Concordato preventivo e debiti IVA: il vaglio della Consulta

la Corte Costituzionale non ha ravvisato profili di incostituzionalità nelle norme che tutelano il credito erariale da IVA, in quanto l’IVA è un’imposta europea

SENTENZA N. 225

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Sabino CASSESE; Giudici : Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, sul ricorso proposto da Alkimia srl con ordinanza del 10 aprile 2013, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1.− Il Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, ha sollevato, con ordinanza del 10 aprile 2013, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2014, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del disposto degli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), – di seguito, legge fallimentare – nel testo modificato dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80, dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 28 gennaio 2009, n. 2, e dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122.

Ad avviso del rimettente, il disposto normativo denunciato viola gli evocati parametri costituzionali nella parte in cui prevede che la proposta di concordato contenente una transazione fiscale, con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, possa «prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento».

1.1.− Il giudice a quo premette di essere investito del giudizio di ammissibilità della proposta di concordato preventivo avanzata dalla società Alkimia srl, che prevede di far fronte al pagamento di tutti i creditori privilegiati e delle spese di procedura (per complessivi euro 132.034) mediante apporto esterno del socio, con il ricavato della vendita di un bene personale. Per il credito IVA (euro 280.000) la proposta riconosce all’Erario l’importo di euro 106.467 (pari all’intero valore del patrimonio della società) oltre ad euro 8.677 (pari al 5% del residuo credito degradato a chirografario, costituente classe a sé), con una presumibile percentuale di soddisfazione del 41,12%. La proposta prevede, infine, l’inserimento in due diverse classi degli altri creditori chirografari, ed il soddisfacimento degli stessi con il ricavato della vendita del bene personale del socio (i fornitori, per un credito di euro 359.222, soddisfatti al 20%, e la banca, soddisfatta al 99%).

Una proposta così congegnata garantirebbe la soddisfazione dell’Erario per il credito IVA per un importo pari al patrimonio della società, di gran lunga superiore a quello che la liquidazione fallimentare permetterebbe di acquisire, che − dovendosi detrarre dal ricavato della vendita le spese a carico della massa − sarebbe di soli euro 28.603, pari al 10% dell’intero credito.

1.2.− Il rimettente osserva che, in base al recente orientamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013), il pagamento parziale dell’Erario per il credito IVA «costituisce questione attinente alla possibilità giuridica di ammettere la società al concordato» rimessa alla valutazione esclusiva del Tribunale, e si mostra altresì consapevole del fatto che alla luce del diritto vivente (richiama in proposito le pronunce gemelle della Corte di cassazione, sez. civ., n. 22931 e 22932 del 4 novembre 2011, e la sentenza n. 7667 del 16 maggio 2012) l’inammissibilità del pagamento parziale dell’IVA discende dalla natura sostanziale della previsione dell’art. 182-ter della legge fallimentare, e dalla finalità dell’istituto della transazione fiscale, di approntare una soluzione alla crisi aziendale all’interno della procedura di concordato preventivo.

Condividendo il suddetto approccio interpretativo, il giudice a quo reputa non condivisibile la decisione del Tribunale di Como del 29 gennaio 2013 «per il quale la previsione del pagamento integrale dell’IVA deve considerarsi operante solo nella transazione fiscale e non nel concordato preventivo, non solo perché ciò risulta in aperto contrasto con le citate decisioni della Cassazione ma soprattutto perché l’orientamento della Suprema Corte di equiparazione tra le due fattispecie trova fondamento oggettivo ed indiscutibile nel fatto che anche la transazione fiscale persegue il fine di trovare soluzione extra fallimentare alla crisi dell’azienda all’interno della procedura di concordato preventivo».

Conclude, in punto di rilevanza, affermando che la necessaria applicazione del disposto degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare condurrebbe alla declaratoria de plano di inammissibilità della proposta di concordato preventivo, come articolata nel caso in esame e sottoposta all’approvazione del giudice.

2.− Su tali premesse, il Tribunale ordinario di Verona sostiene che l’applicazione del disposto normativo impugnato, nella delineata interpretazione del giudice di legittimità, comporterebbe la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione sancito dall’art. 97 Cost., in quanto la declaratoria di inammissibilità della proposta impedirebbe all’amministrazione finanziaria di valutare, in relazione al soddisfacimento del credito IVA, la convenienza del piano «non su base astratta con riferimento al parametro ipotetico che preveda il pagamento integrale», ma in concreto e in autonomia, con il conseguente pregiudizio per l’economicità e la massimizzazione delle risorse acquisibili per lo svolgimento dei compiti istituzionali dello Stato.

2.1.− Ad avviso del rimettente si profilerebbe, altresì, la violazione dell’art. 3 Cost., poiché la disciplina censurata riserverebbe alla pubblica amministrazione un trattamento deteriore rispetto agli altri creditori privilegiati, che in base al novellato art. 160 della legge fallimentare, possono optare per la soluzione concordataria quando sia loro attribuito un grado di soddisfazione non inferiore a quello realizzabile in sede liquidatoria. Evidenzia, in proposito, come l’interpretazione della Corte di cassazione, polarizzata sulla natura sostanziale della disposizione dell’art. 182-ter della legge fallimentare, non si sia infatti spinta ad affermare che anche in sede fallimentare debba essere garantito il pagamento integrale del credito IVA.

3.− Il giudice a quo dimostra di non ignorare che la Corte di giustizia CE, nella sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana, ha sancito l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di ogni rinuncia indiscriminata e generalizzata al credito IVA: obietta, tuttavia, che la valutazione, in concreto, dell’opportunità di accettare la proposta − che, nel caso in esame, egli ritiene dovrebbe essere di competenza dell’amministrazione finanziaria − si atteggerebbe alla stregua di una «massimazione possibile della pretesa» riconosciuta dalla stessa Corte di cassazione, che ha ammesso la possibilità di definire una lite tributaria pendente in materia di IVA con il pagamento di una somma inferiore a quanto dovuto all’Erario (sentenza 17 febbraio 2010, n. 3676). Invoca, in proposito, anche la decisione della Corte di giustizia UE 29 marzo 2012, C-500/10 Ufficio IVA di Piacenza contro Belvedere Costruzioni srl.

3.1.− Il rimettente esclude la sussistenza del rischio di un sostanziale svuotamento delle pretese dell’Erario ogni volta che il credito IVA fosse inserito in una classe inidonea a determinare autonomamente l’approvazione della proposta, in ragione del numero delle altre classi, ovvero in relazione all’entità del credito. Deduce, infatti, che pur prevedendo, nel caso in esame, tre classi rispetto alle quali il credito IVA non costituisce, di per sé solo, la maggioranza dei crediti, la proposta di concordato, in relazione al credito IVA, attribuisce all’Erario l’intero attivo della società, rimettendo la soddisfazione degli altri creditori privilegiati agli apporti esterni alla procedura. Sostiene, pertanto, che stante l’assenza di concorso con altri creditori, nella specie è comunque garantito un livello di soddisfacimento del credito IVA «esattamente pari e comunque non inferiore alla più favorevole delle ipotesi immaginabili che potrebbe verificarsi solo se, ai fini del soddisfacimento della sua pretesa, l’Erario promuovesse espropriazione individuale non concorrendo con nessun altro creditore».

4.− Ad avviso del Tribunale ordinario di Verona appare, dunque, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare con riferimento all’art. 97 Cost. «nella parte in cui, rendendo necessariamente inammissibile la proposta concordataria che non preveda il pagamento integrale dell’Iva, non consente alla Pubblica amministrazione di valutare in concreto la convenienza della proposta» che assicuri un grado di soddisfacimento del credito erariale pari al valore dell’attività del proponente e superiore al ricavato della liquidazione fallimentare «violando il principio costituzionale del buon andamento della Pubblica amministrazione che obbliga la stessa a seguire criteri di economicità» e di massimizzazione delle risorse, nonché in relazione all’art. 3 Cost. «nella parte in cui non consente alla Pubblica amministrazione, contrariamente a quanto accade per tutti i creditori privilegiati, di accettare un pagamento inferiore al credito ma superiore a quello ricavabile dalla liquidazione del patrimonio del debitore».

5.− Con memoria depositata il 25 marzo 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

5.1.− Nel ripercorrere l’evoluzione normativa dell’istituto, la difesa erariale deduce che l’art. 32, comma 5, del d.l. n. 185 del 2008 − inserendo nel testo dell’art. 182-ter, della legge fallimentare, l’inciso secondo cui «con riguardo all’imposta sul valore aggiunto […] la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento» − ha definitivamente chiarito che in relazione al credito IVA la transazione fiscale può avere ad oggetto unicamente la dilazione del pagamento. Anche prima del succitato intervento legislativo, ad avviso della deducente, non era peraltro ammessa la falcidiabilità del credito IVA in base all’interpretazione adottata dalla Agenzia delle entrate con la circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, la quale richiamava «l’ottavo considerando della Direttiva CE del 28 novembre 2006, n. 112 (Direttiva CE del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) che affermava che «in applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è integralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’altro, quelle provenienti dall’IVA, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie».

6.− L’Avvocatura dello Stato invoca, dunque, il principio sovranazionale di intangibilità dell’imposta sul valore aggiunto − tributo disciplinato da direttive comunitarie per contribuire al finanziamento dell’Unione europea −, al quale è chiamato ad attenersi il legislatore nazionale in forza della clausola di adeguamento scaturente dall’art. 11 Cost. Aggiunge che le norme comunitarie che disciplinano il sistema delle risorse proprie dell’Unione europea (cita la decisione del Consiglio dell’Unione europea del 7 giugno 2007, n. 2007/436/CE) costituiscono norme interposte ai fini del giudizio di costituzionalità delle norme interne, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. Da ciò fa discendere la conformità alla Costituzione delle disposizioni dettate dagli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, e la conseguente infondatezza della censura sollevata in relazione all’art. 97 Cost.

6.1.− Quanto al contrasto con l’art. 3 Cost., prospettato dal rimettente sul rilievo che la regola dell’intangibilità del credito IVA varrebbe solo per la procedura concordataria e non per quella fallimentare, la difesa erariale pone in luce che lo scopo del concordato preventivo è di consentire all’impresa di continuare la propria attività previa approvazione di un piano di ristrutturazione dei debiti da parte dei creditori: in questo caso, l’indisponibilità del credito IVA risponde alla ratio di evitare che l’Erario sia soggetto all’arbitrio dei creditori. Diversamente, rappresenta come tale rischio non ricorra nella procedura fallimentare preordinata alla liquidazione dell’impresa e al soddisfacimento dei creditori con l’attivo residuo, in quanto il Tribunale, una volta emessa la sentenza che dichiara il fallimento, approva lo stato passivo con atto autoritativo. Conclude rimarcando che le differenze tra concordato preventivo e fallimento − che giustificano la ragionevolezza della diversa disciplina in base alla quale alla dichiarazione di fallimento consegue inevitabilmente la riduzione del credito IVA − sono state fissate a livello europeo con la raccomandazione n. 2007/C/272/05 della Commissione europea, secondo la quale il fallimento produce un’eccezione alla regola dell’integrale recupero degli aiuti di Stato, affermando che la dichiarazione di fallimento costituisce «un’esimente per lo Stato membro che non effettua l’integrale recupero dell’aiuto illegale nei confronti del soggetto fallito».

Considerato in diritto

1.− Con l’ordinanza del 10 aprile 2013, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, della legittimità del disposto degli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), – di seguito, legge fallimentare – nel testo modificato dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80, dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 28 gennaio 2009, n. 2, e dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122.

Ad avviso del rimettente, le disposizioni denunciate violano gli evocati parametri nella parte in cui prevedono che la proposta di concordato contenente una transazione fiscale, con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, possa «prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento».

1.1.− Prima di esaminare, nel merito, le singole censure, giova evidenziare che il disposto normativo sospettato di illegittimità costituzionale delinea il quadro nel quale si innesta: a) «il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato» (così, espressamente, la pronuncia della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 1521 del 23 gennaio 2013) di cui il giudice a quo è consapevole di essere investito, essendo chiamato a verificare la ricorrenza dei «presupposti per l’ammissione alla procedura», ai sensi dell’art. 160 della legge fallimentare, di un piano di concordato che costituisce strumento operativo della proposta; b) la disciplina sostanziale del trattamento dei crediti nell’ambito della procedura concorsuale − comprendente l’art. 182-ter − la quale, come posto in luce dalla giurisprudenza di legittimità, «è dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi» (in tal senso le pronunce gemelle della Corte di cassazione, sez. civ., n. 22931 e 22932 del 4 novembre 2011); c) la transazione fiscale, che costituisce una peculiare procedura transattiva tra il contribuente e il fisco, che può autonomamente integrare il piano previsto dall’art. 160 della legge fallimentare e deve essere parimenti sottoposta al sindacato di fattibilità giuridica del Tribunale. Ricorrendo a tale istituto − la cui applicazione all’ordinamento tributario è del tutto innovativa − l’imprenditore in crisi può proporre alle agenzie fiscali o agli enti gestori di forma di previdenza e assistenza obbligatorie, il pagamento parziale ovvero dilazionato dei tributi o dei contributi e dei relativi accessori, in deroga al principio generale di indisponibilità e irrinunciabilità del credito da parte dell’amministrazione finanziaria.

1.2.− Va premesso, altresì, che l’art. 182-ter, comma 1, della legge fallimentare − inserito dall’art. 146, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006, sostituito dall’art. 32, comma 5, lettera a), del d.l. n. 185 del 2008, e, successivamente, modificato dall’art. 29, comma 2, lettera a), del d.l. n. 78 del 2010 − prevede, in base alla natura ed alle garanzie che assistono i crediti tributari e contributivi, una triplice delimitazione legale del contenuto della transazione fiscale.

In particolare: 1) i crediti tributari (o contributivi), «limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria», possono costituire oggetto di transazione fiscale remissoria (pagamento parziale) o dilatoria (pagamento dilazionato), con l’eccezione (prevista sin dalla prima introduzione dell’istituto) dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, e purché il trattamento non sia differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole; 2) per i crediti tributari (o contributivi) assistiti da privilegio «la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie»; 3) con riguardo all’imposta sul valore aggiunto (ed alle ritenute operate e non versate) la proposta di transazione fiscale «può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento».

2.− Sulla base dei suindicati elementi, deve ritenersi rilevante la questione.

Ed infatti, adottando un’interpretazione degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, nel quadro del diritto vivente in materia di estensione del sindacato giurisdizionale alla fase di ammissione dell’imprenditore alla procedura di concordato preventivo, il giudice a quo è consapevole di doversi pronunciare sulla «fattibilità giuridica» del concordato, e in particolare sulla possibilità giuridica di ammettervi una società in base ad un piano che contiene, tra l’altro, una proposta di transazione fiscale che prevede il pagamento parziale del tributo IVA. Afferma, di conseguenza, che la declaratoria di ammissibilità del concordato non può prescindere dall’esito positivo dello scrutinio di legittimità avente ad oggetto la proposta di transazione fiscale.

3.− L’attenzione deve dunque incentrarsi sul credito dell’Erario per l’IVA, tributo del quale, nel caso in esame, la proposta di transazione fiscale prevede la falcidia, e non la dilazione del pagamento, come espressamente previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare.

Anche prima della novella del 2008 si sosteneva che il credito IVA non potesse costituire oggetto di transazione fiscale, sull’assunto che si trattasse di un tributo costituente risorsa propria dell’Unione europea. Oltre all’Agenzia delle entrate (circolare n. 40/E del 18 aprile 2008) in tal senso si pronunciava la giurisprudenza di legittimità (nelle citate sentenze n. 22931 e 22932 del 2011), la quale rimarcava l’intangibilità dell’IVA nel solco di un’interpretazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare ante-riforma che intendeva «[…] il richiamo al tributo come risorsa riferito non già al gettito effettivo […] bensì alla specie del tributo individuata quale parametro per il trasferimento di risorse all’Unione e la cui gestione, sia normativa che esecutiva, è di interesse comunitario e come tale sottoposta a vincoli».

I rilievi che precedono ben sintetizzano la natura dell’IVA come imposta la cui disciplina è fortemente armonizzata a livello comunitario in quanto «risorsa propria» dell’Unione europea. Ciò spiega i vincoli derivanti per gli Stati membri nell’accertamento e nella riscossione dell’imposta in esame.

3.1.− In tale quadro si colloca la novellata formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare in materia di transazione fiscale, che, nel troncare ogni dubbio sulla falcidiabilità del credito erariale per l’IVA, ha espressamente chiarito − come emerge dalla Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 185 del 2008 − che la disposizione volta ad escludere il pagamento parziale dell’IVA in sede di concordato preventivo è scaturita dalla necessità di non contravvenire alla «normativa comunitaria che vieta allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica». Dai medesimi lavori preparatori si evince che il riferimento è ai principi contenuti nella direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, 2006/112/CE, che ha operato la rifusione delle norme che costituiscono il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, sostituendo, dal 1° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 1977/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari.

4.− Un rapido excursus dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’IVA comunitaria si impone per focalizzare il principio dell’intangibilità dell’IVA, che in materia di transazione fiscale ha ispirato le pronunce del giudice di legittimità e ha connotato la disciplina dettata dal legislatore nazionale, in conformità al rilievo sovranazionale dell’imposta.

4.1.− Il sistema comune IVA − riferibile alle cessioni di beni e alla prestazione di servizi da parte dei singoli nell’ambito dell’Unione europea, nonché agli acquisti intracomunitari di beni tra Stati membri − si propone, attraverso l’armonizzazione della disciplina della base imponibile e la determinazione di livelli di aliquote sufficientemente ravvicinati tra gli Stati membri, di attuare nel tempo la neutralità dell’imposta ai fini della concorrenza.

Con le direttive del Consiglio 11 aprile 1967 − la 67/227/CEE (Prima direttiva in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari) e la 67/228/CEE (Seconda direttiva in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari) − fu stabilito che entro il 1° gennaio 1972 i sistemi nazionali di imposta sulla cifra d’affari dovessero essere gradualmente sostituiti con un sistema comune basato sul principio della neutralità, in base al quale i beni e i servizi simili dovevano essere assoggettati allo stesso carico fiscale in ogni Stato membro.

Significative modifiche furono apportate con la direttiva del 17 maggio 1977, 1977/388/CEE (Sesta direttiva del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme), la quale diede attuazione alla decisione del Consiglio dei Ministri delle Comunità europee adottata a Lussemburgo il 21 aprile 1970. Con tale decisione – essendo stato raggiunto l’accordo definitivo per il passaggio dal finanziamento del bilancio delle Comunità europee con i contributi nazionali degli Stati membri al sistema di risorse proprie, come previsto dall’art. 201 del Trattato di Roma (poi art. 269 del Trattato istitutivo della Comunità europea, e, dal 1° dicembre 2009, dall’art. 311 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) – fu introdotta, accanto alle risorse tradizionali (prelievi agricoli e dazi doganali), la terza risorsa proveniente dall’IVA riscossa nei singoli Stati.

Con il Trattato firmato a Lussemburgo il 22 aprile 1970 fu data esecuzione alla decisione del 21 aprile 1970, attuata in Italia con il decreto legislativo 16 aprile 1971, n. 321 (Attuazione della decisione del Consiglio dei Ministri delle Comunità europee relativa alla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie delle Comunità, adottata a Lussemburgo il 21 aprile 1970, e dei regolamenti comunitari relativi al finanziamento della politica agricola comune, in applicazione dell’art. 3 della L. 23 dicembre 1970, n. 1185).

La direttiva 28 novembre 2006, 2006/112/CE (Direttiva CE del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) ha infine attuato la rifusione delle norme che costituiscono il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto. Entrata in vigore dal 1° gennaio 2007, essa costituisce una sorta di testo unico di tutte le norme in materia, coordinando le modifiche succedutesi nel tempo. In particolare, l’«ottavo considerando» della direttiva in parola afferma che «In applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è integralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’altro, quelle provenienti dall’IVA, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie».

4.2.− La giurisprudenza della Corte di giustizia UE assume indubbia rilevanza nel delineare la funzione assolta dall’imposta sul valore aggiunto nel sistema finanziario dell’Unione europea, e, dunque, per il concreto inquadramento dei limiti imposti al legislatore nazionale dal recepimento della normativa comunitaria in materia di IVA.

La Corte di Lussemburgo − quale «interprete qualificato» del diritto comunitario, di cui «precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative» (sentenza n. 389 del 1989) − ha ribadito che l’indisponibilità dell’applicazione della disciplina comunitaria dell’IVA da parte degli Stati membri impedisce a questi ultimi di rinunciare all’accertamento dell’imposta, in quanto ciò pregiudicherebbe la riscossione di una risorsa propria delle Comunità europee. Ha così ritenuto in contrasto con la Sesta direttiva del 1977 il regime tributario con cui lo Stato non instaura modalità semplificate di imposizione e riscossione dell’imposta, ma esenta le imprese dall’obbligo di dichiarazione e versamento (sentenza 28 settembre 2006, causa C-128/05 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica d’Austria).

Ha dichiarato, altresì, il contrasto con l’ordinamento comunitario del «condono tombale» in materia di IVA (in tal senso anche la sentenza n. 247 del 2011), ed ha rimarcato l’incompatibilità con la disciplina comunitaria dell’IVA della rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi imposta (sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07; analogamente, sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana).

4.3.− Nel valutare la latitudine applicativa della disciplina interna della transazione fiscale avente ad oggetto il pagamento del credito IVA − che nella sola modalità dilatoria prevista dalla legge pregiudicherebbe, a detta del rimettente, il potere dell’amministrazione finanziaria di accettare, pur subendo una falcidia, un importo superiore a quello ricavabile dalla liquidazione del patrimonio del debitore −, questa Corte non può dunque discostarsi dall’articolato quadro normativo di riferimento dell’IVA comunitaria.

Come posto in luce dalla Corte di cassazione, la cogenza della disciplina sovranazionale si esprime nell’«assorbimento» degli obblighi facenti capo al legislatore nazionale di accertamento, controllo e riscossione dell’imposta e nell’obbligo gravante sullo Stato membro di assicurare l’effettiva riscossione di quella che è una risorsa propria delle Comunità europee: «All’interno di questi limiti rigorosi deve ritenersi legittimo il ricorso del legislatore a meccanismi agevolativi che garantiscano effettivamente un maggior gettito finale senza peraltro indurre in alcun modo i contribuenti a dichiarare una parte del dovuto e senza attribuire loro la possibilità di sottrarsi al pagamento del dovuto con il versamento di importi forfettari non correlati all’imposta dovuta e produttivi di una quasi esenzione-fiscale» (Corte di cassazione, sez. civ., n. 20068 del 18 settembre 2009).

5.− Dalla lettura dell’ordinanza di rimessione emerge che il giudice a quo non dubita del fatto che la disciplina censurata sia stata ispirata dal diritto comunitario, dato che afferma che «la previsione legislativa oggetto di censura in questa sede trova diretto fondamento nella nota pronuncia della Corte di Giustizia Europea 17 luglio 2008 C-132/06 che ha sancito l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di ogni rinuncia indiscriminata e generalizzata» all’accertamento e alla riscossione dell’IVA.

La valutazione relativa alla «compatibilità comunitaria» della disciplina impugnata − che secondo la giurisprudenza di questa Corte costituisce il «prius logico e giuridico» della questione di legittimità costituzionale (tra le tante, sentenza n. 241 del 2010) − può dunque ritenersi correttamente espletata dal rimettente che non ha, infatti, denunciato a questa Corte la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., che costituiscono i parametri costituzionali da attivare laddove il giudice comune ravvisi un contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta (ex plurimis, ordinanza n. 207 del 2013, sentenze n. 75 del 2012, n. 227 del 2010, n. 102 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007).

5.1.− In tale prospettiva, e prima di vagliare, nel merito, le singole censure di illegittimità costituzionale, questa Corte non può esimersi dal valutare il tentativo del rimettente di veicolare un’interpretazione della disciplina comunitaria dell’IVA e delle statuizioni della Corte di Lussemburgo idonea, a suo avviso, a superare i sollevati dubbi relativi all’assoluta impraticabilità di decisioni che determinino una riduzione della base imponibile dell’IVA.

Il Tribunale ordinario di Verona asserisce, in particolare, che in base alla pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 3676 del 17 febbraio 2010) non sarebbe lesiva del principio comunitario, che vieta ogni rinuncia generalizzata all’accertamento del credito IVA, «la possibilità concessa dall’art. 16 della legge 289 del 2002 di definire una lite pendente in materia di IVA con il pagamento di una somma inferiore a quanto dovuto in funzione del vantaggio dipendente dalla chiusura della lite in corso». Sostiene che detta modalità di definizione del contenzioso tributario in materia di IVA renderebbe praticabile, anche in sede di transazione fiscale, una razionale (e quindi costituzionale) ottimizzazione possibile della pretesa erariale. Ritiene pertanto non implausibile, in tale ottica, un intervento sugli artt. 160 e 182-ter, della legge fallimentare, che possa consentire all’amministrazione finanziaria di valutare, in concreto, la convenienza di una proposta di transazione fiscale che prospetti il pagamento parziale del credito IVA.

A sostegno del proprio assunto, il rimettente invoca anche la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (sentenza 29 marzo 2012, causa C-500/10 Ufficio IVA di Piacenza contro Belvedere Costruzioni srl).

5.2.− Una siffatta lettura delle citate pronunce non è condivisibile in ragione dell’erronea premessa ermeneutica da cui muove il giudice a quo, in base alla quale la chiusura delle liti fiscali pendenti, prevista e disciplinata dall’art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2003), sarebbe espressione del riconoscimento, da parte del giudice comunitario, del potere del legislatore statale di rinunciare, in casi singoli, all’accertamento e alla riscossione dell’IVA.

Giova, al riguardo, ribadire che sia questa Corte sia il Giudice europeo hanno affermato che il «condono tombale» disciplinato dagli artt. 8 e 9 della sopra citata legge n. 289 del 2002 si pone in distonia con il quadro normativo di riferimento dell’IVA comunitaria. Oltre alla consolidata giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, in tal senso si è pronunciata anche questa Corte, che ha sottolineato l’incontestata vigenza del principio dell’«assoluta irrilevanza del condono (ancorché perfezionato) sui poteri di accertamento dell’amministrazione finanziaria con riferimento alla sussistenza dei crediti vantati dal contribuente» (sentenza n. 247 del 2011).

5.3.− Erra dunque il rimettente nel ritenere che lo Stato italiano, nel disciplinare la chiusura delle liti fiscali pendenti in forza dell’art. 16 della legge n. 289 del 2002, possa aver contravvenuto all’obbligo, di fonte sovranazionale, di assicurare l’accertamento e l’integrale riscossione dell’IVA nel proprio territorio. Sotto tale profilo, e contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, con la pronuncia del 29 marzo 2012, la Corte di Lussemburgo ha rimarcato che si è trattato di una «disposizione nazionale eccezionale» emanata al fine di assicurare il rispetto del principio della ragionevole durata del giudizio, con l’estinzione automatica dei procedimenti ultradecennali pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado, nei quali l’amministrazione tributaria era risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio, misura ritenuta compatibile con il principio di neutralità fiscale in ragione del carattere contestato, e dunque incerto, del credito di imposta.

Un’identica interpretazione della norma è stata adottata dalla Corte di cassazione, sul rilievo, dirimente, della diversa finalità della disciplina della chiusura delle liti fiscali pendenti, di attuare non «la definizione dell’imposta bensì la definizione di una lite in corso tra contribuente ed amministrazione, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite stessa al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti» (ordinanza n. 3675 del 2010, e, nello stesso senso, sentenze n. 3676 e 3677 del 2010).

6.− Venendo all’esame delle singole censure, con la prima di esse viene affermato che il disposto degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare si porrebbe in contrasto con l’art. 97, Cost., poiché, conducendo alla declaratoria de plano di inammissibilità della proposta di concordato contenente una transazione fiscale che non preveda l’integrale pagamento dell’IVA, non consentirebbe all’amministrazione finanziaria di valutare, in concreto, la convenienza del piano che prospetti un grado di soddisfazione del credito tributario in misura pari al valore delle attività del debitore e non inferiore a quanto ricavabile dalla vendita in sede di liquidazione fallimentare, così ledendo il principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione che obbliga la stessa a seguire criteri di economicità e di massimizzazione delle risorse.

Con la seconda censura, il rimettente lamenta la violazione dell’art. 3 Cost., deducendo che la disciplina impugnata riserverebbe all’amministrazione finanziaria un trattamento deteriore rispetto agli altri creditori privilegiati, non consentendole di poter accettare, in relazione al credito IVA, un pagamento inferiore all’importo del tributo ma superiore a quanto ricavabile dalla liquidazione del patrimonio del debitore.

6.1.− Va preliminarmente rilevato, alla luce dell’excursus compiuto, come entrambe le censure si fondino su una lettura delle norme impugnate che si pone contro una disciplina − qual è quella della transazione fiscale, come ridisegnata nel 2008, al culmine della riforma delle procedure concorsuali − che per il legislatore nazionale è stata un’opzione che non poteva non risentire degli obiettivi introdotti con le decisioni e le direttive del Consiglio dell’Unione europea a partire dagli anni ‘70, in tema di armonizzazione dell’IVA comunitaria, e dei principi elaborati, in sede applicativa, dalla Corte di giustizia UE e dal giudice interno di legittimità.

Si è già detto che è la natura dell’IVA quale «risorsa propria» dell’Unione europea a spiegare i vincoli per gli Stati membri nella gestione e riscossione dell’imposta, come pure l’inderogabilità della disciplina interna del tributo e, nella specie, la formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare, che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria all’infuori di specifica previsione normativa che ne preveda la rideterminazione, ha escluso la falcidiabilità del credito IVA in sede di transazione fiscale, consentendone soltanto la dilazione del pagamento.

6.2.− Tanto evidenziato, la questione riferita all’art. 97 Cost. non è fondata, non essendo, in relazione a tale parametro, ipotizzabile il contrasto con la disciplina della transazione fiscale, dedotto dal rimettente in base al presupposto che dall’inammissibilità de plano della proposta di concordato che preveda il pagamento parziale dell’IVA deriverebbe nocumento al buon andamento dell’attività dell’amministrazione finanziaria.

Infatti, la previsione legislativa della sola modalità dilatoria in riferimento alla transazione fiscale avente ad oggetto il credito IVA deve essere intesa come il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo. È pacifico, altresì, che la disciplina censurata ha formalizzato la soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità e dalla normativa secondaria di settore già nel vigore della precedente formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare, che escludeva dall’oggetto dell’accordo fiscale i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea.

Giova infine sottolineare come il vulnus per i «criteri di economicità» e di massimizzazione «delle risorse» − che il giudice a quo pone in relazione all’impossibilità per l’amministrazione finanziaria di valutare, in concreto, la convenienza di un pagamento parziale dell’IVA che realizzi un grado di soddisfacimento del credito in misura non inferiore al valore della liquidazione fallimentare − sia smentito dalla ratio della vigente disciplina della transazione fiscale. La previsione di una deroga al principio di indisponibilità della pretesa tributaria normativamente circoscritta alla sola dilazione di pagamento dell’IVA non è irragionevole e si giustifica − sul piano prognostico − proprio per il persistere, in capo all’amministrazione finanziaria, della possibilità di riscuotere il tributo in futuro, con la contestuale approvazione di un piano di concordato idoneo a consentire il graduale superamento dello stato di crisi dell’impresa.

7.− Le considerazioni che precedono conducono alla non fondatezza della censura rivolta alla disciplina della transazione fiscale in relazione all’art. 3 Cost., sollevata in base ad argomentazioni che parimenti denunciano la disparità di trattamento dell’amministrazione finanziaria rispetto alle altre categorie di creditori, i quali, ad avviso del rimettente, in base al novellato art. 160 della legge fallimentare possono optare per la soluzione concordataria quando al loro credito sia attribuito un grado di soddisfazione non inferiore a quello realizzabile sul ricavato in sede di liquidazione.

Anche in questo caso, infatti, la prospettazione del Tribunale rimettente fa leva su una simmetria normativa con i crediti privilegiati di altra natura, e sul possibile soddisfacimento parziale degli stessi «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione» (art. 160, comma 2, della legge fallimentare).

Un siffatto ragionamento attua, tuttavia, un accostamento fra i trattamenti differenziati che la disciplina del concordato fallimentare riserva alle diverse categorie di creditori, e segue un approccio ricostruttivo che non è condivisibile, in considerazione della più volte sottolineata peculiarità della regolamentazione della transazione fiscale del credito IVA.

In particolare, il tertium comparationis evocato dal giudice a quo concerne i crediti privilegiati non tributari, per i quali la falcidiabilità in sede di concordato preventivo è ammessa, in generale, dal citato art. 160, comma 2, della legge fallimentare. Tra tale disciplina e quella specificamente dettata per il credito IVA, si frappone, ancora, il regime previsto dalla seconda parte dell’art. 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per i crediti tributari (o contributivi) assistiti da privilegio − per i quali «la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore […]» − e per i crediti tributari (o contributivi) aventi natura chirografaria, per i quali «il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari, ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole».

A nessuna delle tradizionali categorie di crediti privilegiati e chirografari è riconducibile il credito IVA, per il quale esiste una disciplina eccezionale attributiva di un «trattamento peculiare e inderogabile» (Corte di cassazione, sez. civ., n. 22931 del 2011), che consentendo esclusivamente la transazione dilatoria è tesa ad assicurare il pagamento integrale di un’imposta assistita da un privilegio di grado postergato (qual è appunto l’IVA), in deroga al principio dell’ordine legale delle cause di prelazione.

7.1.− La questione, pertanto, non è fondata, non essendovi profili di intrinseca irragionevolezza nella disciplina dettata dal disposto degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, la quale, ai fini dell’ammissibilità del piano di concordato contenente una proposta di transazione fiscale, regolamenta diversamente il credito erariale IVA, riservando ad esso un trattamento necessariamente differenziato non solo rispetto ai crediti privilegiati in generale, ma anche nei confronti degli altri crediti tributari assistiti da privilegio.

Oltre che sull’inammissibile raffronto tra fattispecie normative eterogenee − che riflette, come si è detto, un’opzione del legislatore interno necessitata dalla peculiare disciplina dell’IVA derivante dalle regole comunitarie − la non fondatezza della questione riposa, altresì, sul rilievo che la norma interna in materia di transigibilità del credito IVA è, di per sé, disciplina eccezionale rispetto al principio dell’indisponibilità della pretesa erariale. Come affermato da questa Corte «non costituisce fonte di discriminazione costituzionalmente rilevante il fatto che il legislatore abbia delimitato l’ambito di applicazione della norma, in quanto […] non è fonte di illegittimità costituzionale il limite alla estensione di norme che, come quella in esame, costituiscono deroghe a principi generali» (sentenza n. 112 del 2013, e, nello stesso senso, ordinanza n. 49 del 2013).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del disposto degli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo modificato dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80, dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), dal decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 28 gennaio 2009, n. 2, e dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, sezione fallimentare, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2014.

F.to:

Sabino CASSESE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2014.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI