Transfer pricing: come calcolare il valore normale?

per calcolare il valore normale da utilizzare nelle operazioni infragruppo (nel caso di controllata italiana che cede prodotti alla controllante belga) si deve utilizzare il valore di mercato determinato in base ai prezzi praticati in Italia dalla stessa società venditrice

Con la sentenza n. 24005 del 23 ottobre 2013 (ud. 11 dicembre 2012) la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di transfer pricing e valore normale.

 

Il fatto

A seguito di verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza nei confronti della società italiana S.I., i cui risultati venivano trasfusi nel processo verbale di constatazione del 05.02.98, l’Ufficio rideterminava i corrispettivi relativi a cessioni di merci (soda e bicarbonato di sodio) effettuate da detta società a favore di società estere appartenenti allo stesso gruppo e, segnatamente, nei confronti della casa madre S. sa.

 

I prezzi praticati, in relazione alle suddette cessioni infragruppo, risultavano, infatti, notevolmente inferiori al “valore normale” delle cessioni stesse (determinabile ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 9 e 76) e, in particolare, ai prezzi praticati in Italia dalla stessa società venditrice, risultati superiori di oltre il 44%, rispetto a quelli risultanti dalle predette transazioni infragruppo.

 

L’Amministrazione finanziaria provvedeva, pertanto, a recuperare a tassazione il maggiore importo dei ricavi conseguiti dalla società madre acquirente (S. sa) attraverso la consociata italiana S.I. (sottratti all’imposizione in Italia col trasferimento di utili all’estero, operato mediante l’applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti) rispetto al minore importo contabilizzato dalla contribuente per l’anno 1997, per una somma complessiva di Euro 1.023.862.

 

Avverso l’avviso di accertamento, col quale l’Amministrazione ha, di conseguenza, rettificato la dichiarazione della S. sa per l’anno 1997, accertando una maggiore IRPEG ed una maggiore ILOR, ha presentato ricorso la contribuente denunciando l’erronea individuazione del “valore normale“, operata con riferimento al prezzo praticato in Italia, anzichè a quello praticato nello Stato di destinazione della mercè.

La tesi della S. sa ha trovato accoglimento, sia da parte della CTP che da parte della CTR, avverso la cui pronuncia l’amministrazione insorge davanti la Corte di Cassazione.

 

La sentenza

Il punto centrale della questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione risiede sulla valutazione in base al “valore normale” dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, che va determinato ai sensi dell’art. 9, del D.P.R. n. 917 del 1986.

 

Precisa la Corte che “l’applicazione delle norme sul transfer pricing non combatte l’occultamento del corrispettivo, costituente una forma di evasione, ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese, consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all’altro, sì da influire in concreto sul regime dell’imposizione fiscale”.

 

Il criterio cardine, per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, è costituito dal principio di libera concorrenza, fondato, cioè, sul regime che si instaura tra “imprese indipendenti“; principio, pertanto non a caso fiscalmente posto in diretta correlazione con la definizione del “valore normale” dei beni o dei servizi, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, richiamato dall’art. 76, cc. 2 e 5, (ora art. 110, cc. 2 e 7) dello stesso decreto. Le norme suindicate stabiliscono, in definitiva, l’irrilevanza, ai fini fiscali, dei valori concordati dalle parti nell’ambito di transazioni “controllate” e l’inserimento automatico nelle transazioni medesime di valori legali, ancorati al regime della libera concorrenza (valore normale, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 9).

 

Rileva la Corte che “il problema che si pone al riguardo, sul piano interpretativo, concerne anzitutto il rapporto tra la prima e la seconda parte dell’art. 9, comma 3, del decreto cit.. Non a caso, infatti, la non facile esegesi della disposizione ha indotto – nel caso concreto – dapprima la CTP, poi anche la CTR, a ritenere applicabile tout court alle alienazioni infragruppo, al fine di determinare il prezzo di libera concorrenza, il metodo del c.d. confronto esterno, per di più ritenuto applicabile alle operazioni commerciali che si svolgono nel mercato estero dell’acquirente. Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto, invero, che l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare il prezzo praticato in transazioni comparabili a quelle oggetto di verifica, avvenute tra soggetti indipendenti operanti nel mercato dell’acquirente, ovverosia nel mercato belga, e non fare riferimento – come è, in concreto, accaduto -alle condizioni di vendita degli stessi beni praticate nel mercato del venditore, ossia nel mercato italiano”.

 

La disposizione di cui all’art. 9, c. 3, nella prima parte, definisce il “valore normale” come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi“. La seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri per la determinazione del valore normale, disponendo che debba farsi riferimento, a tal fine, “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso“.

 

Secondo la Corte, “è evidente, pertanto, che la clausola antielusiva di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5 (ora art. 110, comma 7), che regola il c.d. transfer pricing, nel richiamare il disposto dell’art. 9 dello stesso decreto, non fa che disporre l’applicazione – per la determinazione del reddito di impresa nelle operazioni infragruppo con società estere, e per le ragioni di politica fiscale sopra evidenziate – dei medesimi criteri che devono ispirare l’accertamento dello stesso reddito, da parte dell’Amministrazione finanziaria, nei confronti di imprese che operino esclusivamente sul territorio nazionale. E’, invero, acquisizione pacifica – nella giurisprudenza di questa Corte – quella secondo cui dal menzionato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, deve trarsi un principio generale, in base al quale l’Amministrazione è tenuta a valutare, ai fini fiscali, le varie prestazioni che costituiscono le componenti attivi e passive del reddito secondo il valore di mercato. Ed invero, l’Ufficio non è in alcun modo vincolato – nella valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, ed anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa – ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti (Cass. 10802/02, 9497/08)”.

 

Tali determinazioni contabili e convenzionali dei contribuenti “non potrebbero vincolare l’Amministrazione – come dianzi detto – nelle operazioni commerciali poste in essere all’interno di un gruppo di società, forte essendo il sospetto – che ha indotto il legislatore ad adottare la suddetta previsione antielusiva – che in siffatta evenienza vengano applicati dalle parti prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti all’acquirente estero, onde sottrarli alla tassazione in Italia, a favore di regimi fiscali stranieri più favorevoli”.

 

Essendo tale “la ratio della previsione di cui al combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, e art. 76, comma 5 (ora art. 110, comma 7), è del tutto evidente l’errore nel quale è incorsa, nel caso concreto, la CTR, nel ritenere che l’Ufficio, in sede di accertamento del reddito di impresa, avrebbe dovuto compiere una comparazione tra i prezzi praticati nel solo mercato di destinazione delle merci cedute dalla S.I. alla S. s.a., ossia nel mercato belga, avendo la società madre sede principale a Bruxelles, e non in quello dell’impresa cedente, ossia nel mercato italiano. Tale erronea valutazione del giudicante di seconde cure si è, difatti, tradotta – a giudizio della Corte – nella falsa applicazione delle norme summenzionate, oltre che in un palese vizio motivazionale, avendo la CTR del tutto pretermesso l’esame delle argomentazioni esposte, in proposito, dall’Amministrazione finanziaria”.

 

Pertanto, in senso contrario a quanto opinato dal giudice di appello, il criterio prioritario per stabilire il “valore normale” dei corrispettivi, nelle vendite tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello “– enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, che disciplina specificamente le modalità ‘per la determinazione’ del valore in questione – secondo cui deve farsi riferimento ‘in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso’. La norma, in altri termini, impone all’Amministrazione di prendere in considerazione, nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i ‘listini’ e le ‘tariffe’ del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza”.

 

Quindi, in caso di inesistenza o diinattendibilità del listino o della tariffa, la medesimadisposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, imercuriali” ed i “listini delle camere di commercio“, o le “tariffe professionali“.

 

Ne discende che la definizione del “valore normale” contenuta nella prima parte del citato art. 9, c. 3 (sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch’essa un innegabile valore precettivo) svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la “determinazione” del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini, alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del venditore, si riveli di nessuna utilità pratica, per la loro inesistenza, o per la loro inattendibilità.

 

Del tutto corretto è da ritenersi il ricorso, da parte dell’Ufficio, alla comparazione tra i prezzi praticati dalla SI sul mercato nazionale, desumibili dai listini e dalla documentazione contabile della contribuente, e quello stabiliti nella transazione con la casa madre S s.a.. In altri termini, l’applicazione da parte dell’Amministrazione finanziaria del criterio enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, non ha fatto che tradursi nell’esatta osservanza della norma, laddove stabilisce che, nella determinazione del ‘valore normale’ dei prezzi delle cessioni infragruppo, ci si debba riferire, in primis, ai listini ed alle tariffe adoperati dal cedente italiano”.

 

Nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” occorre dare preferenza “al c.d. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra l’impresa controllata ed un’impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, ‘in quanto possibile’, e tenuto conto di eventuali ‘sconti d’uso’. In seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti (c.d. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato. Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l’Ufficio potrà fare ricorso – ai sensi della prima parte dell’art. 9, comma 3 succitato – al prezzo ‘mediamente praticato’ ed in ‘condizioni di libera concorrenza’ per beni o servizi similari, ‘nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi’; questi ultimi ben potendo essere determinati da mercati esteri più vicini a quello nazionale del venditore”.

 

I precedenti giurisprudenziali

Nel corso del 2013 sono tre i precedenti della Corte di Cassazione che ci piace ricordare.

  • La sentenza n. 10739 dell’8 maggio 2013 (ud. 28 novembre 2012), con cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto legittimo il rilievo dell’ufficio in materia di transfer pricing, anche in assenza di elusione. Secondo la Corte di Cassazione, è “necessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati ‘in condizioni di libera concorrenza’ con riferimento, ‘in quanto possibile’, a listini e tariffe d’uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall’Amministrazione la prova dell’elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo”.

  • La sentenza n. 11949 del 13 luglio 2012 (ud. 4 aprile 2012), peraltro richiamata nella sentenza che si annota, dove la Corte di Cassazione aveva, invece, classificato come elusiva un’operazione di transfer pricing all’interno di un gruppo multinazionale. Per la Corte, se è vero che la violazione di una clausola antielusiva comporta, come ritenuto dal giudice di seconde cure, che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di fatto dell’elusione gravi, in via di principio, sull’amministrazione finanziaria che intenda operare le conseguenti rettifiche (cfr. Cass. 22023/06), è pur vero che, “ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotto in un’effettiva utilità per la controllata. L’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negative del reddito, e qualora si tratti – come nella specie – di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all’amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può pertanto che cedere – in forza del principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente (cfr. Cass. 1709/07)”. La Corte, quindi, rileva l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto che l’Agenzia non avesse adempiuto l’onere di provare il dedotto comportamento elusivo del contribuente, in violazione delle norme sul transfer pricing. La CTR ha, invero, del tutto pretermesso l’esame dei numerosi e consistenti rilievi, “che l’amministrazione aveva formulato in ordine all’epoca “sospetta” (a fine esercizio) in cui era stata operata la contabilizzazione della predetta fattura passiva, nonchè alla natura stessa dell’operazione, consistente in una rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla fornitrice estera su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software, ed in un notevole scostamento dai prezzi di acquisto degli stessi beni da parte della contribuente italiana”.

  • La sentenza n. 22010 del 25 settembre 2013 (ud. 4 luglio 2013) con cui la Corte di Cassazione ha affermato che per ritenere sussistente il transfer pricing va provato lo scostamento dal valore normale. Rileva la Corte che nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” occorre dare preferenza al c.d. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra tale soggetto ed un’impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, “in quanto possibile“, e tenuto conto di eventuali “sconti d’uso“. In seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti (c.d. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato, ossia a quello del soggetto fornitore dei beni o dei servizi. Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l’Ufficio potrà fare ricorso (ai sensi della prima parte dell’art. 9, c. 3, cit.) al prezzo “mediamente praticato” ed in “condizioni di libera concorrenza” per beni o servizi similari, “nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi“. Nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria si è correttamente uniformata ai criteri suesposti. “Ed invero, l’Ufficio ha proceduto a verificare il valore normale del tasso di interesse relativo alla transazione intercorsa tra le due società, facendo riferimento al mercato del mutuante, e sulla base dei bollettini ufficiali della BundesBank tedesca, in conformità al disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, seconda parte”.

 

10 dicembre 2013

Francesco Buetto