Abuso del diritto in caso di conferimento d'azienda con successiva cessione delle quote

L’operazione di conferimento d’azienda in società e successiva cessione delle partecipazioni sociali si espone alla contestazione da parte del Fisco di operazione elusiva se effettuata al solo scopo di ridurre l’impatto fiscale della cessione d’azienda.

L’atto va tassato secondo l’effetto e non la forma 

Il tema controverso dell’abuso del diritto si inserisce all’interno di tutti i tentativi che sono stati compiuti per salvaguardare i principi dell’ordinamento tributario rispetto ai comportamenti attuati in aggiramento di essi.

Giacché infatti le disposizioni tributarie sono specifiche, analitiche e caratterizzate da un certo tecnicismo, è abbastanza facile che ne venga evitata l’applicazione – se sfavorevole al contribuente – semplicemente evitando di far sorgere il relativo presupposto giuridico-formale (ma salvaguardando però l’effetto economico ricercato).

In epoca ben anteriore alla codificazione in una norma di diritto positivo come è l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, la giurisprudenza di legittimità tentava di estendere ad altri settori impositivi il principio sostanziale contenuto nell’art. 20 del Testo Unico dell’Imposta di Registro – D.P.R. n. 131/1986 -, in base al quale l’atto viene tassato secondo il suo effetto e non secondo la sua forma.

Questo principio riemerge in una sentenza recente – Cassazione, sezione tributaria, 18.12.2013 n. 28259 – secondo la quale, nell’ambito dell’imposta di registro, la valutazione complessiva dell’eventuale intento elusivo deve estendersi anche agli atti compiuti da soggetti terzi rispetto al contribuente principale.

Nel caso di specie, che può essere esaminato alla luce delle varie elaborazioni giurisprudenziali in materia di abuso del diritto, alcune società facenti parte di un gruppo avevano conferito l’azienda nella capogruppo, cedendo successivamente le partecipazioni ricevute a seguito del conferimento.

Secondo la Corte, le varie operazioni poste in essere dovevano essere esaminate congiuntamente, in un’ottica tesa all’individuazione del reale effetto conseguito dai vari soggetti agenti.

 

La tassazione dell’atto secondo natura ed effetti

L’art. 20 del T.U. 26.4.1986, n. 131, impone l’applicazione dell’imposta di registro secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto.

L’art. 1362, c.c., richiede invece l’applicazione del contratto secondo la comune intenzione dei contraenti.

A queste disposizioni normative possono affiancarsi:

  • nel settore delle imposte sui redditi, l’art. 37-bis, D.P.R. 29.9.1973, n. 600, applicabile a una serie di atti, fatti e negozi (soprattutto operazioni straordinarie di impresa) tassativamente determinati, anche in combinazione tra loro;

  • nel settore dell’IVA, gli indirizzi «anti-abuso» promananti (più che dalla normativa) soprattutto dalla giurisprudenza della CGCE e della Corte di Cassazione.

Il richiamato art. 1362 del codice civile è rubricato «intenzione dei contraenti» e stabilisce al primo comma che

«nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole».

Il secondo comma dell’articolo aggiunge che «per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto».

Secondo una posizione affermata in dottrina, l’art. 20 del T.U. n. 131/1986, in quanto espressione del principio civilistico, possiederebbe una sorta di forza espansiva nei confronti degli altri settori impositivi.

 

I riscontri giurisprudenziali

Alcune sentenze della Suprema Corte sono intervenute in materia di comportamenti abusivi ai fini dell’imposta di registro; in particolare, si possono qui rammentare le seguenti pronunce della sezione tributaria:

  • sentenza n. 14900 del 23.11.2001: in tale pronuncia, i giudici di legittimità hanno preso in considerazione una fattispecie nella quale l’ufficio aveva proceduto alla riqualificazione giuridica di alcuni negozi coordinati (stipula di contratto di mutuo ipotecario su un immobile; conferimento dell’immobile in società per il valore al netto della passività del mutuo accollata alla conferitaria; cessione delle quote da parte del conferente alla società conferitaria).
    Ponendo in luce il collegamento funzionale tra i contratti stipulati, il fine pratico degli stessi è stato quindi ricondotto – secondo uno schema «a gradini» – a una finalità elusiva. In particolare, è risultato che il trasferimento era stato effettuato per il valore integrale dell’immobile, il corrispettivo del quale era costituito – in aggiunta a quello formalmente conferito – dal rilevante importo del mutuo ipotecario, il quale, percepito dalle conferenti, era stato accollato alla società.
    Da ciò conseguiva, secondo l’ufficio, che l’atto di conferimento avrebbe dovuto essere assoggettabile a tassazione per l’intero, e non per la sola differenza rispetto all’importo dell’ipoteca.
    La Corte, aderendo alla tesi dell’ufficio, ha ritenuto sussistere – in virtù del collegamento negoziale – un intento oggettivamente unico;

  • sentenza n. 2713 del 4.12.2001, depositata il 25.2.2002: in essa i giudici hanno nuovamente osservato che l’interprete dell’atto deve quindi privilegiare la sostanza sulla forma, ossia «il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto ai dati formalmente enunciati anche frazionatamente in uno o più atti», in modo da enucleare nella sequenza di atti apparentemente posti in essere il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario.
    Tale soluzione sortisce dalla combinazione tra l’art. 20, appunto, e l’art. 1, del T.U. dell’imposta di registro, l’uno rappresentante la «specificazione» della regola generale in base alla quale l’imposta è dovuta per gli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati per la registrazione;

  • sentenza n. 10660 del 16.4.2003, depositata il 7.7.2003: giacché l’interpretazione degli atti deve avvenire alla luce del più volte citato art. 20, che impone di guardare all’intrinseca natura e agli effetti giuridici degli atti, l’interpretazione di un negozio va condotta attribuendo rilievo preminente alla causa reale del medesimo e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti.
    Anche se l’intento è raggiunto attraverso più negozi coordinati, quindi (nel caso specifico, attraverso la separata vendita di un’azienda e dell’immobile strumentale), doveva essere riconosciuto che le parti avevano perseguito l’obiettivo di sottrarre l’alienazione dell’immobile all’imposta proporzionale di registro, sottoponendola ad IVA;

  • sentenza n. 4220 del 6.10.2005, depositata il 24.2.2006: alla luce di tale pronuncia, che come le altre richiama l’art. 20, l’imposta si applica secondo la natura e gli effetti giuridici dell’atto, e le successive rettifiche dello stesso, che ne integrano e ne completano gli effetti giuridici, costituiscono sul piano negoziale nuovi atti, separatamente tassabili;

  • sentenza n. 10273 del 14.3.2007, depositata il 4.5.2007: in tale sentenza è stato affermato che occorre stabilire cosa le parti hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato, senza che assuma rilevanza la precisa volontà; in particolare, era respinto il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima la tassazione come cessione d’azienda di un atto formalmente qualificato dalle parti come cessione di immobili e macchinari;

  • sentenza n. 24552 dell’11.10.2007, depositata il 26.11.2007, nella quale la Corte ha ribadito che l’interprete della norma, sulla base dei canoni ermeneutici civilistici, deve individuare l’esatta regolamentazione degli interessi perseguiti dai contraenti anche attraverso negozi collegati e pattuizioni non contestuali.

 

 

Il collegamento negoziale

In generale, il comportamento elusivo viene ricondotto a una fattispecie complessa, comprendente una sequenza di vari atti o eventi.

Tali eventi possono compiersi nello stesso momento (più atti o contratti stipulati lo stesso giorno), ovvero in momenti diversi, così come possono essere palesi o – parzialmente – occulti.

In questa prospettiva, un determinato comportamento può essere in sé considerato completamente legittimo e insuscettibile di generare conseguenze tributarie vantaggiose, ma a esso può far seguito un altro comportamento (non immediatamente palesato dal contribuente), che nella sua connessione con il primo genera l’effetto desiderato dall’«elusore».

Il collegamento negoziale assume rilevanza nel contesto dell’imposta di registro, come può essere ben compreso considerando la seguente fattispecie (che è stata oggetto della sentenza della CTP di Ravenna n. 223 del 10.5.2007, depositata il 19.3.2008):

  • una persona fisica aveva conferito un immobile di proprietà, ereditato e gravato da una passività (in quanto su tale immobile era stato ottenuto poco tempo prima dal de cuius un finanziamento ipotecario) ad una società di capitali preesistente, formata da soli due soci;

  • il conferente era divenuto esso stesso socio della società (anche se in misura percentualmente modesta);

  • nella tassazione del conferimento si era tenuto conto della passività già esistente sull’immobile conferito, corrispondendo dunque le imposte di trasferimento (registro, ipotecaria e catastale) solo sul valore netto di conferimento;

  • 34 giorni dopo, la nuova socia – ossia la ricorrente, titolare di una quota inferiore al 3% del capitale sociale (a seguito del conferimento eseguito) – aveva ceduto l’intera partecipazione detenuta ai due soci originari.

 

Secondo lo schema che era stato riconosciuto dall’ufficio fiscale, e sostanzialmente condiviso dai giudici, dal coordinamento negoziale sopra schematizzato (conferimento dell’immobile per un valore determinato al netto delle passività accollate alla conferitaria, seguito dalla cessione delle quote) emergeva l’intenzione della parti di assoggettare l’operazione – anziché all’ordinario trattamento previsto per le compravendite immobiliari – al più vantaggioso trattamento riconosciuto alle operazioni straordinarie.

 

 

L’orientamento del Notariato

Il Consiglio Nazionale del Notariato (CNN), nello studio n. 95/2003/T, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 26.3.2004, ha avversato la linea interpretativa portata avanti dalla Cassazione, la quale aveva individuato in talune concatenazioni di atti delle fattispecie unitarie a formazione progressiva, produttive di un unico effetto giuridico finale, identificato nella cessione dell’immobile o dell’azienda ai terzi, formali acquirenti delle quote sociali.

Secondo il CNN, la riqualificazione degli atti in funzione antielusiva causava

«l’assoggettamento alla più gravosa imposta di registro dovuta per gli atti traslativi di immobili e aziende», traducendosi in un maggior onere tributario non previsto per gli atti formalmente posti in essere.

Lo Studio richiamato ritiene inattendibile l’impostazione interpretativa della Cassazione, imperniata sull’art. 20 del T.U., affermando – sulla base di una ricostruzione storica della norma – che gli effetti dell’atto da salvaguardare sarebbero quelli giuridici, e non già quelli economici.

Tali effetti giuridici verrebbero quindi a identificarsi con quelli civilistici, sicché l’ufficio potrebbe certamente ricostruire la reale natura dell’atto al di là del nomen iuris, ma non potrebbe «andare al di là della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dell’atto».

Occorre infatti inquadrare l’art. 20 all’interno di un contesto normativo costituzionale che poggia sugli artt. 23 (riserva di legge), 41 (tutela dell’iniziativa economica privata) e 53 (capacità contributiva) della Carta fondamentale, e in tale prospettiva non si giustificherebbe

«una giurisprudenza creativa che pretende di travalicare gli effetti giuridici, cui fa espresso riferimento il suddetto art. 20, per ricostruire una causa reale o una sostanza economica diversa».

Inoltre, secondo il CNN, non sarebbe ravvisabile, nel sistema dell’imposta di registro, una norma antielusiva generale; a tale riguardo, è stato osservato che anche nel sistema delle imposte sui redditi l’art. 37-bis copre solamente una parte delle ipotesi possibili, e non si pone quindi come una «clausola generale».

Ancora, la qualificazione dell’imposta di registro come «imposta d’atto» precluderebbe all’ufficio l’utilizzo di elementi extratestuali nell’attività di interpretazione, considerando anche che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, non assumono rilevanza le vicende (modificative, novative, revocatorie, etc.) che gli effetti giuridici generati dall’atto possono subire dopo il suo perfezionamento, né la stessa nullità dell’atto (art. 38, T.U.).

L’interpretazione dell’atto da registrare, a norma dell’art. 20 del T.U., pur dovendo essere effettuata in conformità ai principi civilistici, sarebbe pertanto

«diversa rispetto a quella disciplinata dagli artt. 1362 e seguenti del codice civile, nella misura in cui non può avvalersi di tutti quegli elementi – quale ad esempio il comportamento complessivo delle parti anche successivo alla formazione del contratto, ex art. 1362, comma 2, c.c. – che non trovano riscontro nell’atto stesso».

A fronte di una pluralità di atti, per quanto tra loro collegati mediante uno schema di «step transaction», l’ufficio fiscale non è insomma abilitato a riconoscere un «disegno» complessivo, ulteriore rispetto agli effetti giuridici dei singoli atti, ai fini dell’imposizione di registro.

 

 

L’abuso del diritto in breve

abuso del dirittoLa questione dell’abuso del diritto rappresenta l’ultima frontiera, per così dire, della «lotta all’elusione» in Italia, cioè del tentativo da parte del legislatore, dell’amministrazione e delle corti di inibire o censurare i comportamenti che, pur formalmente coerenti con le norme del diritto positivo, nella sostanza consentono l’aggiramento delle disposizioni tributarie e quindi l’ottenimento di un vantaggio fiscale non previsto dall’ordinamento.

Se da un lato si comprende che non può essere consentito di vanificare le norme tributarie pur rispettandole nella forma, dall’altro occorrerebbe evitare atteggiamenti di pregiudiziale sospetto, che potrebbero scoraggiare l’effettuazione anche di operazioni in sé pienamente lecite.

L’abuso del diritto, il cui successo negli ultimi anni si ricollega alla nozione di marca anglosassone di «prevalenza della sostanza sulla forma», sembra finalmente avviarsi a una più matura formulazione normativa, in grado di meglio garantire sia i contribuenti, sia l’amministrazione (di fronte al rischio di dar vita a vertenze di difficile gestione e incerta risoluzione).

 

 

La clausola generale antiabuso secondo l’Agenzia delle Entrate

Con riferimento alla nota sentenza «Halifax» (sentenza del 21.2.2006, nella causa C-255/02), l’Agenzia delle Entrate, nella propria circolare n. 67/E del 13.12.2007, ha affermato che tale pronuncia ha ravvisato – nel sistema dell’IVA – l’esistenza di una clausola generale antiabuso, «sulla base delle medesime argomentazioni sottese alla norma generale antielusiva di cui all’articolo 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicabile nel nostro ordinamento nazionale con riferimento all’imposizione diretta».

Nella sostanza, analogamente a quanto è accaduto nell’ordinamento interno italiano, i giudici comunitari hanno estrapolato le ipotesi di «abuso» (ossia di elusione, intesa come strumentale utilizzo delle norme fiscali in presenza di comportamenti formalmente leciti, senza il supporto di valide ragioni economiche), distinguendole sia dall’evasione, sia dalle frodi.

È quindi escluso, secondo l’Agenzia, «che l’applicazione della normativa comunitaria possa estendersi fino a ricomprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, ovvero le operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali “normali”, bensì al solo scopo di beneficiare “abusivamente” dei vantaggi previsti dal diritto comunitario».

Tale principio di carattere generale deve essere riconosciuto come immanente nel sistema della sesta direttiva (nonché – a partire dal 1° gennaio 2007 – della direttiva «di rifusione» n. 2006/112/CE), le cui disposizioni devono quindi essere interpretate nel senso che ostano alla adozione di comportamenti abusivi, come definiti dalla Corte.

In definitiva, secondo tale ricostruzione, l’immanenza nel sistema IVA di norme antiabuso, riconosciuta dalla Corte di Giustizia, attribuisce all’Amministrazione finanziaria la possibilità di riconoscere la presenza di comportamenti elusivi, senza la necessità di una norma positiva che sancisca tale potere, sia nell’ordinamento comunitario che nazionale.

Ciò risulta coerente con gli indirizzi espressi dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 10352 del 5.5.2006), che espressamente si è richiamata alla Corte di Giustizia (sentenza del 21.2.2006, emanata in esito alla causa C-419/02).

 

 

L’abuso alla luce dei principi costituzionali

sentenza corte di cassazioneAlcune pronunce emanate dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel corso del 2008 (sentenze n. 30055 e 30057/2008) hanno accolto un’applicazione estensiva della nozione di abuso del diritto, in grado di legittimare le contestazioni degli uffici fiscali anche in assenza di specifiche disposizioni antielusive (ad esempio, nel settore delle imposte indirette, oppure al di fuori delle fattispecie specificamente individuate dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973).

Il contenzioso che è all’origine della controversia sorge, nella prima delle fattispecie esaminate dalla Cassazione (sentenza 23.12.2008, n. 30055), dall’attività accertativa posta in essere dall’ufficio fiscale, il quale aveva disconosciuto la deducibilità fiscale delle minusvalenze conseguenti a operazioni di acquisto e rivendita di titoli dopo la riscossione dei dividendi (c.d. dividend washing), in quanto asseritamente poste in essere a soli fini di elusione fiscale.

A tale riguardo, aderendo a un preciso filone interpretativo della sezione tributaria (la pronuncia fa richiamo, in particolare, alle sentenze Cass. n. 10257/2008 e n. 25374/2008), le SS.UU. hanno ravvisato nell’ordinamento tributario italiano la presenza di «un generale principio antielusivo», precisando altresì che

«la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano».

Insomma, benché manchi nell’ordinamento l’espressa formulazione di un principio generale in materia – mentre la Corte di Giustizia Europea ha ricavato un principio analogo in materia di Iva – le SS.UU. hanno ritenuto che esso ugualmente possa promanare dalla Carta costituzionale, in quanto esplicitazione dei principi (capacità contributiva, progressività dell’imposizione) in essa contenuti.

In dettaglio, il principio è quello che impedisce al contribuente di trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, ancorché con alcuna specifica disposizione normativa, «di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».

In tale prospettiva, la sopravvenuta introduzione di norme antielusive espresse (specifiche) si pone, secondo la Corte, quale «mero sintomo dell’esistenza di una regola generale» (tale affermazione era coerente con Cass. n. 8772/2008).

Il principio antielusivo generale è ritenuto non contrastante con la riserva di legge in materia tributaria – incardinato nell’art. 23 della Costituzione -, giacché

«il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali».

Occorre tuttavia considerare che l’eventuale contestazione «antielusiva» del fisco può ritenersi legittima solamente se il fine elusivo si pone come predominante e assorbente rispetto al complessivo comportamento del contribuente, con ampia facoltà da parte dei contribuenti di dimostrare l’esistenza di giustificazioni di tipo commerciale, finanziario, contabile, etc. (Cassazione – sezione tributaria, n. 1465 del 17.11.2008, depositata il 21.1.2009).

Con la sentenza 21.1.2011. n. 1372, la Cassazione ha fatto presente che l’applicazione del principio dell’abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela.

È infatti necessario individuare con precisione cosa sia «elusione», e in tale prospettiva la semplice sussistenza di valide ragioni extra-fiscali è sufficiente a escludere il carattere strumentale (elusivo) dell’operazione posta in essere.

 

La sentenza del 2013

La Suprema Corte, come sopra anticipato, si è nuovamente pronunciata in materia di abuso e imposta registro, relativamente a un caso di conferimento di ramo aziendale, con la sentenza n. 28259/2013.

Più precisamente, il contenzioso traeva origine dalle pronunce avverse alle società contribuenti in primo e in secondo grado, e confermative di due avvisi di liquidazione di imposte di registro, ipotecarie e catastali, nonché delle conseguenti sanzioni, in relazione a un rogito notarile di aumento di capitale sociale sottoscritto mediante conferimenti di rami immobiliari d’azienda.

Con riferimento alla fattispecie esaminata, la CTR aveva ritenuto che il perfezionamento dei primi due atti a distanza di pochi mesi, con il coinvolgimento pressoché simultaneo di tutte le società del gruppo, dovesse ritenersi finalizzato a realizzare – unitariamente – una cessione d’azienda.

Al ricorso delle società coinvolte si accompagnava il controricorso dell’Agenzia delle Entrate.

In particolare, le parti ricorrenti per cassazione proponevano i seguenti motivi di ricorso:

  1. insufficiente motivazione della sentenza sul fatto controverso inerente l’affermata esistenza di un intento unitario e originario;

  2. violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986, il quale non consentirebbe di valorizzare, nell’interpretazione dell’atto, altro che l’intrinseca natura e gli effetti dello stesso, senza possibilità di ricorrere a elementi estrinseci, e quindi senza possibilità di apprezzare il collegamento tra questo ed altri eventuali atti posti in essere dal contribuente;

  3. violazione e falsa applicazione dell’art. 21, secondo comma, del T.U. n. 131/1986, in quanto la CTR non aveva considerato che l’articolo citato consente l’applicazione del regime fiscale più oneroso solo con riferimento ai casi in cui un unico atto contenga più disposizioni tra loro necessariamente connesse, e non anche nel caso di più atti, solo funzionalmente collegati, recanti, ciascuno, un autonomo regolamento di interessi;

  4. ancora violazione e falsa applicazione dei predetti artt. 20 e 21, secondo comma, dato che un’operazione di conferimento di ramo d’azienda seguita dalla cessione della partecipazione ricevuta non potrebbe considerarsi produttiva del medesimo effetto giuridico finale di una cessione di ramo aziendale.

 

 

Le indicazioni della Corte

Decidendo sulla fattispecie sopra descritta, la Cassazione ha osservato che, diversamente da quanto dalle ricorrenti, il principio dell’interpretazione dell’atto secondo la sua intrinseca natura e i suoi effetti giuridici comporta che, nella qualificazione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti.

In questo contesto, l’indagine rilevante ai fini dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986 non deve ritenersi limitata «da una verifica di tipo atomistico, incentrata sul contenuto del singolo atto presentato alla registrazione, senza possibilità di far ricorso, nell’ indagine sulla reale intenzione delle parti, a elementi estrinseci allo stesso o a negoziazioni ulteriori e funzionalmente collegate».

L’interpretazione di un atto ai fini fiscali deve infatti avvenire con criteri differenti rispetto a quelli utilizzabili ai fini civilistici, con «preminente rilievo agli effetti della negoziazione in vista della necessità di prevenire possibili abusi» (sul punto la Corte richiama la giurisprudenza pregressa di legittimità, anche recente).

Il risultato finale di un’operazione complessa non può quindi essere riscontrato senza una disamina globale dell’operazione stessa, «e presuppone come doverosa la considerazione degli elementi ritraibili da tutti gli atti che in essa si inseriscono».

Ciò considerato, secondo la corte la CTR aveva correttamente e adeguatamente motivato nel caso di specie, accertando che l’effetto giuridico finale delle operazioni poste in essere all’interno del gruppo societario era stato di attuare un trasferimento di rami d’azienda.

Quanto alla questione sollevata nel terzo motivo, la Corte ha fatto presente che non si trattava di applicare, nella specie, il regime fiscale più oneroso, bensì di applicare la forma impositiva coerente con l’effetto finale dell’operazione eseguita – il risultato giuridico reale -, consistente nella cessione di ramo immobiliare d’azienda alla capogruppo.

Infine, relativamente alla cessione da parte della capogruppo delle partecipazioni a una società estranea al gruppo – argomento sollevato nel quarto motivo di ricorso -, la CTR aveva considerato ininfluente tale circostanza: ciò è stato ritenuto corretto dalla Cassazione, dato che il collegamento affermato come rilevante, in base alla ricostruzione operata dal giudice di merito, atteneva agli atti posti in essere tra le società del gruppo, intesi ad attuare la cessione dei rami d’azienda alla società che ne era a capo. Solamente a questi atti doveva conseguire il pagamento di imposta preteso, senza incidenza di ulteriori successive negoziazioni sul capitale della cessionaria.

 

 

La riqualificazione degli atti da parte del Fisco – Considerazioni di sintesi

Come si è visto, l’amministrazione finanziaria dispone di una potestà molto ampia relativamente alla possibilità di riqualificare gli atti, e più in generale i comportamenti, dei contribuenti, alla luce dell’assetto concretamente ottenuto più che della qualificazione giuridica dell’atto.

Il momento giuridico-formale, che riveste un’importanza primaria pensando alla valenza del principio di legalità in ambito tributario, viene sostanzialmente «superato» ai soli fini tributari, ma non demolito.

L’atto stipulato tra le parti non può essere infatti intaccato dalla normativa tributaria: i suoi effetti civilistici rimangono saldi e non potrebbe essere altrimenti, perché il fisco non ha il potere di annullare o disapplicare dei negozi giuridici validamente posti in essere.

Esso può però (o forse darebbe meglio dire deve, tenuto conto del contesto in cui si inseriscono i poteri autoritativi dell’amministrazione) procedere alla tassazione degli atti (fatti, negozi) secondo lo schema previsto per l’atto «aggirato».

L’argomento sarebbe suscettibile di infiniti sviluppi argomentativi, ma in sostanza basterà evidenziare questo: il contribuente «elusore» conosce bene il trattamento tributario che il «puntiglioso» legislatore fiscale riserva all’atto che ha intenzione di compiere («comportamento A»).

Per tale ragione, detto contribuente «scantona» arrivando per altra via al medesimo risultato che aveva in mente («comportamento B»).

A questo punto l’amministrazione, a ciò autorizzata dal legislatore, interviene recuperando le imposte corrispondenti al «comportamento A», nonché le sanzioni come affermato in epoca recente dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sul punto Cass. 30.11.2011 n. 25537).

 

Vedi anche successivo aggiornamento del 19/4/2014, clicca QUI

 

9 aprile 2014

Fabio Carrirolo