Processo tributario: il giudice è soggetto terzo

Anche il processo tributario deve rispettare le garanzie costituzionali ed essere “giusto”, parola di Cassazione!

I motivi e le circostanze contenuti nell’atto di accertamento non possono essere mutati nel corso del giudizio, né il giudice può modificare i termini della contestazione rivestendo la qualità di terzo rispetto alle parti e al processo.

L’importante principio è contenuto nella ordinanza n. 7158 del 29 marzo 2011 della Corte di Cassazione da cui emerge che nel processo tributario di secondo grado l’amministrazione non può modificare i termini della lite, deducendo motivi diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento e né il giudice può mutare l’oggetto della contestazione nel rispetto del principio di terzietà fissato dall’art. 111 della Costituzione.

 

La posizione di terzietà del giudice nel processo – L’art. 111, comma 2, Cost, così come modificato dalla legge cost. 23 novembre 1999, n. 2, afferma che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità”, davanti a giudice terzo e imparziale.

La legge ne assicura la ragionevole durata”. Il principio del giusto processo, valevole anche per il giudizio tributario, si connota, quindi, dei caratteri della terzietà e dell’indipendenza che il legislatore pretende dal giudice secondo la definizione letterale contenuta nella norma in esame.

 La figura del giudice terzo ed imparziale incardinato nel processo “giusto” posto a garanzia del soggetto che lo promuove o ad esso è sottoposto, ma soprattutto, a garanzia dello stesso ordinamento giuridico in nome del quale opera, considerato che la inalterabilità dell’ordinamento dipende dalla accettazione del giudice.

Il principio in esame, pertanto, pone le parti processuali su un piano di perfetta parità dinanzi ad un giudice che necessariamente deve assumere la posizione di soggetto terzo e che deve garantire l’imparzialità.

Sul tema in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la posizione di terzietà del giudice, impedisce, in difetto di qualsiasi interesse pubblico, il potere di rilevare d’ufficio l’eventuale carenza di titolarità della situazione giuridica sostanziale in quanto anche per l’obbligazione tributaria il difetto di tale titolarità non è rilevabile d’ufficio posto che è rimessa al solo potere dispositivo della parte che intende farla valere, su cui gravano anche gli oneri di allegazione e di prova. (Cass. 29 dicembre 2010, n. 26259; inoltre sul tema cfr. Cass., 3 giugno 2009 n. 12832; 9 aprile 2009 n. 8699; 15 settembre 2008 n. 23670; 30 maggio 2008 n. 14468).

 

La fattispecie – Il contribuente, svolgente attività di ristorazione, ha impugnato l’accertamento dell’ufficio finanziario e i giudici tributari di primo e secondo grado hanno respinto i ricorsi proposti dallo stesso. In particolare, la C.T.R. ha rigettato l’appello ritenendo che le gravi incongruenze della contabilità legittimavano l’accertamento induttivo, nonostante vi fosse un errore nel calcolo del numero dei pasti desunto dal consumo del caffè, errore che risultava compensato dal mancato computo nell’accertamento dell’omessa fatturazione di alimenti necessari alla alimentazione.

La Suprema Corte ha accolto l’eccepito vizio di motivazione commesso dai giudici di secondo grado in quanto, secondo il ricorrente, la C.T.R. non aveva tenuto conto, in modo illogico, nella ricostruzione induttiva dei ricavi, dell’errore aritmetico accertato e di non aver motivato sul minore prezzo medio dei pasti risultante dalle ricevute esibite. I giudici di legittimità hanno rilevato che la sentenza di appello non conteneva alcuna considerazione sul prezzo medio dei pasti e, in ordine all’errore aritmetico, non traeva le conseguenze in tema di ricavi. La sentenza di secondo grado opponeva fatti di cui non si era tenuto conto nell’accertamento iniziale per la quantificazione dei ricavi, in violazione del principio della immutabilità della contestazione contenuto nell’atto di accertamento.

Sul tema in esame, la stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha ritenuto che nel giudizio tributario di appello, l’amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione, eccependo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento. Tale principio vale soprattutto per i giudici tributari stante l’osservanza del principio di terzietà che deve connotarli.

Al pari del contribuente che non può introdurre nuovi motivi (cause pretendi)1della domanda di annullamento dell’atto impositivo, l’amministrazione non può mutare i termini della contestazione deducendo motivi e circostanze di fatto diversi da quelli contenuti nell’avviso di accertamento (Cass. 29 ottobre 2008, n. 25909).

In altro interessante pronunciamento la Suprema Corte, accogliendo la tesi diretta a garantire il diritto di difesa del contribuente, ha ritenuto, dichiarando nullo l’atto, che l’ufficio non può modificare in giudizio i motivi e le circostanze che sono alla base dell’accertamento; i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche possono essere diversi ma non in contrasto tra loro, in quanto sono finalizzati a sostenere una decisione dell’amministrazione, anche se impugnabile (Cass. 30 novembre 2009, n. 25197).

 

11 maggio 2011

Enzo Di Giacomo

1 Il concetto della causa pretendi è mutuato dal di diritto processuale civile, intendendo con esso il titolo giuridico o la ragione giustificativa della domanda attrice. Costituisce uno degli elementi oggettivi dell’azione civile e la sua assenza comporta la nullità dell’atto.