Gli interessi sui rimborsi tributari

se il contribuente ha diritto ad un rimborso fiscale gli maturano anche gli interessi fino al momento del pagamento: le regole per il calcolo di tali interessi, con particolare attenzione al caso della svalutazione monetaria e del possibile anatocismo

Giurisdizione

La domanda con la quale il contribuente chieda la condanna dell’erario al pagamento degli interessi e dell’eventuale maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c.c., c. 2, in conseguenza della ritardata restituzione dell’imposta pagata in eccedenza, è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario (Sent. n. 17993 del 19 ottobre 2012 della Corte Cass., Sez. Trib.).

Anche in forza del “principio della concentrazione” della tutela giurisdizionale, che caratterizza l’attuale sviluppo dell’ordinamento anche in materia tributaria, la questione relativa alla rivalutazione monetaria delle somme versate a titolo di imposta e di cui il contribuente ottenga pronuncia di rimborso rientra nella giurisdizione del giudice tributario, in quanto consequenziale ad una controversia tributaria (Cassazione sentenza delle Sezioni Unite n. 16871 del 31 luglio 2007)

Interessi dovuti per il ritardo nel rimborso delle imposte dirette

Gli interessi dovuti per il ritardo nel rimborso delle imposte dirette, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 441, a differenza degli ordinari interessi che, in quanto frutti civili, si acquistano di giorno in giorno, vengono a maturare, invece, per ogni semestre intero, escluso il primo, con decorrenza dalla data del versamento e fino a quella dell’ordinativo di pagamento. Il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 44, -(nel prevedere il tasso di interesse, modificato di volta in volta da successivi e periodici decreti ministeriali, sulla restituzione di somme versate, a titolo di imposte dirette, in eccedenza a quanto effettivamente dovuto per il periodo in considerazione) stabilisce che il contribuente ha diritto alla corresponsione di tale interesse “per ognuno dei semestri interi, escluso il primo” ricompresi tra la data del versamento e quella dell’ordinativo con il quale venga, in concreto, effettuata la restituzione della maggiore imposta versata. Orbene, il riferimento letterale della norma ai “semestri interi“, lascia fondatamente ritenere che il diritto in parola maturi al compimento di ogni singolo semestre, escluso il primo, ed al tasso vigente a tale momento. In altri termini, il tasso legale al quale occorre fare riferimento per la liquidazione degli interessi sulla restituzione della maggiore imposta pagata, è quello vigente, in forza dei decreti ministeriali emessi in materia, al momento in cui viene a scadenza ciascun singolo semestre, giacchè è solo in tale momento che il diritto alla percezione di detti interessi viene a maturare a favore del contribuente. Tale conclusione appare, poi, avvalorata dalla considerazione che il disposto di cui alla L. n. 29 del 1961, art. 1, (che, sebbene dettato in tema di imposte indirette, può essere considerato una norma contenente una previsione generale in materia di interessi da corrispondersi nell’ambito dei rapporti tributari – Cass. 15222/04) stabilisce che sulla sorte capitale dovuta dall’Erario al contribuente a titolo di restituzione di imposte e tasse, spettino al medesimo gli interessi moratori “da computarsi per ogni semestre compiuto“. Per il che viene, com’è del tutto evidente, ulteriormente confermata la tendenza della normativa in materia ad ancorare il diritto alla percezione degli interessi sulle somme dovute dall’amministrazione finanziaria a titolo di rimborso di imposta, e la loro misura, a quanto normativamente stabilito, al riguardo,al momento della scadenza di ciascun singolo semestre.

Gli interessi per il ritardo nel rimborso di imposte pagate dall’art. 44 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, sulla riscossione delle imposte dirette, a differenza degli ordinari interessi che, quali frutti civili, si acquistano giorno per giorno, si maturano per ogni semestre intero, escluso il primo, compreso tra la data del pagamento e quella dell’ordinativo. Sicché, l’aliquota da applicare non può essere quella in vigore durante l’arco del semestre ma quella che vige alla scadenza di ogni semestre, al momento, cioè, nel quale sorge il diritto a quella quota di interessi ( Dec. n. 1616 del 14 aprile 1997 della CTC, Sez. XII). Esemplificando, con riferimento al semestre 21.1.2003-21.7.2003, non può essere applicato sulla sorte capitale a carico dell’Erario, il tasso di interesse del 2,50% in vigore (dal 21.1.2003) all’inizio del semestre un questione, bensì quello dell’1,375% vigente (dall’1.7.2003) alla data di scadenza del semestre medesimo (Cass. civ. Sez. V, Sent., 12-09-2012, n. 15246),

Imputazione dei pagamenti

Qualora l’Amministrazione esegua separatamente il pagamento prima dell’imposta e successivamente degli interessi, il contribuente non può chiedere l’applicazione dell’art. 1194 c.c. (secondo la quale i primi pagamenti vanno imputati agli interessi e quelli successivi al capitale), in quanto a differenza della disciplina codicistica, le leggi tributarie, in tema di rimborso delle imposte non dovute (sia dirette che indirette) e di corresponsione degli interessi in ragione della ritardata restituzione del capitale, non contengono regole espresse sulla imputazione, al capitale e agli interessi, del “rimborso parziale2. La disciplina di cui all’art. 44 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, secondo cui il debitore del rimborso d’imposta indica l’imputazione del singolo pagamento parziale a capitale o interessi con riferimento ai distinti capitoli di spesa, deroga nella specifica materia tributaria al disposto dell’art. 1194, c. 2, c.c., secondo cui i pagamenti parziali vanno imputati prima agli interessi e poi al capitale, ed esclude che il debitore possa stabilire l’imputazione dei versamenti stessi

Svalutazione monetaria

Nel caso del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 44, applicabile a tutte le ipotesi in cui siano dovuti dall’amministrazione finanziaria interessi in dipendenza di un rapporto giuridico tributario, è da ritenere che la specialità della fattispecie tributaria giustifichi una interpretazione restrittiva della disposizione di cui all’art. 1224 c.c., c. 2; al fine del riconoscimento della svalutazione monetaria, lo stesso creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, essendo egli tenuto, in base al generale criterio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), a fornire indicazioni in ordine al danno da lui subito come effetto della indisponibilità del denaro determinata dall’inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), in modo da consentire al giudice di merito di verificare se lo stesso possa essersi verosimilmente prodotto, senza che la allegata qualità si risolva in un meccanismo di automatica rivalutazione di crediti” (Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-12-2010, n. 26403 e n. 14970 del 2002). Inoltre, nelle obbligazioni pecuniarie, tra le quali rientrano anche i crediti di imposta (restando irrilevante la natura pubblica del debitore), la svalutazione monetaria intervenuta durante la mora debendi non giustifica un risarcimento automatico, ma al creditore spetta l’onere di allegare (prima) e di provare (poi) l’esistenza di un danno maggiore di quello risarcito mediante la corresponsione degli interessi: ed una maggiore attenzione in proposito è imposta per la valutazione di quelle peculiari obbligazioni pecuniarie costituite dai crediti di imposta, per i quali sono inapplicabili le disposizioni di cui agli artt. 1224, c. 1, e 1284 c.c., essendo la disciplina dei relativi interessi moratori regolata da norme speciali, giustificate dalle particolari natura del credito, qualità dei soggetti e presupposti del rapporto (nel caso dall’art. 44 D.P.R. n. 602 del 1973, applicabile a tutte le ipotesi in cui siano dovuti dall’amministrazione finanziaria interessi in dipendenza di un rapporto giuridico tributario) le quali, prevalendo in ragione del principio di specialità sulla regola civilistica, la assorbono ed integralmente la sostituiscono. Appare cioè necessario che il creditore deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre gli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro; al fine di tale riconoscimento, lo stesso creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, essendo egli tenuto, in base al generale criterio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), a fornire indicazioni in ordine al danno da lui subito come effetto della indisponibilità del denaro determinata dall’inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), in modo da consentire al giudice di merito di verificare se lo stesso possa essersi verosimilmente prodotto, senza che la allegata qualità si risolva in un meccanismo di automatica rivalutazione di crediti.

E’ però inammissibile la domanda di risarcimento danni da svalutazione per il ritardato rimborso di imposta che venga proposta come automatica conseguenza della mora debendi, senza che vengano neppur allegate le ragioni che giustificherebbero questo risarcimento. E tale inammissibilità può essere rilevata anche dal giudice di cassazione quando si debba pronunciare circa la questione relativa alla sussistenza (o meno) della giurisdizione del giudice tributario in ordine a questa forma di risarcimento. Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., c. 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato…), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero (attraverso la produzione dei bilanci) quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale (Cass. civ. Sez. V, Ord., 28-08-2009, n. 18854).

In tema di contenzioso tributario, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore non giustifica il riconoscimento d’ufficio del maggior danno derivante dall’inadempimento, ai sensi dell’art. 1224, c. 2, c.c., occorrendo a tal fine un’apposita domanda, la quale non può essere proposta per la prima volta in appello, stante il divieto di cui all’art. 345 c.p.c., il quale è applicabile anche nel processo tributario, come si desumeva nel rito previgente dall’art. 19 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, e come risulta espressamente dal vigente art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass. civ. Sez. V Sent., 11-05-2007, n. 10783).

Anatocismo

In tema di rimborso di crediti di imposta il contribuente può conseguire, previa verifica positiva dei presupposti configurati dall’art. 1283 c.c., e nei limiti consentiti da tale disposizione, la condanna dell’amministrazione al pagamento degli interessi anatocistici per il ritardato rimborso di un credito, senza che l’applicabilità dell’istituto dell’anatocismo trovi ostacolo nelle disposizioni che regolano il rimborso delle imposte pagate in eccedenza rispetto al dovuto o nelle particolari caratteristiche strutturali del processo tributario (Cass. civ. Sez. V, 25-03-2011, n. 6894). Gli interessi anatocistici sui rimborsi in materia tributaria sono dovuti solo a seguito di domanda giudiziale esplicita e chiara (art. 1283 c.c.)3, la quale (nel processo tributario) deve essere contenuta nel ricorso introduttivo, col quale si definisce la materia del contendere, mentre non assume rilievo la domanda formulata per la prima volta in appello, o in una memoria illustrativa (Sent. n. 4935 dell’8 marzo 2006 della Corte Cass., Sez. tributaria).

Tuttavia, la disciplina speciale tributaria in merito alla disapplicazione del regime civilistico ordinario sulla produzione degli interessi anatocistici deve ritenersi applicabile dall’entrata in vigore dell’art. 37, D.L. n. 223 del 2006.Conseguentemente, restano dovuti gli interessi maturati sugli interessi dalla data della domanda giudiziale sino al 3 luglio 2006(Cass. civ. Sez. V, 24-02-2012, n. 2823)4. La legge n. 248 del 2006 (cd. finanziaria 2006) ha abolito questo tipo di interessi in relazione ai debiti dell’amministrazione finanziaria. Giova ricordare che con il comma 50 dell’articolo 37 del decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006, il legislatore ha pronunciato la parola “fine” in relazione alla vexata quaestio della debenza o meno degli interessi anatocistici sui crediti dei contribuenti nei confronti del Fisco. In applicazione della nuova norma, gli interessi maturati sui tributi sono dovuti nella misura fissa stabilita dalla singola legge d’imposta e non sono cumulabili con quelli anatocistici, di cui all’articolo 1283 del Codice civile, che ne consente la capitalizzazione. In mancanza di una disposizione di carattere transitorio, tale norma si rende applicabile a decorrere dalla data di pubblicazione del provvedimento normativo sulla gazzetta ufficiale della repubblica italiana n. 153 e cioè dalla data del 4 luglio 2006 . Non appare giuridicamente fondata, quindi, la domanda del contribuente per il riconoscimento del diritto alla corresponsione degli interessi anatocistici in relazione a quelli maturati successivamente alla data di entrata in vigore di tale novella normativa (CTP di Roma sez. 27 sentenza n. 182 del 30 giugno 2008). Come evidenziato anche nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, in assenza di specifiche disposizioni, la norma “chiarificatrice” entra in vigore il 4 luglio 2006, applicandosi agli interessi che maturano da tale data. In sostanza, per i crediti già esistenti alla data di entrata in vigore del decreto, dovrà applicarsi un doppio sistema per il calcolo degli interessi: fino al 4 luglio 2006 il credito tributario produce interessi anatocistici, successivamente smette di produrne.

Giudizio di ottemperanza

La domanda, avanzata in sede di giudizio di ottemperanza5, di corresponsione degli interessi ad un tasso maggiore di quello applicato dal commissario ad acta deve ritenersi indubbiamente ricompresa – stante la natura meramente accessoria di tale obbligazione rispetto a quella di restituzione della sorte capitale – nel giudicato oggetto del giudizio di ottemperanza .Il giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalle sentenze delle commissioni tributarie, disciplinato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 70, presenta connotati diversi dal corrispondente e concorrente giudizio esecutivo civile, atteso che il suo scopo non è quello di ottenere l’esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione passata in giudicato, bensì quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti quegli accertamenti indispensabili a delimitare l’effettiva portata precettiva della sentenza di cui si chiede l’esecuzione (v. Cass. 20202/10, 646/12). E’ bensì vero, pertanto, che in sede di giudizio di ottemperanza non può essere attribuito alla parte istante un diritto nuovo e ulteriore rispetto a quello riconosciuto con la sentenza da eseguire, dovendo il potere ermeneutico del giudice sul comando definitivo inevaso essere esercitato entro i confini invalicabili posti dall’oggetto della controversia definita col giudicato. E tuttavìa, ben può, e deve, il giudice dell’ottemperanza enucleare e precisare il contenuto degli obblighi nascenti dalla decisione passata in giudicato, chiarendone il reale significato (Cass. 22188/04), anche in relazione a quegli accessori del credito consacrato nel decisum che non abbiano trovato espressa applicazione da parte del giudice di merito, ma che possano (proprio per tale loro natura) essere considerati ricompresi nella pronuncia da eseguire. La domanda delcontribuente,a seguito del giudicato,può avere ad oggetto, oltre al pagamento della sorte capitale, quello degli interessi legali maturati e maturandi dal pagamento dell’indebito all’effettiva restituzione delle somme versate. Non è ammissibile la domanda di interessi anatocistici nei confronti della Amministrazione finanziaria, proposta per la prima volta nel giudizio di ottemperanza. Perciò ove tali interessi siano stati richiesti in sede di giudizio di ottemperanza, il giudice (nel caso di specie Commissione tributaria provinciale) deve accertare se tale domanda abbia o meno formato oggetto del decisum in sede ordinaria, dichiarando, per l’effetto, inammissibile la domanda stessa se formulata ex novo nel detto giudizio di ottemperanza. E simile inammissibilità può essere rilevata avanti alla Corte di Cassazione che esercita un sindacato pieno sulla correttezza “in diritto” della sentenza emessa nel giudizio di ottemperanza (Sent. n. 22565 del 1° dicembre 2004 della Corte Cass., Sez. tributaria). Non è possibile, a pena di inammissibilità, proporre per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza la domanda di interesse anatocistico nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. Ne consegue che, ove tali interessi siano stati richiesti in sede di giudizio di ottemperanza, il giudice (nel caso di specie Commissione tributaria regionale) deve accertare se tale domanda abbia o meno formato oggetto del decisum in sede di giudizio ordinario, dichiarando inammissibile la domanda stessa, se formulata ex novo nello stesso giudizio di ottemperanza (Sent. n. 11867 del 6 agosto 2003 della Corte Cass., Sez. tributaria).

19 agosto 2014

Ignazio Buscema

1Art. 44, Interessi per ritardato rimborso di imposte pagate:Il contribuente che abbia effettuato versamenti diretti o sia stato iscritto a ruolo per un ammontare di imposta superiore a quello effettivamente dovuto per lo stesso periodo ha diritto, per la maggior somma effettivamente pagata, all’interesse del 6 per cento per ognuno dei semestri interi, escluso il primo, compresi tra la data del versamento o della scadenza dell’ultima rata del ruolo in cui è stata iscritta la maggiore imposta e la data dell’ordinativo emesso dall’intendente di finanza o dell’elenco di rimborso. L’interesse di cui al primo comma è dovuto, con decorrenza dal secondo semestre successivo alla presentazione della dichiarazione, anche nelle ipotesi previste nell’art. 38, quinto comma e nell’art. 41, secondo comma. L’interesse è calcolato dall’ufficio delle imposte, che lo indica nello stesso elenco di sgravio, o dall’intendente di finanza ed è a carico dell’ente destinatario del gettito dell’imposta.

2La disciplina di cui all’art. 44 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, secondo cui il debitore del rimborso d’imposta indica l’imputazione del singolo pagamento parziale a capitale o interessi con riferimento ai distinti capitoli di spesa, deroga nella specifica materia tributaria al disposto dell’art. 1194, c. 2, c.c., secondo cui i pagamenti parziali vanno imputati prima agli interessi e poi al capitale, ed esclude che il debitore possa stabilire l’imputazione dei versamenti stessi (Sent. n. 1486 del 25 gennaio 2005 della Corte Cass., Sez. tributaria).

3 Per le obbligazioni dell’amministrazione finanziaria di rimborso di imposte il contribuente-creditore, che invochi il pagamento degli interessi anatocistici ex art. 1283 c.c., è tenuto ad indicare tutti gli elementi necessari alla liquidazione di essi, a cominciare dalla capitalizzazione del primo semestre di interessi maturati sul capitale ed a formulare la richiesta nell’atto introduttivo del giudizio tributario avente ad oggetto il predetto rimborso, non potendosi i citati interessi considerare un accessorio del credito principale conseguente in via automatica all’accoglimento della domanda di rimborso o di quella degli interessi. (Nella specie, la domanda era stata proposta non nell’atto introduttivo, ma con il ricorso per cassazione, quando gli interessi principali, sui quali avrebbero dovuto maturare gli interessi secondari, erano già estinti per essere stata corrisposta la sorte capitale e gli interessi legali). (Cass. civ. Sez. V, 10-05-2013, n. 11171).

4 In tema di rimborsi d’imposta (nella specie relativi ad IRPEG), gli interessi anatocistici sulle somme dovute a titolo di ritardato rimborso di imposta al contribuente non sono dovuti a decorrere dal 4 luglio 2006, data di entrata in vigore dell’art. 37, c. 50, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248, mentre il principio dettato dall’art. 1283 c.c. continua ad applicarsi per il periodo anteriore, attesa la portata innovativa e non interpretativa dell’art. 37, c. 50, citato (Cass. civ. Sez. V, 19-10-2012, n. 17993).

5 In tema di contenzioso tributario, il giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalle sentenze delle commissioni tributarie, disciplinato dall’art. 70 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è consentito unicamente in presenza di una sentenza esecutiva, che, decidendo nel merito una controversia tra contribuente ed erario, abbia impartito specifiche prescrizioni da eseguire. Ne consegue che è inammissibile il ricorso alla suddetta procedura per ottenere un rimborso d’imposta, ove il giudice tributario non abbia deciso in ordine ad un’istanza di rimborso, ma si sia limitato ad accertare l’illegittimità di un avviso di rettifica in base al quale era stata richiesta al contribuente la restituzione del rimborso stesso (Cass. civ. Sez. V, 18-12-2013, n. 28286).