Accertamenti fiscali induttivi: l'acqua minerale è meglio del tovagliometro?

in caso di accertamento analitico-induttivo su attività del settore della ristorazione i dati relativi al consumo di acqua minerale possono essere più esatti rispetto a quelli relativi al consumo di tovaglioli per la ricostruzione dell’imponibile

In tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, articolo 39, comma 1, lettera d, deve ritenersi legittima, nel settore della ristorazione, la ricostruzione presuntiva dei ricavi sulla base dei consumi di acqua minerale e caffè. Si tratta infatti di indicatori (fatto noto) dai quali si può tranquillamente presumere il numero dei pasti effettivamente serviti (fatto ignoto). L’utilizzo di tali indicatori, peraltro, è a vantaggio del contribuente, posto che non tutti i commensali consumano le due bevande, sicché il dato oggettivamente riduttivo rispetto alla realtà assorbe anche il rilievo dell’eventuale consumo diretto da parte del personale di servizio (cuochi e camerieri). È quanto emerge dalla sentenza 15 maggio 2013, n. 11622, della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria.

Cassazione, sentenza n. 11622/13

La Corte di Cassazione, con la sentenza 15 maggio 2013, n. 11622, ha dato il via libera alla ricostruzione presuntiva dei ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base dei consumi di acqua minerale e caffè.

La vicenda trae origine da alcuni avvisi di accertamento per maggiori ricavi societari a fini IRAP e IVA e per redditi da partecipazione sociale più alti a fini IRPEF/SSN, notificati a un’impresa di ristorazione e ai suoi due soci.

La Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, in accoglimento degli appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate, confermava gli atti impositivi, ritenendo che la ricostruzione induttiva dell’Ufficio basata sui consumi di caffè e di acqua minerale fosse legittima e portasse a conclusioni favorevoli per i contribuenti, posto che non tutti i commensali consumano le due bevande, sicché il dato oggettivamente riduttivo rispetto alla realtà assorbe anche il rilievo dell’eventuale consumo diretto da parte di soci, camerieri e cuochi.

Lavaggio dei tovaglioli indicatore più idoneo

Avverso la decisione del giudice d’appello i contribuenti hanno proposto ricorso per cassazione, denunciando il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e la violazione di legge (precisamente degli artt. 39, co. I – lett. d), D.P.R. n. 600/73 e 2727 e ss. cod. civ.) posto che la CTR, pur essendo disponibili altri indicatori di consumo più confacenti all’attività di ristorazione, nonché quelli obiettivi relativi al lavaggio dei tovaglioli, aveva dato credito a indicatori, quali il consumo di caffè e acqua minerale, maggiormente adatti all’attività di bar e comunque non esaustivi, come riconosciuto dallo stesso giudice.

La CTR aveva pure trascurato i conteggi offerti, che dimostravano come dal numero di tovaglioli lavati si giungeva a ricavi inferiori rispetto a quelli accertati dall’Ufficio. Analogamente, applicando una serie di correttivi (autoconsumo, deperimenti, consumo in cucina) ai valori rettificati, si giungeva comunque alla neutralizzazione dei maggiori ricavi accertati.

Ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d, D.P.R. n. 600/73, nel reddito d’impresa, “l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti” (cc.dd. presunzioni qualificate). Il ricorso al metodo di accertamento analitico–induttivo di cui al primo comma, lett. d) dell’articolo citato, consente ai verificatori di non considerare le scritture contabili, anche senza la previa dimostrazione della loro inattendibilità (a differenza di quanto accade per l’accertamento induttivo “puro” ex art. 39, c. 2). Si ricorda che in presenza dei presupposti sia dell’accertamento induttivo (ex art. 39 c. 2 D.P.R. n. 600/72) che dell’accertamento analitico–induttivo (ex art. 39 c. 1 D.P.R. n. 600/72) l’Ufficio può utilizzare indifferentemente l’uno o l’altro metodo (Cass. sentenza, n. 1122/2013). Rientra infatti nel potere dell’Amministrazione Finanziaria, nell’ambito della previsione di legge, di scegliere il metodo di accertamento da utilizzare nel caso concreto (cfr. Cass. n. 8333/2012 e n. 19258/2005).

Valutazione della prove. Compete al giudice del merito

Ebbene, i motivi di ricorso formulati dai contribuenti sono stati disattesi. I giudici di piazza Cavour hanno premesso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove costituisce un’attribuzione esclusiva del giudice di merito cui spetta il potere di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e controllare l’attendibilità e la concludenza, scegliendo tra le risultanze istruttorie quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare i fatti in discussione.

L’operato del giudice tributario è censurabile (ai sensi dell’art.360 c.p.c., n.5) solo se nel suo ragionamento, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile un’obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, tanto da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, ossia l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata.

Mancanza di un indicatore “principe”

Premessa l’esclusiva attribuzione in capo al giudice tributario della valutazione dei fatti e delle prove attinenti la maggior pretesa tributaria accertata dal Fisco, gli Ermellini hanno osservato che nella vasta casistica dei principi regolativi in materia si è ritenuto (v. Cass. sentenza n.17408/2010) che nell’accertamento tributario, sia presuntivo del reddito d’impresa (art.39, co. I, lett. d), D.P.R. n.600/73) sia induttivo in materia di IVA (art. 55 D.P.R. n. 633/72):

  • è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate.

È stato pure affermato (v. Cass. n.15397/2008), riguardo alla ricostruzione giudiziale di ricavi e redditi in base al consumo di caffè contrapposta a quella basata sul c.d. “tovagliometro(come accaduto nel caso di specie), che una tale rivalutazione in sede di legittimità realizzerebbe un’inammissibile rivisitazione del merito fondata sulla mera enunciazione di dati diversi a fronte di quelli che sono ritenuti idonei, con valutazione appunto di merito, dalla CTR.

Invero – si legge in sentenza -, non può dirsi che, riguardo al settore della ristorazione, vi sia un indicatore ‘principe’ per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, ben potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso ed essendo compito del fisco, prima, e del giudice tributario di merito, poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta”.

Né la CTR, nel caso esaminato, si è discostata dagli artt. 2727 e seg. cod. civ., giacché nella prova per presunzioni il giudice del merito:

  • deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento. Occorre, prima, una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Occorre, poi, una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado dì fornire una valida presunzione semplice, nel senso che ognuno rafforzi e tragga vigore dall’altro in rapporto di vicendevole completamento” (v. Cass. sentenza n.9108/2012).

Decisione logica

In conclusione, la Cassazione ha ritenuto di poter confermare la sentenza gravata, non avendo rilevato nulla d’illogico nella ricostruzione operata dalla CTR, che si è servita di una sequenza d’inferenze tali da individuare quella relazione tra fatto noto (consumi) e fatto ignoto (ricavi), che ha sufficientemente dimostrato il nesso di derivazione secondo canoni di ragionevole probabilità.

Infatti il giudice d’appello ha scartato i dati sul consumo unitario dei tovaglioli risultanti dalla fatturazione dei lavaggi, preferendo un altro elemento, vale a dire il consumo dell’acqua minerale, il cui utilizzo estimativo è confermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Il risultato finale, essendo stato approssimato per difetto, poiché i consumi di acqua e caffè possono essere inferiori rispetto all’effettivo numero dei pasti, a seconda delle preferenze dei clienti, si è rivelato più favorevole per i contribuenti e tale da coprire anche l’incidenza dell’autoconsumo (soci, personale di sala e cucina).

Il rigetto del ricorso ha determinato la condanna dei contribuenti alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.300 euro, oltre alla spese prenotate a debito.

Ristorazione. Farina & Co.

Negli ultimi anni si è sentito spesso parlare di “bottigliometro”, “lenzuolometro”, “tovagliometro” e “farinometro”, in omaggio alla copiosa giurisprudenza di legittimità che ha sdoganato definitivamente la ricostruzione presuntiva del reddito d’impresa sulla base dei consumi di talune materie prime.

In altre parole, il consumo dell’acqua minerale, così come dei tovaglioli, della biancheria e della farina sono diventati indicatori di maggior reddito in capo all’esercente di un’attività commerciale, di ristorazione e/o alberghiera rispetto a quello dai medesimi dichiarato.

La Cassazione, per esempio, ha sostenuto che l’accertamento presuntivo dei ricavi della imprese di ristorazione può fondarsi:

  • sul consumo di farina (sentenza 15580/2011);

  • sul numero di tovaglioli portati in lavanderia – che sono indice dei coperti, quindi degli incassi (sentenze n. 18475/2009, n. 8643/2007 e n. 9884/2002);

  • sul consumo di acqua minerale che deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria.

Con la sentenza n. 17408/2010 (conf. dall’odierna Cass. n. 11622/2013), gli Ermellini hanno sostenuto che nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.

Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa (art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/73) è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili). Le stesse considerazioni valgono anche in caso di accertamenti IVA, per cui, ai fini della ricostruzione del volume di affari, può essere utilizzato anche il dato relativo al consumo di bottiglie di acqua minerale. Inoltre, come si evince anche dall’articolo 62 sexies del D.L. n. 331 del 1993 (L. conv. n. 427 del 1993), l’Ufficio ha la facoltà di procedere ad accertamento induttivo, non solo quando la dichiarazione del contribuente non sia congrua con gli studi di settore, ma anche quando si rilevano gravi incongruenze tra ricavi, compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività.

Alberghi

In riferimento all’attività alberghiera invece, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo l’accertamento presuntivo fondato:

  • sull’acquisto di biancheria, coperte e asciugamani, da parte del contribuente che eserciti l’attività di affittacamere.

In particolare, “la indebita fatturazione al contribuente dei servizi e degli acquisti effettuati per conto e nell’interesse dei proprietari degli immobili non costituisce argomentazione sufficiente per contraddire le considerazioni espresse dall’Ufficio con l’atto d’appello con riferimento all’acquisto per importi considerevoli per biancheria, coperte ed asciugamani etc, al contenuto delle fatture attive, al totale dei versamenti e bonifici effettuati sul conto corrente intestato all’affittacamere” (Cass. sentenza n. 30402/2011).

Bare & protesi

Non mancano infine pronunce che si sono occupate del settore delle onoranze funebri e della professione medica. In questo casoa pesare sono stati, rispettivamente, il numero delle bare utilizzate per organizzare i funerali e quello delle protesi acquistate.

Nel caso del “barometro”, la Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna, con la sentenza numero 243/02/2011 ha ritenuto:

  • che il numero di bare utilizzate per i servizi erogati da un’impresa funebre e la contabilità “parallela” scoperta dai verificatori in sede di accesso presso l’azienda costituiscono validi indizi di evasione.

Sicché è legittimo l’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, I comma, lettera d) del D.P.R. 600/1973 basato su tali elementi che costituiscono, quindi, presunzioni gravi, precise e concordanti per la ricostruzione di maggiori ricavi operata dall’Amministrazione Finanziaria.

Nel caso “protesiometro” invece, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3777/2013:

  • ha dichiarato legittimo l’accertamento induttivo a carico dell’odontoiatra che ha fatturato meno protesi di quelle commissionate.

La Sezione Tributaria Civile, in accoglimento del ricorso presentato dal Fisco, ha cassato la sentenza con la quale la CTR della Puglia aveva annullato un accertamento di maggiori redditi a carico del contribuente medico odontoiatra. La rettifica dell’Ufficio si è basata sulla discrasia tra il numero di protesi dentarie commissionate dal professionista (e documentate in acquisto) e il numero di quelle desumibili dalle prestazioni munite di ricevuta fiscale e, quindi, sull’omessa annotazione dei maggiori corrispettivi conseguiti per ognuna delle protesi non assistita da successiva fatturazione.

Ebbene, l’accertamento fiscale in questione ha trovato l’avallo dei giudici di legittimità, che hanno ritenuto priva di pregio la tesi difensiva secondo cui un certo numero di protesi era relativo a quelle provvisorie, che precedono normalmente l’applicazione della protesi definitiva, sicché l’odontoiatra chiede il compenso per la prestazione unitaria. In un passaggio significativo delle motivazioni, gli Ermellini hanno affermato che:

  • è legittimo il recupero a tassazione dei ricavi, ricostruiti induttivamente, ove la cessione o l’impiego in prestazioni d’opera di beni possa desumersi dalla esistenza di documentazione di acquisto. Spetta difatti al contribuente fornire la specificazione appropriata per categorie omogenee di beni (v. Cass. n. 23959/2011). A tale principio risponde anche il caso di prestazioni sanitarie avente base nella installazione di protesi dentarie, giacché ai fini della prova per presunzioni semplici non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità (e v. infatti Cass. n. 1915/2008)”.

18 marzo 2014

Antonio Gigliotti