Nelle società con pochi soci è legittima la presunzione di distribuzioni di utili occulti

Quando una società di capitali ha un limitato numero di soci, in caso di accertamento si può presumere che gli utili non dichiarati siano stati erogati ai soci.

distribuzione di utili occuluti ai sociLa legittimità della presunta distribuzione in capo ai soci degli utili non contabilizzati da parte delle società a ristretta base azionaria è ormai consolidata, pur sé per le società di capitali, di norma, vige, ai fini tributari, la netta separazione tra la società e i singoli soci.

Gli uffici finanziari, nel corso di questi anni, non hanno mancato di rilevare che la separazione tra la posizione della società di capitali e quella dei soci non può costituire un muro invalicabile, per le società a ristretta base azionaria e/o familiare, quando risulti acclarata l’esistenza di maggiori utili, derivanti magari da ricavi non contabilizzati, e percepiti fuori bilancio.

Come sostenuto dalla più autorevole dottrina(1)

“concettualmente non è detto che una presunzione di secondo grado, in quanto tale sia sempre troppo debole per poter essere presa in considerazione. La presunzione di secondo grado (cioè basata su un fatto a sua volta presunto) sarà senza dubbio meno rigorosa della prima presunzione, ma non si può escludere che in determinati casi sia abbastanza convincente; e perciò èun luogo comune (o meglio vale solo come ammonimento tendenziale) l’espressione secondo cui sarebbe vietato trarre presunzioni da presunzioni (Praesumptum de praesumpto non admittitur)”.

La stessa dottrina citata afferma che

“verso questo luogo comune la giurisprudenza ha però un atteggiamento di formale rispetto, perché parla di presunzioni di secondo grado solo quando si tratta di respingerle; quando invece una presunzione di secondo grado le sembra fondata la accetta, senza prendere posizione sul problema generale, conformante con il suo compito di risolvere controversie, non di sistemare gli istituti giuridici o di fare dottrina. In concreto il divieto di doppie presunzioni può avere il potere di suggestione che hanno molti luoghi comuni, e può fare un certo effetto quando il giudice è perplesso; un solenne praesumptum de praesumpto non admittitur, messo al punto giusto di un ricorso, può suonare bene per abbellire le nostre tesi (ad colorandum, come qualche volta si dice in gergo avvocatesco); l’importante è però che queste tesi siano per altri versi fondate, e che non si faccia affidamento solo sull’astratto divieto di doppie presunzioni”.

In pratica prosegue l’autore, “il divieto di presunzioni di secondo grado è solo un utile luogo comune per respingere le presunzioni che non convincono, come ha rilevato da quasi un secolo chiunque abbia approfondito l’argomento(2), ma si rinuncia malvolentieri ai luoghi comuni, specie se innocui ed espressi nella lingua di Cicerone”.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione si ormai consolidata, aderendo alle tesi degli uffici. Partendo dall’ultimo pronunciamento di questi giorni, offriamo al Lettore una carrellata delle sentenze più significative.

Il pronunciamento della Cassazione

Con sentenza n. 20721 del 6 ottobre 2010 (ud. dell’11 maggio 2010) la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui

“in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione, ai soci, degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione,per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti” (Corte di cassazione 8 luglio 2008, n. 18640).

I precedenti giurisprudenziali

La legittimità di tale interpretazione presuntiva – imputazione in capo ai soci dei maggiori redditi accertati in capo alla società – in presenza di società a base familiare, o comunque a ristretto azionariato, è stata ritenuta legittima dalla Corte di Cassazione con sentenza 19.2.1990, n.11785.

La Corte di Cassazione ha affermato che la ristretta base azionaria costituisce, da sola, la prova presuntiva di distribuzione degli utili ai soci, capovolgendo così l’onere della prova.

Fra le altre, la Cassazione con sentenza n. 4695 del 18.10.2001, depositata il 2.4.2002, ha confermato che la ristretta base familiare di una società di capitali può costituire il fatto noto che consente all’ufficio di risalire, in via di presunzione, a quello ignorato della distribuzione ai soci del maggior utile non contabilizzato.

A distanza di pochi anni(3) – sempre la Cassazione – sentenza n. 21573 del 23 giugno 2005 (dep. il 7 novembre 2005) – ha affermato che qualora il socio di una società a ristretta base azionariadeduca di aver presentato denuncia penale contro l’amministratore, sul cuiconto personale sono stati rinvenuti gli utili occultati, il giudice dimerito deve valutare se questi elementi indiziari siano tali da vincere lapresunzione secondo cui gli utili occulti di una società a ristretta baseazionaria vengono percepiti dai soci.

Per la Corte, l’imputazione si basa su di una regola di esperienza secondo cui nelle società di capitali in cui i partecipanti costituiscono ungruppo ristretto, spesso legato da vincoli più o meno stretti disolidarietà familiare, nella normalità dei casi, si può ragionevolmenteritenere che gli utili occultati siano stati distribuiti proporzionalmenteai singoli soci così come avviene per tutti gli utili nelle società dipersone, per i quali il principio dell’imputabilità dei profitti ai sociindipendentemente dalla loro effettiva percezione è sancitolegislativamente.

La Corte si sofferma pure sul peso della quota in rapporto ai vincoli di parentela, così che non appare corretta la valutazione del contribuente secondo cui un socio che detenga il 12,5 % del capitale sociale non poteva essere considerato socio di una compagine a ristretta base sociale, dal momento che in realtà i soci erano cinque in tutto, e due fratelli insieme detenevano il 25 per cento del capitale. In ordine al procedimento presuntivo utilizzato, gli estensori della sentenza evidenziano che siamo in presenza di una presunzione semplice, provvista certo di una propria validità di fondo, ma basata sostanzialmente sull’id quod plerumque accidit.

E la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili non contabilizzati di una società di capitali, a ristretta base azionaria (nel caso di specie, con due soci: marito e moglie), non viene meno per il fatto che, in sede penale, sia stato accertato che il socio di minoranza (la moglie) non aveva partecipato alla gestione aziendale, semmai avrebbe potuto assumere rilievo una controversia civile promossa contro l’amministratore ex art. 2392 del codice civile (così si esprime la Cassazione con la sentenza 26.10.2005, n. 20851).

Ulteriori sentenze sono state emesse di recente:

  • con la sentenza n. 11724 del 6.4.2006, dep. il 18.5.2006, la Suprema Corte ha affermato che costituisce ius receptum, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo il quale nell’accertamento di maggior base imponibile a carico di una società di capitali a ristretta base azionaria non occorre una prova specifica dell’attribuzione al socio degli utili non contabilizzati, operando una presunzione relativa di ripartizione pro quota superabile dal contribuente tramite prova contraria e con la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati ovvero reinvestiti; secondo la Corte, “non vi è motivo per discostarsi da tale orientamento giurisprudenziale nel caso di specie, così che la sentenza impugnata, che ad esso non si è uniformato senza convincente motivazione, deve essere cassata, con rinvio della controversia ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio, affinché la lite sia decisa facendosi corretta applicazione del principio di diritto innanzi ribadito”;

  • con la sentenza n. 25689 del 26.10.2006 (dep. il 4.12.2006) la Corte di Cassazione, nel riconfermare l’indirizzo, lo estende – di fatto – anche in relazione ai proventi illeciti.Per la Cassazione, “gli accertamenti tributari di cui è causa traggono origine da evasione di imposta su vendite di prodotti petroliferi effettuati dalla società partecipata senza contabilizzazione nei libri sociali e dunque di attività di occultamento di ricavi messi in atto dalla stessa società. Non è perciò pertinente il richiamo a redditi che deriverebbero dall’attività delittuosa compiuta solo da taluni soci che non si rifletterebbe sulla posizione degli altri”;

  • con la sentenza n. 10982 del 3.4.2007, dep. il 14.5.2007, la Corte, una volta acclarata la presunzione secondo cui nelle società di capitali a ristretta base sociale i redditi occulti siano stati distribuiti fra i soci, ne discende l’obbligo per la società di provvedere anche alle ritenute alla fonte su tali redditi. Del resto, prosegue la Corte, “ex art. 5, comma 1, del D.P.R. n. 597/1973 i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice, che hanno nel territorio dello stato la sede legale o amministrativa o l’oggetto principale dell’attività, sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dall’effettiva percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. E nella specie si tratta appunto di redditi accertati nei confronti della società resistente a seguito di maggior redditi accertati in capo a società in accomandita semplice di cui la F. resistente era compartecipe in varia misura”; la Corte richiama precedenti pronunce – tra le quali la n. 16885/2003 – in cui si è osservato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria ovvero a base familiare, pur non sussistendo – a differenza di una società di persone – una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi illogica – tenuto conto della complicità che normalmente avvince un gruppo così composto – la presunzione (semplice) di distribuzione degli utili extracontabili ai soci. Lo stesso principio è affermato dalla Cassazione nella sentenza del 16.5.2002, n. 7174, la quale, nel caso di società a ristretta base azionaria, ha ritenuto ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, presunzione che non viola, in ogni caso, il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci. Nello stesso senso, Cass. 3.3.2000, n. 2390. Può quindi dirsi ius receptum il principio secondo il quale, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, in caso di accertamento di utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti (nello stesso senso vd. anche Cass. n. 20851/2005), con il conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta;

  • con la sentenza n. 7910 del 5.3.2007 (dep. il 30.3.2007) la Cassazione ha ritenuto legittima la pretesa erariale per il pagamento dell’Irpef evasa e delle conseguenti sanzioni rivolta al socio accomandatario di una società in accomandita semplice, in conseguenza dell’accertamento a suo carico di un maggior reddito, stante la presunzione legale di avvenuta percezione dei maggiori utili (salva la prova del contrario da parte del contribuente), a prescindere dalle circostanze (ininfluenti rispetto all’obbligo di pagamento dell’Irpef) relative al carattere reale o fittizio della società od anche alla sua ammissibilità o inammissibilità, in base alle norme regolanti l’esercizio delle libere professioni;

  • in presenza di società di capitali a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili né ricorre il divieto di presunzione di secondo grado. E’ questa, in estrema sintesi, la massima della sentenza della Cassazione n. 21415 del 28.9.2007, dep. l’11.10.2007. La Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia è fondato, “atteso che la sentenza impugnata è stata resa in violazione del principio elaborato da questa Corte (sentenza n. 7174/2002) e secondo il quale, nel caso di società a ristretta base sociale, è ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale”. Pertanto, ove, come nella specie, si versi dinanzi ad una società di capitali a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, attesa la mancanza – trattandosi di utili occulti – di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio (dopo la quale soltanto può essere effettuata la distribuzione degli utili dichiarati), la distribuzione si presume avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli utili sono stati conseguiti (Cass. n. 7564/2003);

  • con sentenza n. 3972 del 19 febbraio 2009, udienza del 19 novembre 2008, è stata confermata – anche alla luce anche della sentenza n. 6197 del 16 marzo 2007 – la legittimità della “presunzione di attribuzione, ai soci, degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti”;

  • con sentenza n. 9519 del 22 aprile 2009 (ud. del 20 marzo 2009) la Corte di Cassazione ha osservato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, è legittima la presunzione di attribuzione, ai soci, degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine sufficiente nemmeno la eventuale mera deduzione del profilo per cui l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. anche Cass. Sentenze n. 6197 del 16/03/2007, n. 20851 del 26/10/2005, n. 16885 del 2003)”. Inoltre, nota la Corte, che ciò “non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società,… ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale”;

  • con sentenza n. 13338 del 10 giugno 2009 (ud. del 20 marzo 2009) la Corte di Cassazione ha affermato che la personalità giuridica attribuita agli enti societari non costituisceostacolo all’operatività della presunzione dell’imputazione degli utiliextracontabili ai soci di società di capitali a ristretta basepartecipativa. In ossequio ai principi di uguaglianza, capacità contributiva e divieto di abuso del diritto, tale presunzione è applicabile anche in ipotesi di sussistenza di una partecipazione mediata dall’intermediazione di altra persona giuridica;

  • con sentenza n. 17358 del 24 luglio 2009 (ud. del 5 febbraio 2009) della Corte di Cassazione, i giudici prendendo atto del dato oggettivo da cui è partito l’ufficio – riscontro di utili non contabilizzati, derivanti dall’attività d’impresa di una società a ristretta base sociale – ne hanno dedotto che tali utili si dovessero presumere distribuiti ai soci, cui incombeva semmai la prova della loro diversa destinazione. A fronte di ciò, la Corte ha rilevato che tale impostazione trova riscontro nella giurisprudenza pregressa, “secondo cui nel caso di una società di capitali, pur non sussistendo – a differenza di quanto previsto per le società di persone – una presunzione legale di distribuzione dell’utile ai soci, l’appartenenza della società ad una stretta cerchia familiare può costituire, sul piano degli indizi, elemento di prova dell’avvenuta distribuzione degli utili in questione (Cassazione civile sezione 5′, n. 2390 del 3 marzo 2000, cfr. altresì Cassazione civile, sezione 5′, n. 3254 del 20 marzo 2000 secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristrettissima base familiare, pur non sussistendo – a differenza delle società di persone – una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi illogica – tenuto conto della complicità, che normalmente avvince un gruppo così composto – la presunzione semplice di distribuzione degli utili extracontabili ai soci)”. Pertanto, una volta stabilito che la titolarità delle azioni e l’organizzazione aziendale sono concentrate in una stretta cerchia familiare, il giudice di merito non può escludere la distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, limitandosi ad enunciare l’inapplicabilità dell’art. 5 del T.U. n. 917/86 (cfr. Cassazione civile, sezione 5′, n. 4695 del 2 aprile 2002).

 

 

Leggi anche:

Piccole società: la distribuzione di utili occulti ai soci è elusione

Distribuzioni di utili occulti ai soci in società a ristretta base

Recentissimo Società a ristretto azionariato: la paritaria partecipazione agli utili occulti

 

 

Note

1) LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Ipsoa Editore, Milano, 2001, pag. 484.

2) ad esempio LESSONA, Trattato delle prove in materia civile, Torino, 1902, V, 322, ss., CAVALLONE, Critica alla teoria delle prove atipiche, in Riv. Dir. Proc.le, 1978, 701.

3) Si segnalano, comunque, altri precedenti : Cass. 25.7.2002, n. 10951; Cass. 15.5.2003, n. 7564.

21 ottobre 2010

Gianfranco Antico