procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente previsto dagli artt. 52, c. 2, del D.P.R. n. 633/1972 e 33, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973,

“è un atto che, inserendosi in un tipico procedimento amministrativo, attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo notificando al contribuente l’avviso di accertamento, partecipa direttamente della natura amministrativa del procedimento considerato, nel quale si inserisce, condizionandone la legittimità ed è, perciò, sindacabile dal giudice civile e da quello tributario, e deve essere motivato, ancorché tale motivazione possa essere concisa ed esaurirsi anche nel semplice richiamo alla nota della P.A. contenente la richiesta della relativa adozione, facendo riferimento agli indizi di violazione della norma tributaria che tale richiesta giustificano. Il richiamo all’esistenza di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di violazioni tributarie non integra, da solo, effettiva, sufficiente e congrua motivazione dell’autorizzazione di cui agli artt. 52, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e 33, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 rendendola illegittima; conseguentemente gli avvisi di accertamento e di rettifica motivati con riferimento a dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria a seguito di accessi nell’abitazione del contribuente non legittimamente autorizzati, sono invalidi ed insuscettibili di produrre effetti”.

 

L’autorizzazione del Procuratore della Repubblica

“deve, imprescindibilmente, essere motivata, ancorché la relativa motivazione possa essere concisa ed esaurirsi anche nel semplice richiamo alla nota della parte avversa contenente la richiesta della relativa adozione, facendo riferimento ad indizi di violazione della norma tributaria che tale richiesta giustificano”,

con la naturale conseguenza che

l’assenza, l’abnormità, l’insufficienza e l’incongruenza della motivazione addotta per supportarlo … si riflettono, escludendola, sulla legittimità dell’atto in argomento e comportano, perciò, il potere-dovere del giudice tributario che le rilevi di dichiarare l’invalidità, dedotta, dell’atto medesimo e, derivatamente, dell’intero procedimento di accertamento basato su prove acquisite a seguito della relativa esecuzione, atteso che attività compiute illegittimamente ed in ingiustificata violazione del diritto, costituzionalmente garantito, alla inviolabilità del domicilio non possono essere assunte a basamento di atti impositivi a carico di chi quelle attività illegittime abbia, suo malgrado subito”.

 

Secondo i Massimi Giudici, con specifico riguardo alla situazione controversa,

“posto che la ridetta autorizzazione è rilasciabile soltanto nel caso di gravi indizi che possano giustificare l’adozione del considerato mezzo di ricerca di prove di, presunte, evasioni fiscali, nella sicura totale inettitudine indiziante delle notizie anonime, pertanto incontrollabili, è da escludere che il richiamo alla esistenza di tali notizie possa, da solo, costituire valida motivazione del provvedimento autorizzativo”.

 

In ordine all’assenza di sanzioni prevista dall’ordinamento tributario in ordine all’inutilizzabilità delle prove acquisite nel corso dell’ispezione, ancorché illegittimamente autorizzata, la Corte riafferma il principio giurisprudenziale secondo cui

“gli avvisi di accertamento e di rettifica motivati con riferimento a dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria a seguito di accessi nell’abitazione dei contribuenti non, o illegittimamente, autorizzati dal Procuratore della Repubblica, sono invalidi ed insuscettibili di produrre effetti, atteso che attività compiute in dispregio del fondamentale diritto all’inviolabilità del domicilio non possono essere assunte, di per sé, a giustificazione ed a fondamento di atti impositivi a carico dei soggetti che quelle attività illegittime hanno dovuto subire: dovendosi soggiungere, al riguardo, che costituisce principio generale immanente al vigente sistema giusprocessualistico quello per il quale il giudice, prima di utilizzare ai fini della decisione una qualsiasi emergenza probatoria, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, restando tenuto a non porre a base della sua pronuncia prove che riscontri indebitamente raccolte”.

 

La sentenza n. 8344/2001

Con la sentenza n. 8344 del 10.04.2001 (depositata il 19.06.2001), la Corte di Cassazione ha affermato che nel procedimento tributario,

“salvi i casi espressamente previsti, rileva esclusivamente l’attendibilità delle prove e non i modi in cui sono state acquisite, talché, ove l’acquisizione non sia conforme alle regole all’uopo previste, tale irregolarità non determina l’inutilizzabilità delle prove stesse in quanto, per un verso, l’inutilizzabilità è categoria giuridica valida solo per il processo penale e, per l’altro, non è giusto che la negligenza di chi ha acquisito le prove ricada sull’Amministrazione finanziaria a fronte di una prova oggettivamente valida”.

Secondo la Suprema Corte,

“correttamente i giudici di appello hanno rilevato che se, come nella specie, la Guardia di finanza nel corso di una perquisizione di carattere penale rinviene documentazione utilizzabile nel procedimento tributario, la validità della acquisizione di tale documentazione, in quanto utilizzata nell’accertamento tributario, va giudicata sulla base delle norme disciplinanti i modi di tale accertamento e non di quelle che disciplinano il procedimento penale. Non può, dunque, trarsi argomento dal mancato rispetto delle norme di procedura penale riguardanti l’intervento del difensore nel corso della perquisizione per sostenere la nullità dell’accertamento tributario perché tale intervento non è previsto dagli artt. 52 e ss. del D.P.R. n. 633/1972, che disciplinano le modalità dell’accesso nei luoghi di abitazione da parte della Polizia tributaria: l’autonomia dei due procedimenti consente l’esistenza di una situazione per cui una nullità afferente un atto del procedimento penale non ha rilievo nel procedimento tributario”.

 

Inoltre, a parere del massimo organo di giustizia, il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni può e deve essere effettuato sulla scorta di qualsiasi documento e scrittura rilevante ai fini della contabilità, utilizzando, ai fini dell’accertamento, gli “atti e documenti in suo possesso”, e la Guardia di finanza, fatta salva l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente

“utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie acquisti, direttamente ed ottenuti dalla altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria”.

Gli organi di verifica, civili e militari, possono, dunque,

“utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione dalla natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico. La violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti”.

La sentenza a SS.UU. n. 16424/2002

Dopo diverse sentenze che hanno affermato la non applicabilità dei principi penalistici sulla inutilizzabilità delle prove irregolarmente acquisite, è intervenuta nuovamente la Corte di Cassazione, questa volta a Sezioni Unite – sentenza n. 16424 del 17.10.2002, depositata il 21.11.2002 – tornando ad una interpretazione della norma più rigorosa, affermando che l’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie costituisce un provvedimento amministrativo, inserito nel procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dagli organi di controllo siano consistenti ed idonei ad integrare gravi indizi. Da tale natura dell’autorizzazione discende – anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione trova base logica nell’art. 14 della Costituzione che tutela l’inviolabilità del domicilio – che il giudice tributario può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del Pubblico Ministero e la presenza in esso degli indispensabili requisiti della gravità degli indizi.

Il giudice tributario, infatti, ha il potere – dovere di verificare la presenza, nel decreto autorizzativo, di una motivazione, sia pure concisa o per relationem, e di constatare la presenza di gravi indizi di illecito fiscale, nonché di controllare che si sia fatto riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisca valenza indiziaria, negando l’autorizzazione nei casi in cui gli indizi si fondino esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime.

A sostegno del principio, che è in linea con l’indirizzo già espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza 8.8.1990, n. 8062 (poi univocamente condiviso dalla successiva giurisprudenza di legittimità), la Corte di Cassazione, riunita a Sezioni Unite, osserva che

“il provvedimento in discorso appartiene ad un procedimento amministrativo e necessariamente ne assume la natura; che il provvedimento stesso, prodromico all’accertamento ed alla connessa pretesa impositiva, incide sui diritti del contribuente, di modo che deve essere controllabile, quanto alla rispondenza formale e sostanziale al paradigma legale, dal giudice preposto alla tutela di quei diritti; che l’autorizzazione dell’accesso nell’abitazione trova base solo nelle disposizioni dell’art. 14 della Costituzione, secondo cui la perquisizione è eccezione al canone dell’inviolabilità del domicilio da fissarsi con espressa disposizione di legge, e, quindi, non può non avere quel minimum di contenuto indispensabile per il riscontro delle condizioni poste dalla norma che prevede l’eccezione medesima sia pure attraverso espressioni succinte o di significato implicito (in coerenza con la sua veste e con le caratteristiche di celerità e segretezza proprie della fase in cui è adottata)”.

La Corte ricorda che soluzioni divergenti ha ricevuto, invece,

il quesito dell’estensione o meno del sindacato del giudice tributario alla legittimità dei criteri seguiti dal procuratore della Repubblica per l’apprezzamento affermativo dell’attitudine degli elementi addotti dall’ufficio tributario (o dalla polizia tributaria) a tradursi in gravi indizi di violazione fiscale, nonché l’ulteriore quesito, influente in caso di risposta positiva, a quello precedente, della qualificabilità come indizio della notizia fornita (a voce, per telefono o per iscritto) da fonte confidenziale non identificata”:

con le sentenze 3.12.2001, n. 15230, e 17.12.2001, n. 15913, la Corte ha ritenuto che il giudice deve rilevare l’invalidità del provvedimento autorizzativo, e l’invalidità derivata dell’avviso di accertamento, non solo quando il provvedimento stesso difetti di motivazione, ma anche quando offra una motivazione incongrua; con la sentenza 1.2.2002, n. 1344, sempre la Cassazione ha affermato che

l’apprezzamento può avvalersi anche di fonti confidenziali rimaste coperte … e il giudice del rapporto tributano non può negare validità ed efficacia all’autorizzazione sostituendosi al procuratore della Repubblica nel vagliare l’attendibilità di quelle fonti”.

La Cassazione risolve il contrasto giurisprudenziale aderendo al primo dei riportati indirizzi, enunciando il principio secondo cui il giudice tributario ha

“il potere – dovere, oltre che di verificare la presenza nel decreto autorizzativo di motivazione (sia pure concisa, o per relationem mediante recepimento del rilievi dell’organo richiedente), circa il concorso di gravi indizi dei verificarsi dell’illecito fiscale, anche di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento, nel senso che faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisca valenza indiziaria, e, nell’esercizio di tale compito, deve negare la legittimità dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, consequenzialmente valutando il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove”.

 

Mentre l’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, con il comma 1, relativamente all’accesso nel locali adibiti all’esercizio di attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero ad uso promiscuo, si limita a richiedere, rispettivamente nei due casi, l’autorizzazione del capo dell’ufficio e del Procuratore della Repubblica, senza però fissarne presupposti, con il comma 2 del sopradetto art. 52, relativo all’accesso in locali diversi da quelli indicati nel comma 1, cioè in locali ad uso esclusivamente abitativo, richiede invece non solo l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ma anche la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, e,

“pertanto, esige un quid pluris, rispetto alle situazioni disciplinate dal comma precedente, conferendo all’autorizzazione medesima la portata di provvedimento valutativo della ricorrenza nella concreta vicenda di specifici presupposti giustificativi dell’ingresso nell’abitazione (non di semplice nulla – osta da parte di un organo superiore)”, così che “i gravi indizi di violazione tributaria, nelle ipotesi contemplate dal co. 2 dell’art. 52, costituiscono dunque requisito dell’autorizzazione della perquisizione domiciliare, direttamente fissato dalla legge”.

 

Acclarato ciò, la Corte pone l’attenzione sulla legittimità del provvedimento che ravvisi indizi (e poi li valuti gravi) in notizie anonime, provenienti da persone non identificate.

In merito, i giudici chiamati a decidere danno subito una risposta negativa, fondando tale assunto sugli agli artt. 2727 e seguenti del codice civile, ove contemplano la prova per presunzioni, purché gravi, precise e concordanti:

“l’indizio non è prova, nemmeno presuntiva, in quanto si esaurisce nella cognizione di un accadimento diverso da quello da dimostrare, in sé non sufficiente per desumere il verificarsi di tale fatto da dimostrare secondo parametri di rilevante probabilità logica (id quod plerumque accidit). Più indizi possono però divenire componenti o tasselli di prova presuntiva, quando i fatti diversi cui si riferiscono presentino consistenza e modalità tali da giustificare detta valutazione di rilevante probabilità.La notizia (verbale o scritta) di fonte non individuata e non individuabile non può assurgere a dignità d’indizio. Una dichiarazione senza paternità, infatti, non rende noto alcun fatto, su cui poi innestare un giudizio di verosimile accadimento di un altro fatto, e può lasciare spazio soltanto a congetture od illazioni”.

 

Le Sezioni Unite, non disconoscono “che la denuncia anonima, quando sia articolata e dettagliata nell’indicazione di circostanze potenzialmente riferibili al contribuente denunciato, possa elevare la semplice ipotesi del verificarsi di violazione tributaria a consistente sospetto. Ma il sospetto non è ancora indizio, e pertanto

… l’accesso all’abitazione non può essere il primo atto ispettivo dopo una denuncia anonima, occorrendo un minimo di indagine e di riscontro, per acquisire la cognizione di fatti, sia pure dotati di semplice valore indiziario (nell’accezione dinanzi specificata)”.

Il pensiero della Corte non muta nei casi in cui la dichiarazione anonima o confidenziale di fonte non identificata risulti a posteriori attendibile, dato che la norma permette la perquisizione solo se l’inchiesta della Tributaria sia già pervenuta a risultati definibili come gravi indizi.

La Corte richiama, inoltre, le disposizioni sul giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione, nel testo fissato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, per rafforzare la sua interpretazione volta ad affermare il principio dinanzi espresso:

“l’accentuazione con dette disposizioni della tutela del contraddittorio e della parità dei contendenti non sarebbe compatibile con il riconoscimento all’Amministrazione finanziaria, anche soltanto nella fase delle indagini propedeutiche alla formulazione della pretesa impositiva, del potere di tradurre proprie intuizioni ispettive, sollecitate da notizie anonime, in atti delimitativi delle posizioni soggettive del contribuente, dato che verrebbe meno per quest’ultimo, proprio per effetto delle non conoscenza e non conoscibilità di quelle fonti, la possibilità di reclamare un riscontro giudiziale sulle condizioni di legittimità dell’operato dell’Amministrazione medesima”.

 

Nella disciplina della prova del processo penale, sono messe al bando, e comunque sono private di qualsiasi valore dimostrativo, anche nelle fasi diverse dal dibattimento, le notizie rese da confidenti non identificati, che restino ignoti, non essendo poi interrogati, né assunti a sommarie informazioni, ai sensi degli artt. 203 e 267 c.p.c., come riformulati dagli artt. 7 e 10 della L. l.3.2001, n. 63 e il sostrato logico di dette disposizioni non può essere limitato al campo penale, andando ricondotto a criteri generali dell’ordinamento, anche perché, quantomeno con riferimento alla perquisizione domiciliare, il bene protetto è sempre l’inviolabilità del domicilio (all’infuori dei casi espressamente previsti)”.

In ordine agli effetti dell’illegittimità del provvedimento di autorizzazione dell’accesso domiciliare, se adottato senza alcuna motivazione, ovvero con una motivazione giuridicamente erronea (come quella che qualifichi indizio la denuncia anonima), l’inutilizzabilità a sostegno dell’accertamento tributario delle prove reperite si fonda su alcuni principi sostanziali:

“l’inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; che il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; che l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente od indirettamente responsabile”.

 

La sentenza n. 8273/2003

Con la sentenza n. 8273 del 31.10.2002 (depositata il 26.05.2003) la Corte di Cassazione ha avuto modo di specificare meglio il suo pensiero, tornando a parlare di utilizzabilità della prova irregolarmente acquisita, statuendo che in materia tributaria non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente, e pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico.

La Suprema Corte ricorda che, in forza dell’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973, la determinazione del reddito d’impresa è consentita “sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza”, e pertanto la prova irritualmente assunta può, comunque, costituire un elemento a carico del contribuente .

La Corte, inoltre, riafferma quanto sostento nel pronunciamento n.8344/2001, distinguendo l’inutilizzabilità dall’attendibilità:

“in materia tributaria non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente; pertanto, gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico”

e richiama la sentenza n. 2775 del 26.2.2001, che ha statuito che

“il provvedimento di autorizzazione della perquisizione domiciliare di un soggetto, allo scopo di acquisire la documentazione fiscale relativa al soggetto stesso, consente di acquisire, in tale domicilio, anche ulteriori documenti di pertinenza di soggetti diversi, pur se non menzionati nel provvedimento di perquisizione, atteso che la ratio ispiratrice della previsione normativa di cui all’art. 52 citato è quella di tutelare il diritto del soggetto nei cui confronti l’accesso viene richiesto, e non quello di creare una sorta di immunità dalle indagini in favore dei terzi, siano o meno conviventi con l’interessato”.

 

La sentenza n. 11283/2003

Con la sentenza n. 11283 del 25.2.2003 (depositata il 18.7.2003), la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, tornando sull’argomento, ha affermato che il giudice tributario ha

“il potere – dovere…oltre che di verificare la presenza, nel decreto autorizzativo, di motivazione – sia pure concisa o per relationem mediante recepimento dei rilievi dell’organo richiedente – circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale, anche di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento, nel senso che faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisca valenza indiziaria…negando la legittimità dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, valutando consequenzialmente il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove”.

 

La Cassazione rammenta che

“nella fase di acquisizione delle prove, la legge non richiede che l’azione degli inquirenti debba svolgersi esclusivamente sulla base di elementi certi, ma ammette che essa vada condotta anche sulla base di indizi e supposizioni. Tuttavia, qualora la P.A. avverta la necessità di accedere in una abitazione privata, occorre tenere presente che il legislatore ha voluto contemperare l’esigenza di concludere le indagini con la garanzia dell’inviolabilità del domicilio, introducendo pertanto il requisito della gravità e non della precisione … degli indizi su cui si fonda l’azione amministrativa, e prevedendo il controllo dell’Autorità giudiziaria sulla ricorrenza degli stessi”.

 

La Corte richiama a sostegno del pronunciamento emesso la sentenza delle Sezioni Unite n. 16424, depositata il 21.11.2002, nonché le sentenze nn. 18017 e 18018, depositate il 17.12.2002, le quali hanno statuito che, poiché l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare costituisce un provvedimento amministrativo, il quale si inserisce nella fase preliminare del procedimento d formazione dell’atto impositivo, ne discende che il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell’accesso domiciliare,

“può essere chiamato a controllare a) l’esistenza del decreto del pubblico ministero e b) la presenza in esso degli indispensabili requisiti, tenendo conto, quanto al requisito motivazionale, che l’apprezzamento della gravità degli indizi è esternabile anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente”.

 

La sentenza n. 20253/2005

Con la sentenza n. 20253 del 19 ottobre 2005, la Corte di Cassazione ha affermato che

“il contribuente ha il diritto di contestare innanzi al giudice tributario – il quale, di converso, ha il dovere (procedendo anche agli opportuni accertamenti anche fattuali) di decidere il punto – la legittimità ex art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (richiamato dall’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600) dell’acquisizione, da parte degli uffici erariali e/o della Guardia di Finanza (quest’ultima nell’esercizio dei compiti di collaborazione con detti uffici ad essa demandati), del materiale probatorio e/o documentale posto a fondamento dell’avviso di accertamento…

A maggior ragione, la contestabilità in giudizio di una perquisizione personale illegittima va affermata in favore del contribuente quando il perquisito è un terzo, non essendo concepibile che l’eventuale atteggiamento inattivo e/o rinuncia del terzo perquisito possa riverberarsi in danno del contribuente il quale non ha nessun potere neppure di concorrere alla formazione di detto atteggiamento”.

 

La sentenza n. 12017/2007

Con la sentenza n. 12017/2007 la Cassazione ha osservato che l’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 consente la perquisizione dell’abitazione della persona soggetta a verifica fiscale, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, da rilasciarsi solo in presenza di gravi indizi in ordine alla presunte violazioni oggetto di indagine.

In assenza di una regolare autorizzazione la perquisizione non è valida, secondo quanto affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, e la documentazione acquisita nel corso della verifica fiscale non è utilizzabile ai fini dell’accertamento delle violazioni tributarie”.

Per la Corte,

le irregolarità verificatesi nel corso di tale procedimento amministrativo, pertanto, se incidono sulla validità dell’accertamento tributario nei confronti del soggetto sottoposto alla verifica fiscale, non rendono inutilizzabile la notitia criminis che emerga nel corso della verifica stessa”.

L’enunciato principio di diritto, peraltro, è stato reiteratamente affermato dalla Suprema Corte che ha precisato sul punto che in materia di illeciti tributari gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di finanza

sono sempre utilizzabili quale notitia criminis. Infatti a tali accessi non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per l’attività di polizia giudiziaria e, trattandosi di atti amministrativi e non giudiziari, la mancanza o l’irregolarità formale dell’autorizzazione può essere considerata causa di invalidità dell’accertamento fiscale, ma non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale.” (Sez. III, 199511307, P., RV 202943; conforme, Sez. III, 199801668, R., RV 209572)”.

Inoltre, con riferimento al sequestro della documentazione contabile rinvenuta dalla Guardia di finanza nel corso dell’accesso presso l’abitazione dell’imputato, è stato già definitivamente affermato dalla Corte che

in tema di sequestro, l’accertata illegittimità della perquisizione non produce alcun rilievo preclusivo, qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato o a questo pertinenti, dovendosi considerare che il potere di sequestro, in quanto riferito a cose obbiettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste sono state reperite, ma è condizionato unicamente all’acquisibilità del bene e all’insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dai sistema (Sez. VI, 200406842, Sc., RV 227880; conforme, SS.UU. n. 199605021, S., RV 204644)”.

 

La sentenza n. 6351/2008

Con la sentenza n. 6351 del 21 gennaio 2008 (dep. il 10 marzo 2008), la Corte ritiene che la sottoscrizione del p.v.c. da parte di persona diversa dal contribuente ovvero di soggetto privo della qualifica di legale rappresentante (nel caso di ente societario) non è suscettibile di inficiarne l’efficacia ovvero rendere inutilizzabili, ai fini dell’accertamento, i dati ed elementi assunti dai verificatori.

Per la Corte,

“il termine di rappresentante non può avere alcun significato tecnico – giuridico, ma valghi semplicemente come persona addetta all’azienda o alla casa (vedi per analogia a quanto previsto dall’art. 139 c.p.c. in tema di notifica dell’atto in genere). D’altra parte è altresì previsto che il contribuente possa non sottoscrivere del tutto il p.v.c.; in ogni caso la firma del verbale da parte di persona non autorizzata, anche se si traducesse in una violazione delle regole dell’accertamento tributario, non può certo comportare l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti dai verbalizzanti in assenza di una specifica previsione in tal senso (giurisprudenza costante: Cass. n. 3852/2001, Cass. n. 14058/2006, Cass. n. 11203/2007)”.

 

La sentenza n. 4001/2009

Con sentenza n. 4001 del 19 febbraio 2009 (ud. del 19 dicembre 2008) la Corte di Cassazione ha affermanto che,

a prescindere da ogni altra considerazione, la mancanza (e, a fortiori, l’eventuale illegittimità) dell’autorizzazione (del comandante di zona o dell’autorità giudiziaria) ai fini dell’acquisizione di documentazione bancaria (ovvero dell’utilizzazione di quella acquisita nell’ambito di un processo penale) non incide sul valore probatorio dei dati acquisiti né sulla validità dell’atto impositivo adottato sulla scorta dei suddetti dati”.

 

La sentenza n. 2804/2011

Per la Corte di Cassazione è manifestamente fondato il motivo opposto, atteso che dalla sentenza di primo grado emerge

“che il brogliaccio fu rinvenuto all’interno dell’automezzo del contribuente (esercente attività di commercio all’ingrosso di abbigliamento e accessori), automezzo adibito al trasporto di beni viaggianti, e che tale accertamento in fatto dei giudici di primo grado non risulta essere stato oggetto di impugnazione); deve pertanto ritenersi che il furgone su cui fu rinvenuto il brogliaccio fosse un bene ‘appartenente’ all’impresa, ossia un bene utilizzato per l’attività aziendale (neppure risultando in alcun modo eccepito che l’automezzo apparteneva a soggetto estraneo all’impresa o era adibito a trasporto per conto terzi) e che pertanto non necessitasse l’autorizzazione (v. sul punto Cass. nn. 10489/2003, 13612/2003, secondo le quali è legittimo l’avviso di rettifica della dichiarazione della società contribuente fondato su documentazione extracontabile rinvenuta all’interno dell’autovettura dell’amministratore, sottoposta a controllo da una pattuglia della Guardia di Finanza senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica, in quanto l’autovettura stessa non era in quel momento adibita ad uso meramente personale o al trasporto per conto terzi ed era da ritenersi un bene appartenente all’impresa)”.

 

Aggiunge la Corte Suprema che

“non risulta che per acquisire il brogliacco fu necessario procedere all’apertura coattiva di plichi sigillati, borse, casseforti, mobili o simili, che in ogni caso (sempre secondo l’accertamento dei primi giudici – così come riportato dalla sentenza d’appello oggetto di censura in questa sede – e non risultante impugnato) l’acquisizione del brogliaccio avvenne ‘col pieno consenso del proprietario dell’automezzo’, infine che Cass. n. 25253/2005, citata nella sentenza impugnata, risulta assolutamente inconferente (riferendosi alla diversa ipotesi di ispezione personale)”.

 

La sentenza n. 10590/2011

Per la Corte,

“il risultato interpretativo compiuto dai giudici d’appello è plausibile nel suo apprezzamento complessivo dei fatti relativi al reperimento della documentazione extra contabile dalla società nell’autovettura del fratello dell’amministratore…”.

Si è recentemente chiarito che è legittimo l’avviso fondato su “brogliacci” rinvenuti nell’autovettura del contribuente,

“pur se acquisita senza la prescritta autorizzazione della Procura della Repubblica, allorchè tale documentazione sia rinvenuta all’interno di automezzo utilizzato per l’esercizio dell’attività (n. 2804/2011). In passato si era già precisato che è legittima la rettifica della dichiarazione della società contribuente fondata su documentazione extracontabile rinvenuta all’interno dell’autovettura dell’amministratore, sottoposta a controllo da una pattuglia della G.d.F. senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica, in quanto l’autovettura stessa non era in quel momento adibita ad uso meramente personale o al trasporto per conto terzi ed era da ritenersi, invece, un bene ‘appartenente’ all’impresa (Sez. trib., 03 luglio 2003, n. 10489)”.

Nella specie dalla sentenza impugnata risulta che

“giunti presso l’abitazione del D.D.A.N., i militi notarono che una persona, identificata poi nel fratello dell’amministratore della società, D.D.G., era intento ad asportate presumibilmente dall’appartamento di D.D.A.N. contenitori in plastica e una busta di plastica contenenti documentazione presumibilmente contabile relativa alla attività esercitata da quest’ultimo e a riporli nel bagagliaio della autovettura di sua proprietà”.

Dunque,

“quando alle sei del mattino i militi della G.d.F. si sono portati presso l’abitazione di D.D.A.N. e hanno notato il sospetto trasbordo di documentazione nella vettura di D.D.G., questa non era in quel momento adibita a uso personale, ma al trasporto di documentazione dell’azienda in verifica. Era, quindi, un veicolo di fatto – e in quel particolare momento – riferibile all’impresa e al suo amministratore, non differendo funzionalmente la struttura di tale veicolo da qualsiasi altro luogo chiuso idoneo a ricevere ed occultare cose, comunque, attinenti all’impresa stessa. Ne deriva che – non essendosi dovuto procedere all’apertura coattiva di plichi sigillati, borse e simili – non era necessaria una ulteriore e specifica autorizzazione”.

 

La sentenza n. 13319/2013

Con la sentenza n. 13319 del 29 maggio 2013 (ud. 23 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha salvato le risultanze della documentazione bancaria acquisita presso l’abitazione del contribuente, pur se detto accesso non era stato autorizzato, poichè successivamente i verificatori hanno richiesto ed ottenuto l’autorizzazione alle indagini bancarie. Innanzitutto la Corte rileva che inizialmente, in tema di imposte dirette (come di IVA) ed in ipotesi di accesso domiciliare, la illegittimità del provvedimento di autorizzazione del procuratore della Repubblica ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, determinava la “inutilizzabilità”, a sostegno dell’accertamento tributario,

“delle prove reperite nel corso della perquisizione illegale atteso che: a) detta inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; b) il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; c) l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile – cfr. Cass. n. 19689 del 01/10/2004”.

 

Tuttavia, osservano i massimi giudici, che il superiore indirizzo è stato recentemente specificato

“nel senso che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare anzidetta costituisce un provvedimento amministrativo che si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed i suoi eventuali vizi si riverberano sull’atto conclusivo, determinandone l’invalidità solo con riferimento a quelle parti che siano legate all’atto istruttorio da un nesso di insostituibile e necessaria consequenzialità, mentre nessuna conseguenza comportano per quelle altre parti che siano del tutto distinte ed indipendenti – cfr. Cass. n. 23595/2011-. In definitiva, gli effetti dell’eventuale vizio dell’atto anzidetto, in relazione al generale principio di conservazione degli atti giuridici, valevole anche per gli atti amministrativi, impone di limitare gli effetti del vizio alle parti dell’atto impositivo che sono legate a quello prodromico da un nesso di insostituibile, necessaria consequenzialità.

Ciò che consente di distinguere, ai fini della utilizzabilità degli atti acquisiti nel corso di perquisizione non autorizzata, gli atti inscindibilmente collegati al provvedimento autorizzatorio, irrimediabilmente travolti dall’assenza del provvedimento di autorizzazione alla perquisizione, da quelli che possono comunque trovare giustificazione in altri provvedimenti ritualmente adottati dall’Ufficio e che sono dunque indipendenti rispetto alla perquisizione”.

 

Nel caso di specie,

“il giudice tributario, ai fini della verifica della legittimità della pretesa fiscale, si è limitato ad utilizzare la documentazione bancaria relativa ai conti riferibili al contribuente ed ai suoi familiari che, seppure acquisita presso il contribuente, tuttavia non poteva dirsi travolta dalla mancata di autorizzazione alla perquisizione domiciliare, proprio perchè i verbalizzanti ebbero cura di acquisire, successivamente, l’autorizzazione del comandante della Guardia di Finanza relativa all’accesso della documentazione bancaria del contribuente ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2.

Non sembra, infatti, potersi disconoscere la possibilità che l’amministrazione provveda alla sanatoria di un atto illegittimo attraverso l’adozione di un atto che intende riconoscere ex post la legittimità dell’operato della p.a., trovando tale possibilità piena conferma nel generale principio di conservazione dell’attività amministrativa, le quante volte ciò non determini pregiudizio a posizioni giuridiche soggettive piene del privato”.

 

Nel caso sottoposto alla Suprema Corte non viene rilevata una concreta lesione del diritto al contraddittorio ed alla difesa da parte del contribuente che, a fronte di un’attività di acquisizione compiuta nel maggio 1996, si è potuto adeguatamente difendere, anche dopo il provvedimento di autorizzazione intervenuto nell’agosto del 1996, risultando che la rettifica emessa nei confronti del contribuente venne resa sulla base del processo verbale della Guardia di Finanza del 27.03.1998.

“Nessun diritto fondamentale del contribuente risulta, pertanto, in concreto pregiudicato dall’attività della Guardia di Finanza. In questa direzione, del resto, milita la stessa giurisprudenza di questa Corte che non ha mancato di precisare come ‘… il riscontro della mancanza materiale dell’autorizzazione produce l’illegittimità del “risultato finale del procedimento” – quindi, del conseguente “accertamento” – sol quando si traduce in un “concreto” (ovverosia certo ed effettivo) “pregiudizio per il contribuente” – cfr. Cass. n. 16874/2009 – e si inserisce in un filone giurisprudenziale alla cui stregua la mancanza della autorizzazione dell’ispettore compartimentale (o, per la guardia di finanza, del comandante di zona) prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 7, ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente, non preclude l’utilizzabilità dei dati acquisiti, atteso che la detta autorizzazione attiene ai rapporti interni e che in materia tributaria non vige il principio (presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico – cfr. Cass. n. 4987/2003’”.

 

Le nostre considerazioni finali in tema di irrituale acquisizione degli elementi probatori

Nell’attività istruttoria gli effetti invalidanti dell’acquisizione degli elementi probatori, in mancanza di

“una esplicita norma che colleghi questi ultimi all’infrazione di una specifica e ben individuata disposizione, sarebbero ostacolati in virtù della stessa disciplina dell’accertamento che, conferendo all’Amministrazione finanziaria la potestà di ricostruire l’effettiva posizione fiscale del contribuente sulla base di tutti gli elementi che, a qualsiasi titolo ed a prescindere dalla fonte di provenienza, siano entrati nella sfera di conoscenza dell’Amministrazione medesima, implicitamente escluderebbe l’inammissibilità degli elementi stessi, anche in caso di inosservanza delle disposizioni procedurali che ne regolano le modalità di acquisizione.

Effettivamente, appare difficile non riconoscere come la normativa in tema di accertamento e rettifica delle dichiarazioni permetta al Fisco ampie possibilità di utilizzare ogni dato indicativo di una maggiore capacità contributiva3”.

I diversi orientamenti espressi dalla Cassazione, pur non univoci, ci inducono a sostenere che la linea di confine fra l’ammissibilità e l’inammissibilità delle prove irritualmente acquisite dipende dalla presunta gravità della violazione, il cui giudizio viene demandato, di volta in volta, al giudice.

A nostro avviso, tuttavia, nell’attività istruttoria, i presunti effetti invalidanti dell’acquisizione degli elementi probatori, in assenza di preclusioni specifiche, non rinvenibili né nel dettato normativo né nell’ordinamento tributario, sono ostacolati dalle stesse norme sull’accertamento che consentono all’Amministrazione finanziaria la potestà di ricostruire la posizione reddituale del contribuente sulla base di tutti gli elementi che, a qualsiasi titolo ed a prescindere dalla fonte di provenienza, siano entrati nella sfera di conoscenza dell’Amministrazione medesima:

  • l’art. 36 del D.P.R. n. 600/1973, che prescrive che “i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali civili e amministrativi che, a causa o nell’esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l’inoltro della denuncia penale, al comando della Guardia di finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli”;
  • l’art. 37, 1, del D.P.R. n. 600/1973, che afferma che ”gli uffici …procedono … al controllo delle dichiarazioni … attraverso … le informazioni di cui siano comunque in possesso“;l
  • ‘art. 38, c. 3, del D.P.R. n. 600/1973, che statuisce che “l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza della dichiarazione, salvo quanto stabilito dall’art. 39, possono essere desunte … dai dati e dalle notizie di cui all’articolo precedente“ (da individuarsi nell’art. 37);
  • l’art. 36 del P.R. n. 600/1973, che prescrive che “i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali civili e amministrativi che, a causa o nell’esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l’inoltro della denuncia penale, al comando della Guardia di finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli”;
  • l’art. 39, cc. 1 e 2, del medesimo D.P.R. n. 600/1973 che, rispettivamente, in tema di rettifica analitica ed induttiva dei redditi determinati in base a scritture contabili, contemplano la possibilità di rilevare l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati in dichiarazione da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio, nonché di determinare induttivamente il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza;

Ed è proprio l’art. 37 del D.P.R. n.600/73 la norma richiamata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 4608 del 24 settembre 2007 (dep. il 21 febbraio 2008) quale presupposto per l’accertamento sintetico di cui all’art. 38, c. 4, del D.P.R. n. 600/1973: sono utilizzabili le informazioni e documenti contenuti in una rogatoria internazionale formulata dalla magistratura elvetica alla magistratura italiana, in quanto l’inutilizzabilità in un procedimento amministrativo di accertamento tributario delle informazioni e dei documenti di fonte svizzera, in relazione alle riserve poste dalla Confederazione Svizzera all’adesione alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria internazionale in materia penale del 1959, riguarda solo le informazioni fornite dalle autorità elvetiche su richiesta delle autorità italiane, mentre non riguarda, e non può riguardare,

“il diverso caso in cui siano le Autorità Svizzere a chiedere la collaborazione di quelli italiane e nel quadro della loro richiesta forniscono (indirettamente) alle autorità italiane elementi utili per procedere ad accertamenti fiscali; e quindi non sussistano i presupposti di una limitazione alla utilizzabilità delle informazione (indirettamente) fornite. Quest’ultimo caso, si è realizzato nel caso di specie ove l’Autorità elvetica ha chiesto l’aiuto di quella italiana in ordine ad una presunta frode nella fatturazione di formaggi, esponendo dati che la nostra Amministrazione poteva utilizzare liberamente ”.

 

9 dicembre 2014

Gianfranco Antico

 

NOTE

1 La felice espressione è di BUSCEMA-DI GIACOMO, Il processo tributario. Aspetti problematici e strategie processuali, II edizione, 2004, pag.304.

2 SCREPANTI, Irrituale acquisizione di elementi probatori. Utilizzabilità ai fini dell’accertamento e responsabilità dei verificatori, in “il fisco“, n.33/2001, pag. 11046.

3 SCREPANTI, Irrituale acquisizione di elementi probatori. Utilizzabilità ai fini dell’accertamento e responsabilità dei verificatori, in “ il fisco “, n.33/2001, pag. 11046

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