L'azienda caduta in successione: profili civilistici e fiscali

L’azienda che cade in successione diviene oggetto di una comunione incidentale che sorge fra gli eredi: di conseguenza, la sua gestione soggiace alle regole della comunione con interessanti aspetti di natura legale e fiscale.

L’azienda cuduta in successione – Aspetti generali

azienda in successione per morte dell'imprenditoreL’azienda che cade in successione diviene oggetto di una comunione incidentale che sorge fra gli eredi; di conseguenza, la sua gestione soggiace alle regole della comunione – caratterizzata dallo scopo del godimento della cosa comune -, salvo che gli eredi medesimi non intendano proseguirla in forma societaria.

L’attività di mera conservazione e liquidazione della struttura produttiva non è infatti idonea a conferire autonoma soggettività giuridica alla comunione ereditaria.

Nel presente contributo si considerano gli effetti fiscali associati ai fenomeni di «destinazione agli eredi» di beni già facenti parte del compendio aziendale appartenuto all’imprenditore individuale deceduto, e quindi caduti in successione, nell’ottica delle migliori scelte che possono essere compiute nella prospettiva della continuazione dell’attività dell’azienda e/o negli interessi dei singoli soci.

 

L’azienda caduta in successione

Nell’approcciarsi ai problemi relativi al trattamento tributario dell’azienda che è oggetto di successione è opportuno considerare che:

  • l’azienda è definibile come il «complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa» (art. 2555, c.c.);

  • tale entità può trasmettersi sia per atto tra vivi, che mortis causa;

  • fiscalmente, i beni relativi all’impresa sono – nel caso dell’impresa individuale – quelli indicati nell’inventario dell’imprenditore, e la loro estromissione dal regime d’impresa determina le conseguenze che ordinariamente derivano dal trasferimento a terzi (art. 65, TUIR).

 

In particolare, può affermarsi che, sotto il profilo fiscale, la morte dell’imprenditore individuale determina una peculiare ipotesi di estromissione dei beni dalla sfera giuridico – tributaria aziendale a quella privata; evidentemente, non c’è però in tale situazione quella «volontarietà» che giustificherebbe la rilevanza fiscale di eventuali plus o minusvalenze.

Se l’erede, o i coeredi, ritengono di proseguire l’attività d’impresa già esercitata dal de cuius, si ha invece una sorta di «ridestinazione all’impresa» dei beni stessi, che può eventualmente condurre alla costituzione formale di una società.

 

In tale circostanza, possono dissociarsi:

  • la titolarità dell’azienda, che seguita a far capo alla comunione ereditaria;

  • la titolarità dell’impresa, che fa capo all’erede (o ai coeredi) che scelgono di esercitare l’attività.

Come meglio si spiegherà nelle pagine che seguono, in capo agli eredi possono invece generarsi effetti reddituali in caso di successiva cessione (totale o parziale) a terzi dell’azienda ereditata (nella forma di redditi diversi, ex art. 67, primo comma, lett. h–bis, TUIR).

Sembra invece non suscettibile di conseguenze fiscali l’«autoconsumo» dei beni da parte degli eredi, consistente nella semplice acquisizione in proprietà degli stessi, senza l’intenzione di proseguire l’attività d’impresa (art. 58, primo comma, TUIR).

 

I beni dell’impresa

L’art. 65 del TUIR opera una distinzione tra i beni relativi all’impresa e quelli a essa estranei; più propriamente, il legislatore avrebbe però potuto riferirsi a beni relativi all’«azienda», secondo la definizione civilistica rammentata poco sopra.

Secondo tale normativa, sono relativi all’impresa:

  • per le imprese individuali, oltre ai beni indicati lettere a) e b) dell’art. 85, primo comma, del TUIR (beni – merce, materie prime e semilavorati), a quelli strumentali e ai crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa, i beni appartenenti all’imprenditore che sono indicati nell’inventario tra le attività relative all’impresa (gli immobili di cui al si considerano relativi all’impresa solo se indicati nell’inventario);

  • per le S.n.c. e le S.a.s., tutti i beni ad esse appartenenti;

  • per le società di fatto, i beni indicati nelle lettere a) e b) dell’art. 85, primo comma, i crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa e i beni strumentali, compresi quelli iscritti in pubblici registri a nome dei soci utilizzati esclusivamente come strumenti per l’esercizio dell’impresa.

Se, quindi, tra gli eredi si forma una società di fatto, dal punto di vista fiscale, i beni immobili strumentali per natura divengono «relativi all’impresa» anche se la loro titolarità civilistica permane in capo alla comunione ereditaria.

 

La società di fatto tra eredi

Come rilevato in dottrina con riferimento a un’ormai risalente conferenza degli ispettori compartimentali (conferenza del 27-28.6.1991), la morte del titolare determina la cessazione dell’impresa individuale e il sorgere di una comunione ereditaria, la quale (assume) i caratteri della società di fatto con l’esercizio in comune, fra gli eredi, dell’attività commerciale.

L’accettazione dell’eredità costituita da un’azienda commerciale non fa sorgere di per sé la qualifica di imprenditore nelle persone degli eredi, i quali, semmai, possono diventare imprenditori successivamente, in seguito all’esercizio effettivo e professionale dell’attività economica.

In particolare può valere la considerazione – fatta in tale sede – che la regolarizzazione di una società di fatto non produce in via generale mutamenti sostanziali nella situazione in corso, nel senso che l’assunzione della veste di società regolare non costituisce un atto di realizzo delle plusvalenze latenti nei beni sociali.

 

Il trasferimento mortis causa dell’azienda nel TUIR

L’art. 58 del TUIR, che si occupa delle plusvalenze nel reddito di impresa in campo IRPEF, contiene (per i non – soggetti IRES) alcune specificazioni che prevalgono sulle norme generali, secondo le regole di cui all’art. 56, primo comma, dello stesso Testo Unico.

In dettaglio, è disposto nell’art. 58, primo comma, che, per le plusvalenze derivanti dalla cessione delle aziende, le disposizioni dell’art. 86, quarto comma (relative al concorso al reddito delle plusvalenze nell’esercizio del realizzo, ovvero, in determinati casi, in quote costanti anche negli esercizi successivi, ma non oltre il quarto), non si applicano quando è richiesta la tassazione separata a norma dell’art. 17, secondo comma.

Lo stesso primo comma prevede poi espressamente che «il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa», e che, in tale ipotesi, «l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa».

Gli stessi criteri sono applicati anche se, a seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall’apertura della successione, della società esistente tra gli eredi, l’azienda resta acquisita da un solo erede.

Il terzo comma dell’articolo in commento dispone però che «le plusvalenze dei beni relativi all’impresa concorrono a formare il reddito anche se i beni vengono destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore o a finalità estranee all’esercizio dell’impresa».

Ne consegue che:

  • la caduta in successione dell’azienda non è suscettibile di determinare il realizzo della stessa, e quindi non fa emergere plusvalenze imponibili;

  • la destinazione extra – impresa dei beni a essa relativi è invece sufficiente a determinare la tassazione delle eventuali plusvalenze.

Di conseguenza, va verificato se e in quale misura il fenomeno consistente nell’acquisizione dei beni relativi all’impresa del de cuius può assumere rilevanza fiscale, nel contesto delle imposte sui redditi, ma anche con riferimento all’IVA.

 

 

La presunzione di prosecuzione dell’impresa e la rinuncia all’eredità

sentenza corte di cassazioneLa Corte di Cassazione, nella sentenza della Sez. Trib., 17.11.2000, n. 14889, ha affermato che «se alla morte dell’imprenditore individuale l’impresa non cessa con una necessaria fase di liquidazione, si deve presumere che essa venga continuata in una forma di comunione da tutti i chiamati all’eredità, e, quindi, tra di loro è legittimamente configurabile, in mancanza di atti formali, una società di fatto».

Tale criterio è applicabile se il singolo chiamato all’eredità non formula una rinuncia espressa nelle forme di legge, o non dimostra di non aver compiuto atti di gestione dell’impresa .

La rinuncia all’eredità, che deve essere prestata da coloro che desiderano dissociarsi dalla gestione dell’impresa, consiste in una dichiarazione unilaterale non recettizia con la quale il chiamato all’eredità manifesta la propria volontà contraria e impeditiva all’acquisto dell’eredità.

La rinuncia riguarda quindi non l’eredità (che, una volta acquisita, non può essere rifiutata), bensì il diritto ad acquisirla, incardinato negli artt. 459 e ss. del codice civile.

 

La destinazione extraimprenditoriale ai fini dell’IVA

In campo IVA non era originariamente prevista, come fattispecie realizzativa del presupposto d’imposta, la destinazione extra–impresa dei beni determinata dalla cessazione dell’attività.

Tale soluzione è stata ottenuta dal legislatore attraverso un’integrazione all’art. 2, secondo comma, n. 5), del D.P.R. n. 633/1972, apportata dall’art. 1 del D.P.R. 23.12.1974, n. 687.

Secondo la relazione di accompagnamento, tale integrazione intendeva «definire più compiutamente, e in armonia con la sua natura, l’ambito oggettivo del tributo».

La disposizione, «oltre a giustificarsi con la natura del tributo», è finalizzata a evitare l’immissione in consumo di «beni completamente sgravati da tributi in conseguenza della intervenuta detrazione dell’IVA assolta a monte».

In termini secchi e univoci, la relazione escludeva dall’ambito applicativo della disposizione in esame:

  • la cessazione dell’attività per causa di morte (che non poteva considerarsi come fatto rilevante ai fini dell’applicazione dell’IVA);

  • la dichiarazione di fallimento (oggetto di autonome previsioni nel D.P.R. n. 633/1972).

La posizione ministeriale

Sul problema della destinazione extra – impresa dei beni era intervenuta la risalente R.M. della Direzione Generale Tasse e Imposte indirette sugli affari 24.10.1978, n. 361708, precisando che l’evento «morte» non può determinare gli effetti giuridici che, in via generale, si ricollegano all’estromissione dei cespiti dal regime d’impresa.

Nel caso esaminato dal Ministero, l’ufficio IVA locale aveva ritenuto dovessero essere assoggettati al tributo – ex art. 2, co. 2, n. 5), D.P.R. 633/1972 – i beni facenti parte del compendio aziendale già appartenuto al defunto, sulla base dell’erroneo presupposto che la cessazione dell’attività imprenditoriale – anche se causata dalla morte del titolare dell’impresa – avrebbe comunque «sottratto i beni aziendali alla destinazione loro propria avviandoli al consumo familiare dell’imprenditore e comunque ad altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa».

L’amministrazione aveva precisato che l’integrazione del richiamato art. 2 del decreto IVA con l’aggiunta della locuzione «anche se determinata da cessazione dell’attività», a opera del succitato D.P.R. 687/1974, non poteva riguardare le cessazioni di attività per causa di morte, dato che «gli effetti giuridici derivanti da tale evento non possono costituire di per sé fatto generatore dell’imposta sul valore aggiunto», principio che peraltro risulta «esplicitamente enunciato» nella relazione di accompagnamento al decreto modificativo.

 

 

La continuità della soggettività IVA del de cuius

A norma dell’art. 35-bis del D.P.R. n. 633/1972, aggiunto dall’art. 1 del D.P.R. 29.1.1979, n. 24:

  • gli obblighi IVA derivanti dalle operazioni effettuate dal contribuente deceduto possono essere adempiuti dagli eredi, anche se i relativi termini sono scaduti non oltre 4 mesi prima della data della morte del contribuente, entro i 6 mesi da tale data;

  • resta ferma la disciplina stabilita dal D.P.R. n. 633/1972 per le operazioni effettuate, anche ai fini della liquidazione dell’azienda, dagli eredi dell’imprenditore.

In tale ipotesi, non essendovi prosecuzione dell’impresa in forma societaria, perdura – senza autonoma soggettività tributaria – la comunione ereditaria, e gli adempimenti IVA relativi alla liquidazione del patrimonio aziendale sono assolti utilizzando lo «status fiscale» del de cuius.

In campo IVA, quindi, si determina una «fittizia» continuità della soggettività fiscale dell’imprenditore deceduto, la quale consente di attribuire rilevanza fiscale all’autoconsumo dei beni da parte degli eredi.

Le disposizioni del TUIR non prevedono invece il riconoscimento di tali ipotesi di estromissione dei cespiti dal regime d’impresa, anche perché manca, nel contesto dei redditi diversi, una specifica disposizione di riferimento.

Al contrario di quanto accade nel sistema dell’imposizione reddituale, deve pertanto affermarsi che, con riferimento all’IVA, il perdurare del dualismo impresa – comunione ereditaria consente di ricondurre l’acquisizione dei beni afferenti l’impresa da parte degli eredi a un’ipotesi realizzativa degli stessi.

 

 

Le plusvalenze da cessione dell’azienda ereditata

Come anticipato sopra, ai fini delle imposte sui redditi il semplice trasferimento mortis causa dell’azienda non fa sorgere, di per sé, alcun presupposto impositivo di plusvalenze in capo agli eredi.

Secondo la testuale formulazione dell’art. 67, primo comma, lett. h–bis), del TUIR, costituiscono invece redditi diversi «le plusvalenze realizzate in caso di successiva cessione, anche parziale, delle aziende acquisite ai sensi dell’articolo 58».

Ciò significa che:

  • se gli eredi ricevono semplicemente l’azienda a seguito della successione, e proseguono nell’attività del de cuius, non c’è soluzione di continuità nell’esercizio dell’impresa e quindi non emergono plusvalori imponibili;

  • ugualmente non sorgono valori tassabili se gli eredi si limitano all’«autoconsumo» dei beni già facenti parte del compendio aziendale,;

  • la stessa regola di non imponibilità si applica anche se, a seguito dello scioglimento – entro 5 anni dall’apertura della successione – della società costituita tra i coeredi, l’azienda risulta acquisita da uno solo di essi;

  • se, invece, l’azienda ereditata è successivamente ceduta a terzi, le relative plusvalenze sono imponibili in capo agli eredi cedenti come redditi diversi.

Il presupposto per la tassazione ricorre quindi solo per la cessione successiva, e non anche per l’utilizzo personale dei beni dell’azienda da parte degli eredi; nel settore delle imposte sui redditi, infatti, non è possibile attribuire rilevanza alla destinazione extra – impresa del bene, per mancanza nei confronti degli eredi di una «doppia soggettività tributaria» (di imprenditore e di contribuente comune).

 

 

L’imposta di successione

L’imposta sulle successioni e donazioni (soppressa dall’ art. 13, primo comma, della L. 18.10.2001, n. 383) è stata reintrodotta, secondo la normativa vigente alla data del 24.10.2001, a norma dell’ art. 2, comma 47, del D.L. 3.10.2006, n. 262.

In particolare, l’art. 15, primo comma, del D.Lgs. 31.10.1990, n. 346, dispone che

«la base imponibile, relativamente alle aziende comprese nell’attivo ereditario, è determinata assumendo il valore complessivo, alla data di apertura della successione, dei beni e dei diritti che le compongono, esclusi i beni indicati nell’ art. 12, al netto delle passività risultanti a norma degli articoli da 21 a 23. Se il defunto era obbligato alla redazione dell’inventario di cui all’ art. 2217 del codice civile , si ha riguardo alle attività e alle passività indicate nell’ ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato, tenendo conto dei mutamenti successivamente intervenuti».

 

 

Le disposizioni antielusive

Per quanto è stabilito dall’art. 69, settimo comma, della L. 21.11.2001, n. 383, le disposizioni antielusive di cui all’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973 si applicano anche con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni.

Ciò significa che l’amministrazione finanziaria ha il potere di disconoscere (ai sensi e con gli effetti dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 ) i vantaggi tributari conseguiti mediante atti, fatti, o negozi privi di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi indebiti, in relazione all’imposta in rassegna.

 

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26 novembre 2014

Fabio Carrirolo