I segnali di pre-crisi dell'azienda, la crisi, le soluzioni possibili ed il turnaround – l'inversione di tendenza

Gestire la crisi d’impresa è difficile, bisogna sapere leggere correttamente i segnali che anticipano le difficoltà dell’azienda per agire in modo tempestivo sulle ristrutturazioni.

Le imprese stanno affrontando oggi un momento, forse, mai vissuto in passato: da un lato i radicali cambiamenti nel gusto e nelle abitudini da parte dei consumatori, dall’altro la pressante crisi economico-finanziaria che attanaglia il nostro Paese da oltre cinque anni. Ecco il verificarsi di due situazioni concomitanti che possono mettere in difficoltà proprio quelle aziende che vivono in condizione di “normale staticità”.

Le cause che precedono la crisi d’impresa possono infatti essere sia interne che esterne. Ad esempio tra le cause interne latenti possiamo citare una non pronta risposta da parte dell’impresa ai cambiamenti del mercato, errori nella scelta dei segmenti da servire, carenze nella parte distributiva, sistemi di controllo di gestione inesistenti o inadeguati, inerzia organizzativa e carenze innovative, costi troppo elevati, management non efficiente, non corretta gestione del capitale, sovradimensionamento della capacità produttiva… e così via.

Tra le cause esterne vi sono la concorrenza, uno spostamento della competizione sui prezzi, cambi di gusto del mercato, oscillazioni nel costo delle materie prime e quindi, non ultima, grave recessione in atto sul mercato di vendita. Per esperienza possiamo dire che nella maggior parte dei casi le cause esterne, come la recessione in atto, incidono in maniera significativa in quanto già presenti scompensi all’interno dell’impresa. Si può allora parlare di stati di pre-crisi o di crisi.

 

Ma come si differenziano questi stati ? Come si evolvono ? Sarebbe possibile individuarne i sintomi, in modo da poter applicare le adeguate azioni correttive per tempo ?

Cominciamo con il dire che la crisi d’impresa vive sostanzialmente di tre fasi: crisi da “strategia” (A), crisi di “produttività” (B) ed infine crisi di “liquidità” (C). Va da sé che il primo tipo di crisi, che possiamo definire pre-crisi, se non opportunamente gestito, porterà al secondo stato e poi infine al terzo. È quindi necessario che certi segnali vengano recepiti, pena la sopravvivenza dell’azienda. Oggi le dinamiche di mercato hanno fatto sì che il passaggio dal primo stato di crisi al terzo possa avvenire anche nell’arco di mesi, anziché di anni, come accadeva in tempi passati. Le statistiche difatti indicavano la fase A come dai 5 ai 3 anni dal fallimento, la fase B dai 3 ai 2 anni dal fallimento, la fase C dai 2 ad un anno dal fallimento. Allo stato attuale, però, i tempi si sono notevolmente compressi, colpa anche di certa sottocapitalizzazione di fonti proprie da parte delle nostre imprese rispetto al passato.

L’indice di Altman, quindi, ci potrebbe venire in aiuto. Di fatto quanto prima l’azienda riuscirà a percepire i sintomi del proprio malessere, tanto più alta risulterà la probabilità di poter attuare corrette azioni volte al risanamento.

 

In generale, il calo di fatturato, prendendo in considerazione l’eventuale calo fisiologico dovuto alla recessione in essere, è di per sé già un segnale che qualcosa non sta più funzionando a livello strategico (fase A). Tuttavia a ciò si può porre rimedio in diversi modi, applicando soluzioni di carattere strategico: da una revisione dei canali di vendita, ad una revisione del portafoglio prodotti, da una diversificazione del business ad un ampliamento dei mercati commerciali di sbocco. Non è raro dover applicare una sana politica di riduzione dei costi, compatibilmente con la nuova potenzialità di vendita, anche se troppo spesso si assiste ad un taglio indifferenziato dei costi senza puntare l’attenzione ad una ripresa di fatturato attraverso oculate strategie commerciali o di prodotto (fase di ristrutturazione).

Non ci stancheremo mai di ribadire che il focus puntato solo sul taglio dei costi può portare facilmente l’impresa alla chiusura, perché il più delle volte si genera un circolo vizioso tra economie e disservizi conseguenti ad esse. Tuttavia ci si trova ancora nella prima fase critica, ossia in quella “strategica”. La crisi strategica, se non avvertita e gestita per tempo, è probabile che sfoci in una crisi di produzione in quanto si rallentano i ritmi produttivi, mentre i capitali in gioco ed i costi di struttura sono sempre gli stessi.

Spariscono così le economie di scala e si verifica inevitabilmente un innalzamento dei costi unitari sui prodotti o servizi. I prezzi di vendita cominciano così a non essere più remunerativi e quando si comincia a percepire la gravità di tale condizione il più delle volte è troppo tardi, si è già entrati nell’ultima fase, quella finanziaria, la più critica. L’azienda comincia ad avere carenza di liquidità e da questo stato si passa poi piuttosto velocemente a ritardi o mancati approvvigionamenti delle materie prime, quindi ritardi nelle consegne o carichi non completi. I clienti si lamentano e sul mercato le voci diventano insistenti. La situazione diventa allora più acuta, alcuni clienti importanti cominciano ad avere diffidenza e qualche agente che non riceve più provvigioni da qualche mese si sposta verso la concorrenza…è l’inizio della fine.

A questo punto, per fare un discorso costruttivo, distinguiamo tre importanti steps, cercando di capirne i sintomi e valutando le modalità di intervento, inquadrandoli in una ottica che chiameremo di turnaround, ossia di inversione di tendenza (letteralmente turn around, giro di boa).

 

Fase A – crisi della strategia. Tutte le imprese hanno un loro ciclo di vita. Quando esse, nascono è forte da parte dell’imprenditore la propensione al commercio, c’è sensibilità verso i gusti del consumatore, si recepiscono tutti i consigli utili, si ha l’umiltà di accettare gli errori e si è disposti a rimettersi in discussione. Si lavora molto, spesso a discapito delle retribuzioni ai dipendenti. In questa fase gioca un ruolo fondamentale anche l’aspetto emotivo, dato che i collaboratori si sentono “braccio destro” del titolare e sentendosi coinvolti in prima persona, partecipano attivamente agli sviluppi aziendali. Nella successiva fase di crescita, quando i fatturati cominciano ad impennarsi, le attenzioni sono molto più focalizzate sui sistemi operativi di sviluppo. Ci si preoccupa dell’efficienza tecnica e si iniziano a trascurare i fattori strategici di successo che hanno portato l’impresa alla crescita. La fase di crescita termina quando le vendite e l’apparato organizzativo cominciano a stabilizzarsi: questo significa che si è passati alla fase di maturità. In questa delicata fase intervengono solitamente diversi fattori che tendono a portare l’azienda in uno stato d’inerzia, dato che l’entusiasmo della fase iniziale è diminuito: si vive una certa tranquillità nelle attività quotidiane, la continua spinta al miglioramento rallenta, i processi sono consolidati, i fattori strategici di successo perdono di importanza e l’attenzione viene spostata sull’operato delle maestranze, dato che è si passati necessariamente alle deleghe nel sistema organizzativo. L’organigramma diventa il punto di riferimento, a discapito della gestione “ovvia” per processi e l’azienda comincia a burocratizzarsi. È probabile che inizino anche le prime conflittualità interne. Si rafforza la convinzione che squadra che vince non si cambia, a volte senza tenere in considerazione cambiamenti radicali da parte del mercato che impone un assetto organizzativo, strategico o di prodotto completamente diverso da quello vincente avuto fino ad allora.

Potrebbero iniziare le prime avvisaglie: il fatturato comincia a scemare, qualche cliente affezionato fa notare che qualcosa non è più come prima. Ma i primi consigli non vengono visti di buon occhio, l’imprenditore ha come l’impressione che qualcuno remi contro… Normalmente in questa fase il personale interno, in special modo quello commerciale, che a discapito di quanto si possa pensare ha una buona “percezione” dello stato di salute dell’impresa, si divide in “innovatori”, a volte mascherati da contestatori (da non confondere con i contestatori puri) e “tradizionalisti”. Accade anche spesso che, nonostante gli indicatori diano consapevolezza al management che qualcosa non stia più funzionando, questo momento storico viene vissuto come un segnale di insuccesso e quindi subentra il rifiuto psicologico all’accettazione e si finisce per interpretare tali segnali negativi come fenomeni da recessioni di mercato. Non è tanto il fatto di voler vedere il problema esternamente, ma piuttosto quello di chiudere gli occhi di fronte a problematiche che invece potrebbero essere interne. Il secondo ordine di problemi è costituito dal fatto che anche se si dovessero percepire dei sintomi riconosciuti come interni, molte volte avviene la fatidica caccia alle streghe e l’attenzione viene focalizzata sui problemi, piuttosto che sulle soluzioni.

Strategicamente parlando, sarebbe questo il momento giusto in cui impostare un processo di turnaround, anche se comunque la sua implementazione apporterà dei traumi per l’impresa, necessari al fine di invertire la rotta. Le soluzioni da mettere in atto sono estremamente lineari ma non sempre semplici da attuare e richiedono un tempo variabile in funzione delle attività da svolgere. Dal punto di vista delle leve da utilizzare si possono prendere in considerazione sia fattori strategici che una modifica all’assetto organizzativo e mansionario, una revisione del portafoglio prodotti con articoli e servizi nuovi e migliori o una diversificazione del business, una ristrutturazione della rete commerciale o accordi di partnership, l’apertura di nuove aree di vendita, magari estere, nuovi canali distributivi… e così via. Il turnaround manager in questo caso ha un compito molto delicato perché deve analizzare un aspetto “indefinibile” ex-ante dal punto di vista numerico: la strategia, in qualche modo valutabile solo ex-post. Ecco perché, nonostante questo sia un momento meno grave dei successivi, in interventi di questo tipo è necessario il supporto di un manager esperto a 360 gradi e votato alla strategia, più che un “commercialista”, tendenzialmente portato al calcolo ed a soluzioni di carattere economico-finanziario. A titolo esaustivo possiamo infine aggiungere che esiste una tipologia di crisi di tipo A riconducibile al passaggio generazionale. Non sono poi così rari i casi in cui gli scompensi subentrino a causa di inesperienze sul campo o scarsa pro attività in condizioni di stress elevato da parte delle nuove generazioni. In tal caso il turnaround manager dovrebbe svolgere funzioni più di tutoring che di coatching.

 

Fase B – crisi di produttività. Si identifica quando il fatturato cala e le risorse diventano esuberanti in relazione alle richieste di mercato, diciamo per esperienza, quando il tasso di attività è al di sotto del 60-70% del potenziale. In questa fase l’imprenditore ha la sensazione che i costi siano diventati eccessivi, anche se in realtà è più probabile che sia il fatturato il vero problema. Spesse volte queste sensazioni sfociano poi in una compressione dei costi in ambiti strategici, come ad esempio nella ricerca e sviluppo, quindi si verifica una sostanziale diminuzione del tasso di innovazione sui prodotti, oggi punto di forza per tutti i settori; oppure si smette di investire sull’aspetto commerciale, ad esempio ricerca di nuove aree estere, informazioni commerciali, analisi sui competitors, macroanalisi sulle tendenze di settore, visite ai clienti, meetings… È in questa fase che solitamente viene fatto ricorso agli ammortizzatori sociali (CIG nelle sue modalità o mobilità). Questa fase, se non velocemente gestita, è il preludio alla imminente fase C. Dal punto di vista delle tecniche di turnaround e sempre per esperienza, possiamo identificare queste leve su cui lavorare: riassetto organizzativo interno per processi e revisione (non distruttiva) dei costi. In questa fase è molto importante trasformare, fin dove possibile, i costi da fissi a variabili. Al fine di invertire la rotta è poi necessario mettere in atto alcune delle tipologie di attività già indicate nella fase A.

 

Fase C – crisi di liquidità. È indotta dalle tensioni economiche e dalle diseconomie perpetrate nel tempo dalla fase B. La fase A difatti crea squilibri strategici, la fase B crea squilibri economici mentre la fase C crea squilibri finanziari. I segnali sono inconfondibili: i castelletti sono interamente utilizzati, le scadenze relative alle rate dei finanziamenti/mutui non sono più rispettate, ai fornitori viene chiesta una maggiore dilazione sui pagamenti, alcuni pagamenti vengono posticipati, gli istituti di credito non concedono più finanziamenti e riducono i fidi accordati… e così via. È la fase più delicata ma forse quella che, almeno inizialmente, prende in considerazione meno variabili da gestire poiché è chiaro che qui necessiti nuova finanza oppure liquidità reperibile da un disinvestimento del circolante, di alcuni assets. L’apporto di nuova finanza può avvenire in molteplici modi, in base ai singoli casi: dalla ricapitalizzazione attraverso l’ingresso di un nuovo socio o da parte di quelli esistenti, oppure un nuovo finanziamento da parte di istituti di credito o strutture di confidi, e poi ancora lease back, Venture Capital, altre forme di shadow banking… Esistono però altre categorie di finanziamento, più interessanti della precedente perché non onerose, che impattano sul capitale aziendale: ad esempio riduzione del magazzino con vendita delle scorte, alienazione di beni non strategici, affitto di parte dell’opificio o di una sua struttura (ad esempio lastrico solaio per impianto fotovoltaico) e incasso anticipato in unica soluzione, cessione del credito… Vi sono poi svariate ed ulteriori soluzioni a quelle già citate per risolvere temporaneamente alcune tensioni finanziarie, come ad esempio i piani di rientro da crediti in sofferenza oppure la cessione di alcuni crediti a terzi… È chiaro che molto dipende dalla situazione contabile, dal livello di capitalizzazione dell’impresa, dalla sua attuale credibilità, dal volume dei beni già concessi in garanzia, dalle possibilità attuali (ad esempio è ormai rara la concessione di un leaseback e Invitalia da giugno 2012 non concede più finanziamenti volti al risanamento…), dal settore di appartenenza dell’impresa se in crescita, stagnazione o contrazione, dalla qualità della clientela… e così via.

 

In tutti i casi è utile ribadire che le attività citate, in particolar modo quelle di natura finanziaria, se non dovessero essere contestualizzate in chiave turnaround, rischierebbero sì di risanare l’impresa, ma dopo qualche anno ci si ritroverebbe nella fase critica B. Ecco perché il turnaround non è solo uno strumento eventualmente di risanamento, ma è soprattutto uno strumento che si rivela atto a ridare stabilità futura.

Un progetto di turnaround richiede l’elaborazione di un business plan orientato, se necessario, al risanamento, alla ristrutturazione ma soprattutto alle strategie per la successiva ri-crescita dell’impresa, indicando uno sviluppo sostenibile e durevole per essa, al fine di evitare ricadute in fase A. Le statistiche indicano però che l’elaborazione di una corretta strategia di crescita incide solo in misura del 20% sul successo, il restante 80% è legato ad una corretta attuazione di tutte le attività previste nel piano. Il business plan va poi costantemente revisionato e riallineato in base agli sviluppi aziendali in vista di eventuali nuovi fattori di mercato intervenuti nel frattempo. Per fare in modo che l’impresa possa vivere del proprio sostegno, è necessario anche sensibilizzare la Direzione sul concetto di inerzia che puntualmente, dopo qualche anno, prende possesso delle imprese e ne provoca l’insorgere della crisi di fase A.

È davvero importante per ciascuna impresa eseguire uno screening per valutare il proprio stato di salute e verificare se ci si trovi in condizioni buone, in uno stato di pre-crisi (fase A), in uno stato di crisi (fase B) o di dissesto (fase C). Solo il supporto di esperti in turnaround management però può garantire una chiara visione, dato che l’analisi da eseguire e le attività da svolgere sono solo in parte di natura contabile e quindi richiedono esperienze specifiche sul campo e tecniche di analisi peculiari.

Un processo di turnaround completo può richiedere da diversi mesi a qualche anno, molto dipende dalle variabili in gioco e dalla complessità dell’impresa (si pensi ad esempio al turnaround della Fiat). Anche se purtroppo in Italia gli istituti di credito non sono orientati a finanziare progetti guardando la validità e la concretezza delle idee e dei progetti, come avviene ad esempio in America, nella maggior parte dei casi, sempre per esperienza, un piano elaborato con le giuste leve può risanare in chiave turnaround quasi tutte le situazioni aziendali, anche le più critiche.

 

Tuttavia dal punto di vista prettamente contabile, nei processi di turnaround può venire in aiuto uno strumento tanto semplice quanto efficace: Simulation. Simulation è un software che, attraverso l’inserimento di un conto economico e, volendo, dello stato patrimoniale, riesce a “ricostruire” un ottimale assetto economico-finanziario-patrimoniale per l’impresa, grazie a specifici algoritmi di calcolo. Può agire “da solo” indicando la soluzione più adatta o anche intervenendo manualmente, per tale motivo costituisce una vera soluzione alle attività di pre-pianificazione. Simulation determina poi la concretezza degli obiettivipianificati poiché valuta l’oggettiva fattibilità del piano (proposte realistiche e praticabili). Il programma rilascia in automatico anche le strategie applicabili all’impresa in modo da rendere agevole la successiva stesura del business plan in chiave turnaround.

Simulation è un software molto semplice da utilizzare ed estremamente economico, il video è visibile a questo indirizzo:

 

Simulation è disponibile sul sito Commercialista Telematico

12 febbraio 2014

Luciano Cipolletti