L'indeducibilità dei compensi dell'amministratore unico di Srl

come è noto, il Fisco può disconoscere la deducibilità dei compensi versati all’amministratore di società di capitali, in quanto l’erogazione del compenso potrebbe costituire fenomeno di elusione fiscale, in particolare se i compensi erogati non sono congrui rispetto all’attività svolta dall’amministratore

I compensi dell’amministratore – Aspetti generali

la conguruità dei compensi degli amministatori di srlTra le questioni che più spesso contrappongono aziende e uffici fiscali vi sono le valutazioni di congruità sui compensi attribuiti agli amministratori di società, a volte contestati in quanto ricondotti a finalità di indebita riduzione della base imponibile societaria in violazione dei criteri di economicità che dovrebbero guidare l’attività di impresa.

Si osserva a questo riguardo che il diritto al compenso dell’amministratore della società di capitali poggia sulla disposizione civilistica dell’art. 2364, nn. 1) 3), c.c.

Sotto il profilo tributario, ai fini delle imposte sui redditi, i compensi degli amministratori rientrano per l’impresa tra le fattispecie di componenti reddituali negativi deducibili nel rispetto del principio di competenza (afferenza all’attività di impresa), a norma dell’art. 109, D.P.R. 22.12.1986, n. 917.

Le disposizioni in materia di reddito di impresa prevedevano originariamente (art. 59, D.P.R. 29.9.1973, n. 597) un limite di ammontare per i compensi degli amministratori, corrispondente alla misura corrente praticata per gli amministratori non soci.

Questa disposizione è sostanzialmente sopravvissuta nel TUIR fino alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 247/2005, a seguito delle quali i compensi in parola – ex art. 95, quinto comma, del TUIR – sono stati liberati da ogni vincolo (fatta salva la verifica di congruità e inerenza secondo i principi ordinari).

 

 

Amministratori e società di capitali

gli amministratori delle società di capitali e la deducibilità dei compensiIl rapporto tra amministratori e società di capitali è stato oggetto di alcune pronunce giurisdizionali, che si sono concentrate in particolare sugli aspetti tributari ai fini delle imposte sui redditi, giungendo fino al disconoscimento della deducibilità fiscale dei compensi erogati dalle società, dopo una pluriennale sequenza di controversie intorno alla possibilità da parte degli uffici di contestare la congruità dei compensi medesimi.

Sono stati inoltre sviluppati alcuni aspetti civilistici, riferiti ai presupposti giuridici per l’attribuzione del compenso, ossia alle delibere con le quali l’ente societario manifesta la volontà di regolare il diritto al compenso e la misura dello stesso in relazione alle attività svolte dagli amministratori.

Secondo un certo orientamento della Cassazione (sezione tributaria, sentenza 10.12.2010, n. 24957), l’amministrazione finanziaria non può spingersi a sindacare la misura del compenso riconosciuto dalla società agli amministratori: questi componenti negativi appaiono quindi in via generale deducibili dal reddito della società erogante.

Il diritto dell’amministratore al compenso, secondo quanto è stato affermato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 29.8.2008, n. 21933), deve associarsi a una specifica delibera societaria, non essendo a tal fine sufficiente la delibera di approvazione del bilancio recante l’indicazione del relativo costo.

La condivisibile interpretazione richiede infatti una manifestazione inequivoca della volontà societaria, alla quale non può sostituirsi una «presa d’atto» implicita (mediante l’approvazione del bilancio), e ciò risulta pienamente coerente con la previsione civilistica di una deliberazione autonoma (art. 2364, nn. 1 e 3, c.c.).

Nell’ambito del contenzioso che veda contrapposti in sede civile l’amministratore unico e la società, se quest’ultima afferma l’inesistenza della una delibera sociale sulla quale si fonda il diritto al compenso dell’amministratore medesimo ha l’onere di provare l’inesistenza della delibera: tale principio è stato affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 22738 del 9.11.2010, che ha cassato con rinvio la sentenza di merito.

Nel caso di specie, l’amministratore unico di una S.r.l. aveva chiesto un decreto ingiuntivo nei confronti della società, al fine di ottenere la corresponsione di compensi arretrati; la società eccepiva invece l’inesistenza della delibera, in quanto assunta senza adempiere alla regolare convocazione dei soci.

Secondo la Corte, la soluzione sopra enunciata è coerente con l’art. 2697 del codice, ai sensi del quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti o che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda1.

 

 

La questione della congruità dei compensi degli amministratori

La questione della valutazione, operata dal Fisco, della «congruità» dei compensi riconosciuti agli amministratori dell’impresa, sotto il profilo dell’inerenza dei componenti reddituali deducibili all’attività della stessa, rappresenta un aspetto del più generale giudizio in ordine all’«economicità» dei comportamenti dell’imprenditore.

A tale riguardo, può infatti affermarsi che il Fisco ha cercato e cerca di utilizzare quale «indice di evasione» il comportamento – manifestato dall’impresa – confliggente con i canoni di razionalità economica, i quali imporrebbero (anche in senso «prospettico») una conduzione dell’attività imprenditoriale in vista di un risultato positivo, cercando di contenere i costi e i componenti negativi in genere.

La Corte di Cassazione ha avuto dapprima modo di affermare – con la sentenza della sezione tributaria n. 12813 del 17.5.2000 (depositata il 27.9.2000), che la valutazione della congruità dei costi rientra nei poteri di accertamento dell’Amministrazione fiscale, la quale – pur in assenza di irregolarità contabili – può negare la deducibilità di parte di un costo se questo supera il limite al di là del quale appare non inerente ai ricavi, o almeno all’oggetto dell’impresa.

La successiva sentenza n. 13478 del 10.11.2000 (depositata il 30.10.2001) ha riaffermato che l’Amministrazione può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti in dichiarazione al di là delle eventuali irregolarità contabili, negando la deducibilità dei componenti negativi in caso di sproporzione rispetto ai ricavi o all’oggetto dell’impresa.

Un differente orientamento è quello espresso dalla sentenza n. 6599 del 30.11.2001 (depositata il 9.5.2002), secondo la quale, allo stato attuale della legislazione, il Fisco non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone, e per tale motivo tali compensi sono pacificamente deducibili come costi.

Anche la successiva sentenza n. 21155 del 23.5.2005 (depositata il 31.10.2005) ha espresso il medesimo orientamento favorevole alla deducibilità incondizionata dei compensi riconosciuti agli amministratori, senza alcuna possibilità per il Fisco di contestarne la congruità.

La Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta in materia con la sentenza n. 28595 del 30.10.2008 (depositata il 2.12.2008), in esito a un contenzioso sorto con riferimento alla rettifica del reddito d’impresa della società che aveva erogato agli amministratori un compenso ritenuto «incongruo», affermando nuovamente che, in assenza di parametri di riferimento, il Fisco non può contestare la congruità dei compensi.

 

 

Deducibilità e indeducibilità dei compensi

Nella sentenza n. 18702 del 13.8.2010, la Corte di Cassazione ha affermato l’indeducibilità dei compensi agli amministratori, sulla base dell’assimilazione tra questi e la figura dell’«imprenditore»: secondo quanto è stato rilevato dalla pubblicistica, il principio enucleato dalla Suprema Corte vale però con esclusivo riferimento alle norme anteriori alle modificazioni normative recate dapprima dal D.Lgs. n. 344/2003 (nuovo TUIR) e quindi dal D.Lgs. n. 247/2005 (correttivo IRES).

Le problematiche sollevate a seguito della pubblicazione della sentenza (il compenso degli amministratori doveva ritenersi sempre indeducibile, anche dopo le citate innovazioni normative?

In tale ipotesi, come evitare una situazione di doppia imposizione economica) sono state in buona parte risolte con la risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-03498, il 30.9.2010, nella quale il Governo ha precisato che i compensi in parola – nel vigente contesto normativo – devono intendersi deducibili secondo il criterio di cassa, e salva la verifica dell’inerenza.

La succitata sentenza n. 24957/2010 trae origine da un contenzioso tra la società verificata e l’Amministrazione, la quale in sede di controllo aveva contestato – relativamente all’anno di imposta 1999 – la misura «eccedente» (rispetto a un criterio di normalità/proporzionalità) dei compensi riconosciuti ed erogati agli amministratori.

A tale riguardo, la sentenza ha precisato che la previsione di un «tetto» massimo di congruità per questi compensi figurava nel vecchio testo dell’art. 59, terzo comma, del D.P.R. n. 597/1973, e sopravviveva nell’art. 62, terzo comma, del TUIR del 1986.

In seguito però, il vincolo è stato del tutto eliminato, come si nota esaminando il vigente art. 95, secondo comma, del Testo Unico (innovato nel 2005).

Ai sensi della normativa vigente, difatti,

«i compensi spettanti agli amministratori delle società ed enti di cui all’articolo 73, comma 1, sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili, anche spettanti ai promotori e soci fondatori, sono deducibili anche se non imputati al conto economico».

La «pacifica» deducibilità e «insindacabilità» dei compensi (relativamente ai quali, nell’«evoluzione dei tempi», si è peraltro registrata una generale tendenza al rialzo) incontra dunque un limite solamente nel rispetto del criterio generale di inerenza, in base al quale deve esistere un nesso tra il componente reddituale negativo e l’attività economica esercitata dall’impresa.

 

 

L’intervento dell’Agenzia delle Entrate

Secondo quanto ha precisato l’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione 31.12.2012, n. 113/E, le modifiche apportate al sistema tributario nel 2003/2004 hanno separato nettamente il trattamento fiscale da riservare ai compensi erogati all’imprenditore individuale rispetto a quello disposto per i compensi agli amministratori erogati da società in nome collettivo, in accomandita semplice e da società di capitali rientranti nell’ambito di applicazione dell’IRES.

Per quanto riguarda l’ipotesi in cui le prestazioni di lavoro in generale siano svolte dall’imprenditore stesso, dal coniuge, dai figli, dagli ascendenti e dai familiari partecipanti all’impresa, i relativi compensi sono indeducibili e sono specularmente esclusi dal reddito personale del soggetto prestatore.

Secondo quanto ha osservato l’Agenzia, tali prescrizioni – di cui agli artt. 8, primo comma, ultimo periodo e 60 del vigente TUIR – devono intendersi riferite al solo imprenditore individuale/persona fisica e non anche all’impresa esercitata in forma collettiva.

Le spese per prestazioni di lavoro risultano deducibili nei confronti dei soggetti societari, ai sensi di quanto disposto nel quinto comma dell’art. 95 del nuovo TUIR, al momento della corresponsione (in base al criterio di cassa).

Nel consentire la deducibilità dei compensi al momento della corresponsione, il legislatore si è assicurato che non venissero effettuati arbitraggi consistenti nella deducibilità per competenza del costo del compenso in capo alla società e nel rinvio della tassazione al momento della percezione da parte dell’amministratore.

L’Agenzia ha rafforzato l’orientamento espresso, favorevole alla deducibilità dei compensi, sulla base della lettura dell’art. 24, primo comma, del D.L. 31.5.2011, n. 78, convertito dalla L. 30.7.2011, n.122, sulla linea interpretativa della circolare 15.2.2011, n. 4/E, ove era stato chiarito che sono escluse dal monitoraggio le imprese che presentano per più di un periodo di imposta dichiarazioni in perdita fiscale nei casi in cui la perdita è determinata da compensi erogati ad amministratori e soci.

Resta tuttavia

«fermo che, in sede di attività di controllo, l’amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei componenti negativi di cui si tratta in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi».

 

 

L’indeducibilità resta limitata al regime previgente

Con l’ordinanza n. 25572 del 14.11.2013, la Corte di Cassazione ha nuovamente esaminato la questione della deducibilità dei compensi dell’amministratore unico di S.r.l., affermando che esso non è deducibile dal reddito d’impresa in quanto tale figura è equiparata a quella dell’imprenditore.

Questa posizione rimane però limitata, circoscritta temporalmente all’epoca in cui vigeva la vecchia normativa.

Pronunciandosi su vicende interessate dalla normativa anteriore, infatti, la Corte ha affermato che:

  • la fattispecie esaminata, riguardante un avviso di accertamento per IRPEG e ILOR (imposte da tempo abrogate) risalente al 1988 è ancora regolata dalle vecchie norme;

  • l’innovazione sopra menzionata è stata introdotta nell’art. 95 del TUIR dall’art. 6, sesto comma, del D.Lgs. 18.11.2005, n. 247, senza possibilità di efficacia retroattiva per quanto disposto dal tredicesimo comma dello stesso articolo.

La nuova pronuncia ha quindi un effetto confermativo di quanto era già stato espresso con riguardo ai compensi degli amministratori nel nuovo regime normativo, che ne consente espressamente la deducibilità. Non si tratta quindi di contrapposizioni tra sentenze, bensì di pronunce che individuano correttamente le vicende cui risulta applicabile, rispettivamente, la vecchia e la nuova disciplina.

 

 

Qualche precisazione sulla congruità dei compensi

Pur dovendo riconoscere la generale deducibilità dei compensi degli amministratori nel sistema del reddito di impresa, rimane salva la possibilità da parte dell’amministrazione finanziaria di contestare gli stessi sulla base della loro incongruità, ossia della manifesta e ingiustificata sproporzione rispetto ai normali criteri di economicità che devono guidare la gestione imprenditoriale.

Per poter essere contestato, il compenso eccedente rispetto alla ragionevolezza, ai ricavi, al volume d’affari, all’oggetto sociale, etc., dovrebbe accompagnarsi a ulteriori segnali, in grado di rafforzare le motivazioni dell’accertamento.

In tale contesto, il semplice dato rappresentato dal

«compenso incongruo» si presta a concorrere – in particolare – all’impianto presuntivo dell’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973. Secondo la normativa richiamata, «se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi alla impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32.

L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti».

 

 

Tale tipologia di accertamento è definita «analitico-induttiva».

Le presunzioni semplici che possono sorreggere l’attività accertativa anche in mancanza di riscontri di altra natura devono possedere i requisiti di «gravità, precisione e concordanza» di cui all’art. 2729 c.c.

In generale,

«le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato» (art. 2727 c.c.). I tre requisiti civilistici sono stati esplicati dalla giurisprudenza di legittimità; in particolare, può soccorrere ai fini della presente analisi la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 22.3.2001, n. 4168, nella quale è stato affermato che «in tema di presunzioni, il requisito della gravità si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre e a tal fine è sufficiente che l’esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica; il requisito della precisione impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; con il requisito della concordanza si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto (…)».

 

Su tale base, può affermarsi che l’accertamento «presuntivo» può avere quale proprio fondamento motivazionale un ragionamento «inferenziale» con caratteri di:

  • gravità (ovvero «ragionevole certezza, anche probabilistica»);

  • precisione (ovvero fondatezza e determinatezza dei fatti noti posti a base del ragionamento);

  • concordanza (ovvero «convergenza» di più fatti noti verso la dimostrazione del fatto ignoto).

 

Il riscontro del compenso eccessivo rispetto alla logica che dovrebbe guidare la gestione dell’impresa è in tal senso un possibile componente di una motivazione più articolata, nella quale potrebbe certo avere diritto di cittadinanza anche la nozione di «valide ragioni economiche», enucleata dall’Amministrazione, dal soppresso Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive e dalla CGCE, ma solo in via eventuale, come richiamo a un principio generale «antiabuso» ormai accolto dalle Amministrazioni tributarie e dalle Corti2.

 

 

Considerazioni di sintesi

Tornando a esaminare la questione generale dell’ammissibilità della deduzione dei compensi degli amministratori in capo alla società: questa dovrebbe correttamente inquadrarsi – guardando ai profili sostanziali e alle motivazioni che sorreggevano il vecchio impianto normativo – sotto il profilo del contrasto agli arbitraggi consistenti nello spostare materia imponibile dalla società all’amministratore (presuntivamente identificato con l’imprenditore, ossia con un soggetto che aveva il potere di disporre come regista dell’arbitraggio stesso). 

Una sorta di «distrazione» di base imponibile insomma, che sempre presuntivamente poteva dirsi finalizzata a ottenere un vantaggio tributario non coerente con l’ordinamento.

Anche nel nuovo scenario, che secondo la giurisprudenza ammette la valutazione di congruità del compenso, bisognerebbe orientare l’attenzione verso i possibili comportamenti abusivi e il conseguente vantaggio fiscale ottenuto in concreto.

Alla luce di tale considerazione, sembra necessario rammentare che la base imponibile sottratta alla società sotto forma di compenso attribuito all’amministratore verrà tassata in capo a quest’ultimo concorrendo al suo reddito imponibile IRPEF.

In molti casi, l’imposizione per l’amministratore sarà più gravosa di quella societaria (IRAP a parte, ma anche qui sarebbe opportuno fornire cifre precise caso per caso), essendo soggetta alle varie aliquote previste dagli scaglioni IRPEF.

Per poter quindi ritenere sussistente in senso un vantaggio fiscale in senso economico (cioè prescindendo dalla dimensione intersoggettiva che entra in gioco), occorrerebbe verificare l’ammontare della tassazione complessiva in capo sia alla società che all’amministratore, rispettivamente in caso di deduzione e mancata deduzione del compenso.

Se invece si intendono anteporre i profili giuridici (come ben può fare l’amministrazione finanziaria nel valutare la congruità dei compensi), potrebbe porsi un problema di scarsa proficuità del controllo, ovvero anche profilarsi una vertenza tra il fisco e l’amministratore. Il quale, di fronte al disconoscimento operato dall’ufficio nei confronti della società, potrebbe essere motivato a procedere alla rettifica della dichiarazione fiscale, ovvero a richiedere il rimborso delle imposte già assolte sul compenso. 

 

 

28 febbraio 2014

Fabio Carrirolo

 

NOTE

1Cfr. M. Meoli, «Compensi dell’amministratore, la societàdeve provare l’inesistenza della delibera», Il quotidiano del commercialista – www.eutekne.info, 10.11.2020.

2Come ben risulta dalla prassi del Comitato antielusivo e dell’Amministrazione stessa, e in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, tali «ragioni» devono essere «valide», cioè dotate di una propria «necessità» non meramente giuridica, e in nessun caso possono ridursi alla ricerca della soluzione più vantaggiosa dal punto di vista tributario. Si rammenta inoltre che la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 67/E del 13.12.2007 – che fa riferimento alla sentenza «Halifax» del 21.2.2006 (causa C-255/02) – esiste nel sistema dell’IVA una clausola generale antiabuso, invocabile anche in ambito interno «… sulla base delle medesime argomentazioni sottese alla norma generale antielusiva di cui all’articolo 37-bis del DPR 29 settembre 1973, n. 600, applicabile nel nostro ordinamento nazionale con riferimento all’imposizione diretta».